Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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mercoledì 30 ottobre 2024

RIPENSANDO SECCHIA E I SUBALTERNI: PER UN'ANALISI DI FASE, OGGI

 

da Paolo De Nardis, Alessandro Barile, Danilo Ruggeri, Ferdinando Dubla



Pietro Secchia (1903-1973)

L'OFFICINA DI SECCHIA

Scomparsa ogni ipotesi realizzabile di alternativa politica, per le classi dirigenti non è più necessario ricercare una qualche forma di consenso da parte dei subalterni. Basta il governo della popolazione, dinamica questa che ha portato lo Stato a ritirarsi dal suo ruolo di attore economico per tornare a svolgere quelle funzioni "minime" pre-novecentesche. Uno Stato amministrativo-repressivo, che ha reso marginali tutta una serie di soggetti sociali un tempo integrati nel sistema di rappresentanza politica e capaci di strappare quote di benessere economico non secondarie. Il disinteresse statale all'inclusione di determinate quote di popolazione ha prodotto la dinamica descritta dai media generalisti come "crisi della democrazia", cioè l'impossibilità congenita dei sistemi liberali di rappresentare politicamente tutti i soggetti sociali di un paese. Crisi, questa, che in assenza di alternative politiche si va esprimendo sempre di più nel rifiuto alla partecipazione elettorale e nei saltuari riot urbani, sintomatici di una mancata integrazione politica e al tempo stesso "gemito" alienato di una impossibile inclusione nella società integrata. Al contempo, l'affacciarsi sullo scenario interno di figure migranti centrali nel processo di valorizzazione del capitale, ma completamente escluse da ogni possibile rapporto con la rappresentanza politica ha complicato ulteriormente il quadro. Oggi le periferie metropolitane rivestono più la forma di retroterra coloniale che parti integrate di un "sistema paese". Periferie dove (soprav)vive un proletariato sempre più inserito nei gangli produttivi decisivi per reggere la competizione internazionale basata sulla produttività senza limiti ma che al contempo rappresenta "altro da sè" rispetto alla società riconosciuta, quella ufficiale e ufficialmente rappresentata dall'offerta politica generalista. Una discrasia socio-politica che non potrà che produrre, nel futuro, crisi strutturali del sistema politico dei paesi dell'Occidente capitalistico.

Alessandro Barile, Danilo Ruggieri: "Pietro Secchia rivoluzionario eretico - Scritti scelti". Presentazione di Paolo De Nardis, Bordeaux ed., 2016, pag.40.



I testi che presentiamo in questa antologia hanno un filo comune che li lega e rappresentano in qualche modo il lascito politico di Pietro Secchia alle generazioni a venire, nel senso che sia nell'introduzione al testo Le armi del fascismo (Feltrinelli, 1971), che nello scritto postumo dedicato alle "nuove generazioni" (Lotta antifascista e giovani generazioni, La Pietra, 1973, uscito qualche mese dopo la sua morte, avvenuta il 7 luglio 1973, a seguito di una improvvisa e da molti considerata misteriosa malattia), l'anziano dirigente biellese sintetizza parte di un grande lavoro di sistemazione, di raccolta, di elaborazione e bilancio storico ma soprattutto politico della lotta antifascista e della Resistenza, intesa e concepita come un'opera viva, non una vicenda logora, per addetti ai lavori, da consumare in qualche stantìo convegno celebrativo, ma come un'arma di lotta, di coscienza e di organizzazione per le nuove generazioni. La lettura politica del passato, dei suoi errori soggettivi e dei suoi limiti oggettivi, è vissuta come patrimonio da trasmettere alle nuove avanguardie e alle masse popolari che si affacciano alla storia presente, rivendicando giustizia sociale, diritti e un'intera nuova società. Questo è il profilo politico che Secchia delinea per la sua attività negli anni caldi della contestazione studentesca e operaia. Egli tenta con la sua opera di svolgere una funzione ideale di ponte e di attenzione verso le nuove forme della politica che si sviluppano molto spesso fuori dal partito comunista e sempre più spesso anche in contrasto con esso.

Ivi, pp.109-110 


LINEA ROSSA E LINEA NERA

Non è chiara la rottura irreparabile e fratricida, con una violenza verbale (e non solo quella) ben oltre i limiti di una polemica politica, nel PCd’I (m-l), fra quella che fu indicata come la linea nera e la linea rossa e che obiettivamente vanificò il tentativo più serio, da parte marxista-leninista, di costruire una forza di classe organizzata e di massa alla sinistra del PCI. Il numero di Lavoro Politico n.11/12 (ottobre 1968-gennaio 1969) e il numero ‘unico’ de Il Partito di martedi 21 gennaio 1969,  le due testate della linea rossa contrapposte a Nuova Unità, indicata poi come organo della linea nera,  centralizzano le differenze sul tema dell’organizzazione e danno conto della scissione come atto inevitabile per ripulire il partito dall’opportunismo e carrierismo infiltratosi e dalla sterilità parolaia dei gruppi dirigenti, dal loro massimalismo verbale di natura libresca (il dogmatismo) che cercava di nascondere la inattività e la pochezza dell’azione politica. L’atto storico della rottura si consumò nel Comitato Centrale del 6 ottobre 1968 fra il gruppo facente capo a Fosco Dinucci, Pesce e il responsabile dell’organizzazione Risaliti (costituitisi autonomamente il 24 novembre successivo) e il gruppo Peruzzi-Gracci. Questi ultimi ebbero l’appoggio della maggioranza della redazione di Lavoro Politico, mentre i primi conservarono la proprietà della testata Nuova Unità. E’ emblematico ravvisare l’analisi della rottura dai documenti della linea rossa:

“Idee, modi di vedere e comportamenti borghesi contrastano in modo irrimediabile con le idee, i modi di vedere e i comportamenti proletari che devono guidare i militanti e il Partito rivoluzionario. Penetrando al suo interno tali influenze borghesi si traducono nella tendenza a ‘rivedere’ l’ideologia marxista-leninista per renderla ‘conciliabile’ con le abitudini e i pregiudizi borghesi, fino a corromperne il significato rivoluzionario. (..)  I dirigenti e i militanti che insistono nel loro errore e rifiutano di autocriticarsi diventano oggettivamente dei controrivoluzionari, le tendenze errate diventano una linea nera che si oppone alla linea rossa del Partito per prendere il potere al suo interno. La lotta ideologica attiva deve, per conseguenza, convertirsi in lotta di classe aperta e dichiarata. La lotta di classe fra le due linee antagonistiche non può risolversi - come la lotta ideologica - con l’unità di tutti i militanti del Partito. Essa deve necessariamente risolversi con la liquidazione dell’una o dell’altra linea. Il problema è di sapere chi prenderà il potere nel Partito, se la linea proletaria o la linea borghese, la linea rossa o la linea nera. (..) Legame della teoria con la pratica significa combinare i principi universali con la loro applicazione creativa alla luce delle specifiche condizioni del proprio paese, analizzate sulla base della teoria marxista-leninista. Questo significa anche legare il partito alle masse, ossia mettere il partito proletario in grado di conoscere la vita delle masse, partecipare alla loro stessa esperienza, trarre da tale esperienze elementi per elaborare una linea politica che sia linea di massa capace di mobilitare concretamente le masse verso l’obiettivo della conquista del potere e non semplicemente di predicare loro la rivoluzione, senza saperla nè organizzare, nè dirigere. (..) Ma il marxismo-leninismo e il partito leninista che essi difendono non è che una morta astrazione, una costruzione puramente intellettuale che non opera fra le masse, che non si lega ad esse, che non le guida sulla via della rivoluzione. E’ un partito di tipo opportunista e burocratico, revisionista. (..) essi volevano costruire un partito di quadri che si autoproclamano grandi dirigenti al di fuori della pratica e che si considerano ‘perfetti comunisti’ sulla base di una ripetizione libresca di formule non applicate in modo creativo alla specifica realtà del loro paese, e nella lotta di classe.”[1]

E ne Il Partito del 21 gennaio 1969, pubblicato come ‘Giornale-manifesto del PCd’I (m-l)’:

“La separazione della teoria dalla pratica significa separazione fra le ‘parole’ rivoluzionarie e il concreto impegno a ‘fare’ la rivoluzione. (..) Il reclutamento individuale dei ‘quadri’, la loro organizzazione al di fuori della lotta, attraverso una azione di pura propaganda: a ciò essi cercavano di ridurre l’attività del Partito. (..) tutti i rapporti interni di partito tendevano ad essere visti come rapporti di ‘dipendenza gerarchica fra superiore e inferiore’, al di fuori di una discussione sulla linea politica che deve centralizzare i militanti e le istanze, dando un senso alla stessa disciplina organizzativa. (..) Il marxismo non è un ‘dogma morto’ ma una ‘guida per l’azione’. I suoi principi devono perciò essere fermamente difesi, contro ogni tendenza a ‘rivedere’ e ‘aggiornare’ la teoria. Ma, contemporaneamente essi devono venire applicati alla specifica realtà del nostro paese, devono essere utilizzati per condurre una analisi delle contraddizioni di classe nelle quali dobbiamo intervenire – in modo che la teoria rivoluzionaria serva alla pratica della rivoluzione in Italia.”

 

Analisi e accuse che, pur colorite con espressioni mutuate da altre esperienze, e in particolare dall’esperienza della rivoluzione culturale cinese, andavano al cuore di uno dei nodi più critici della tradizione del movimento operaio e comunista: d’altra parte erano guidate dalla profonda e acuta riflessione maoista sulla lotta tra le ‘due linee’, della lotta di classe ‘esterna’ e ‘interna’ al partito di classe. I marxisti-leninisti italiani, quelli con più radici di massa e legami popolari, si scontravano anch’essi con la dura realtà borghese, quella che utilizza l’arma dei propri valori fondanti per infiltrare i movimenti e organizzazioni di classe e romperli al loro interno. Non era lotta tra le ‘due linee’ quella che Secchia aveva combattuto nel PCI, la prima negli anni ‘30, poi durante la ‘guerra di movimento’ nella Resistenza,  poi nel PCI del dopoguerra? E non era lotta tra le ‘due linee’ quella che, sconfitta per ultimo la generazione dei resistenti alla Secchia e D’Onofrio, vedeva nel PCI la contrapposizione tra il conservatorismo di Amendola, che però utilizzava ecletticamente modelli e prassi mutuati dal terzinternazionalismo, e Ingrao e le cosiddette culture ‘critiche’ che si coaguleranno nel raggruppamento de Il Manifesto, che contestavano modelli e prassi della tradizione leninista (o almeno la loro ricezione ‘classica’), ma ponevano il problema dei movimenti e della coerente azione rivoluzionaria?

Il mancato scioglimento di questi nodi, il persistere di confusioni, occultamenti e contraddizioni riguardo il nesso tra organizzazione, partito e rivoluzione, la lotta tra le ‘due ‘linee,  dipana il processo dialettico che situa la vicenda di Pietro Secchia sul crinale dei rapporti tra il PCI e il movimento del ‘68.

La diaspora tra linea nera e linea rossa sarà una costante irrisolta dei movimenti e delle organizzazioni del proletariato che va ben al di là del ‘68 e della peculiare storia del PCd’I (m-l) o della particolare vicenda politica e personale di Secchia e chiama in causa la reale possibilità della trasformazione rivoluzionaria nel cuore dell’occidente capitalistico.

 

Ferdinando Dubla, da "Secchia, il PCI e il '68", Datanews, 1998, pp.97-100



[1] Cfr. Lavoro Politico, n.11/12, cit., Viva il Partito Comunista d’Italia (m-l)!, pp.1/9. 




Su Pietro Secchia in questo blog:


lunedì 14 ottobre 2024

Can Spivak speak?

 

foto Fabio Giove #subalternstudiesitalia 

CAN THE SUBALTERN SPEAK?



Gayatri Chakravorty Spivak, migrante metropolitana femminista, come ella stessa si definisce nella Critica della ragione postcoloniale “è un’intellettuale organica al pianeta” , commista di partiture teoretiche tra cui Kant, Hegel, il marxismo, la decostruzione, la grammatologia di Derrida, la psicoanalisi freudiana e il femminismo. Per comprendere il mondo, non si può che partire dal punto in cui ci si trova, dalla confusione e dall’ossessione che ci assale, smascherando, così, quella che, con un uso molto libero della terminologia di Lacan, chiama la “forclusione dell’informante nativo”, quel paradosso di parlare dell’altro, al solo fine di rafforzare il proprio io, soggetto dominante. Il termine “subalterno” è attinto dai Quaderni di Antonio Gramsci, secondo cui le classi subalterne possono avere coscienza di se stesse superando la loro disgregazione e articolando la loro azione politica nel progetto di un’egemonia costruita dalle élite politiche e culturali. Un gruppo di storici indiani nato nei primi anni 80 sotto la guida di Ranajit Guha e di cui la stessa Spivak è tra i maggiori, riadattano il termine gramsciano, decontestualizzando e trasformandolo in una ricerca storica alternativa: HISTORY FROM BELOW.

- Tuttavia, Spivak si distanzia dall’uso della categoria che ne fa Guha applicato al contadino indiano poiché l’identità del soggetto subalterno viene definita sempre come una somma di sottrazioni, delineando la storia di un fallimento. Da una parte, infatti la conclusione formale del dominio coloniale, presa in se stessa, significa ben poco dal punto di vista del perdurante governo della conoscenza coloniale, mentre dall’altra, le condizioni materiali e simboliche della subalternità, si sono riprodotte nel presente postcoloniale. E Can the Subaltern Speak? diventa il manifesto di una rottura, di una denuncia, di una rivendicazione. La sua domanda sul “parlare” dei subalterni rompe l’impostazione del Gruppo: Spivak reclama una capacità di agire, un’egemonia non convenzionale, non tanto sinonimo di potere, ma di un progetto che possa e sappia andare oltre il simbolico prestabilito. Denuncia la prospettiva di Guha e degli intellettuali occidentali, che raccontano la donna partendo sempre da storie di Altri. Al Collettivo imputa un positivismo fossilizzato sugli archivi, agli intellettuali occidentali la benevolenza redentrice. Difatti Spivak mostra come l’interessamento degli intellettuali occidentali nei confronti del soggetto coloniale finisca sempre per essere benevolente. Il loro atteggiamento mentale e il loro punto di vista, alla fine coincide con la narrazione imperialista perché quel che promette al nativo è la redenzione.

 

DAL SUBALTERNISMO AL DECOSTRUZIONISMO, DAI SUBALTERN STUDIES ALLA CRITICA POSTCOLONIALE: LA PARABOLA DELLA GAYATRI C. SPIVAK

La “rottura” della Spivak è nel passaggio dal “soggetto che irrompe nella storia” al “soggetto che decostruisce”. È il suo passaggio da Guha a Derrida. Un nodo teorico importante per gli studi subalterni. / fe.d.

- La prosa di Spivak non è solo una decostruzione che sfida, svela ed infrange i limiti del linguaggio. Sin dal primo  saggio che, nel 1988, dedica al tema della decostruzione, “Subaltern Studies: decostruire la storiografia“ [1988- Subaltern Studies: Decostructing Historiography, Routledge], * individua nel riconoscimento del “fallimento” di Guha, nell’ “alienazione” irriducibile del soggetto, il necessario punto di partenza. È da qui che deve (ri)iniziare il discorso dei Subaltern Studies, da una pratica di decostruzione che sia in grado di mettere in discussione l’autorità del soggetto della ricerca senza paralizzarlo, trasformando continuamente le condizioni di impossibilità in possibilità”. Una necessità rivendicata con forza maggiore nel breve saggio “La messa all’opera della decostruzione“ inserito come Appendice alla “Critica della ragione postcoloniale“ [1999 - A Critique of Postcolonial Reason. Toward a History of the Vanishing Present, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts]. *1

Qui Spivak “interpreta la decostruzione specificatamente nel lavoro di Derrida” dando indicazioni sulla sua applicazione nel contesto della critica postcoloniale. Seguendo le tappe del suo pensiero, Spivak nota un punto di svolta: “Si trattava di una svolta rispetto al “tenere di guardia la domanda” – l’insistere sulla priorità di un interrogativo a cui non si può rispondere, la questione della différance – verso una ‘chiamata al completamente altro’ – ciò che deve essere differito – deferito affinché possiamo, per così dire, postulare noi stessi”.  Spivak traduce ciò nell’ “applicazione” diretta ai testi prodotti dalla cultura, in cui si fa esperienza dell’impossibile, che non può essere concettualizzato, perché “l’incontro con il completamente altro, ha un’imprevedibile relazione con le nostre regole etiche” . La singolarità è un’esperienza che non può essere generalizzata, pena la caduta in forme di dominio che deformano, obliterandole, le differenze esistenti. La “messa all’opera” della decostruzione, suggerisce Spivak, “potrebbe essere di un certo interesse per molti osistemi culturali marginalizzati”. Ma perché ciò avvenga, il soggetto che decostruisce, deve dichiarare sia il proprio interesse per l’ “opera”, il proprio punto di partenza, sia la complicità tra chi opera la decostruzione e il testo oggetto d’analisi: “Le decostruzioni – scrive Spivak – nella misura in cui sia possibile intraprenderle, sono sempre asimmetriche per via dell’‘interesse’ di chi le opera”. Unica possibilità per evitare nuove forme di colonialismo culturale attraverso l’ingannevole, per quanto rassicurante, perpetuarsi del principio di identità che non riconosce ciò che è diverso.

* in it. nel volume curato da Sandro Mezzadra “Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo”, Ombre Corte, 2002

*1. in it. “Critica della ragione postcoloniale”, Meltemi, 2004




LA RAPPRESENTAZIONE

Quella di Spivak è una decostruzione doppia e in contro luce: la decostruzione dell’opposizione tra il collettivo e il subalterno, e la decostruzione dell’“apparente continuità esistente tra gli studiosi in questione e i loro modelli anti-umanistici” . Poiché, scrive, una lettura contro luce deve sempre essere strategica, essa non deve mai avere la pretesa di stabilire la verità autoritativa di un testo, deve sempre restare dipendente dalle esigenze pratiche e non deve essere mai legittimata a formulare un’ortodossia teoretica. Nel caso del gruppo dei Subaltern Studies, ciò dovrebbe sottrarlo alla pericolosa pretesa di stabilire la vera conoscenza del subalterno e della sua coscienza. Quella del Collettivo sembrerebbe un progetto positivista in quanto alla ricerca di un qualcosa da cui poi partire per costruire una struttura di sapere/potere. Ma qui, avverte Spivak, è al lavoro una forza che potrebbe “contraddire tale metafisica” , in quanto l’accesso alla coscienza subalterna è possibile solo indirettamente, per mezzo del metodo “indiziale” di Guha, attraverso gli archivi della “contro-insurrezione”. Indizi, che probabilmente non consentiranno mai di recuperare la coscienza dei Subalterni. Qui è in gioco quello che Spivak, con terminologia post-strutturalista, definisce effetto-soggetto subalterno. Un effetto – soggetto = ciò che sembra agire come un soggetto può essere parte di un’immensa rete discontinua di fili a cui si possono attribuire i nomi di politica, ideologia, economia, storia, sessualità, linguaggio e così via. I diversi intrecci e le diverse configurazioni di questi fili, determinati da fattori eterogenei che sono essi stessi dipendenti da una miriade di circostanze, danno vita al soggetto agente. Il recupero, quindi, di una posizione positiva del soggetto in Spivak diviene “strategia adeguata ai nostri tempi”, capace di influenzare e di modellare la storiografia ufficiale, mantenendo comunque la costante consapevolezza del rischio di un’oggettivazione del subalterno, che finirebbe per rinchiuderlo nel “gioco del sapere come potere” o di soffocarlo nella catacresi di figure e segni destinati a mancare sempre il referente che evocano. Il problema, dunque, è la rappresentazione, anzi, le rappresentazioni, dell’Altro/a.

- Spivak accusa il pensiero occidentale di riprodurre, nel momento stesso in cui si autocritica, quella forclusione dell’Altro (o dell’informante nativo) operata dall’episteme imperialista.

APPUNTI SCOLASTICI SULLA SPIVAK

https://www.studocu.com/it/document/universita-di-bologna/analisi-dei-processi-decisionali-e-sistema-politico/approfondimento-spivak/39517035?origin=home-recent-3

Corso: Analisi dei processi decisionali e sistema politico

Università di Bologna

 

Femminismo e subalternismo, comunismo e decostruzionismo, Gramsci e Derrida, altermondialismo/terzo_quartomondismo, critica alla ‘violenza epistemica’ dell’imperialismo culturale occidentalista, la rivoluzione disciplinare delle scienze umane. Breve biblio della Gayatri C.Spivak.



di e su Spivak in questo blog:









giovedì 10 ottobre 2024

GRAMSCI, LA ”SINISTRA WOKE” E LA CATACRESI

 


La catacresi, l’estensione del significato di un termine oltre i limiti della proprietà della cosa rappresentata dalla parola, è una figura retorica, un gioco linguistico. “Questa notte la luna mi parla”. Bella immagine poetica, ma catacretica, perché la luna non parla. La catacresi, in latino abusio, abuso del linguaggio appunto, nella dialettica significante/significato. La catacresi è il legame esistente tra ciò che si autodefinisce e viene nominata dai suoi avversari politici “sinistra”, il “politicamente corretto”, la woke culture e il capitalismo ‘woke’. Il principe non deve baciare Biancaneve: è abuso. E guai a metterlo in discussione. Al bando, fuori la legalità, l’inquisizione è woke. Il capitalismo ‘woke’, a nostro modo di vedere, impernia molta pubblicità, la forma di persuasione mercantile che si impone alle grandi masse. L’ Eni, che con i suoi pozzi distrugge le testimonianze della civiltà contadina in Basilicata e contribuisce all’inquinamento di Taranto, tanto per fare un esempio, ha nelle sue campagne la pulita energia del futuro, legandosi così al senso comune delle battaglie ambientaliste. O le banche, cuore dell’egemonia del capitale finanziario, il parassitismo mediatore dell’estorsione di plusvalore: amano l’arte, finanziano restauri, sponsorizzano opere. Vanno cioè incontro al ‘socialmente corretto’, che diventa il ‘politicamente corretto’. Si cui si fonda l’impalcatura di quella che viene mediaticamente appellata ‘sinistra’. Ma che sinistra non è se non per gioco linguistico. La catacresi, appunto. Temi presenti nelle modalità del suo tempo anche nelle analisi del filologo Gramsci: tra le sue categorie analitiche più importanti ci sono infatti quella di ‘senso comune’ e ‘conformismo’ di massa.

La catacresi. Della ‘sinistra’. Annega nella woke culture, del ‘politicamente corretto’ del conformismo borghese e della piccola borghesia declassata. Del senso comune di massa che indica il dominio, il potere e il suo segno di classe, come ci ha insegnato Gramsci. Non può esistere sinistra borghese, esiste una borghesia che si crede di ‘sinistra’. Perorando cause di diritti già universali per renderli ‘legalmente riconosciuti’, ma senza lotta di classe. Diritti e tutele sociali rischiano così di non incontrarsi mai. Il ‘vokismo’ è diventato uno strumento del capitalismo imperialista. Ecco perchè critichiamo la stessa  Sahra Wagenknecht, fondatrice e leader del partito BSW (Bündnis Sahra Wagenknecht, cioè un partito personale!) e il suo libro “Contro la sinistra neo liberale”, Fazi, 2022. Bisognerebbe scrivere correttamente ‘sinistra neoliberista’. Che è un ossimoro. O sinistra, o neoliberisti. Non esiste una sinistra ‘alla moda’. È accettare che il termine "sinistra" ricalchi lo stereotipo coniato dall’egemonia capitalista del senso comune guidato dalla destra politica. Non è sinistra la palude centrista neoliberista. La sinistra, o è di classe o non è. La sinistra o è antagonista o non è. Comunisti, socialisti, anarchici, devono nuotare in questa sinistra. Formarla, soprattutto. / fe.d.

Due libri importanti per l'analisi della 'woke culture' e del 'capitalismo woke'

 

L’INQUISIZIONE NON È PIÙ “SANTA”

La categoria gramsciana di ‘senso comune’ incrocia il conformismo di massa per il tramite dell’influenza del potere politico e dei suoi strumenti di persuasione ed è compito proprio della coscienza di classe penetrare la coltre dell’apparenza nel rapporto lessico-significato. La cultura ‘Woke’ e il ‘politicamente corretto’ si situano oggi allo stesso livello di potenza dei mezzi della comunicazione diffusa, sui social, in rete. L’”anomia” di Durkheim diventa l’ombra di un ‘grande fratello’. Le percezioni individuali una non più santa ma comunque terribile inquisizione e l’azzeramento della discussione collettiva in nome di assiomatiche asserzioni giocate su un lessico che permea dal senso comune i suoi significati. Il totalitarismo del neoliberismo permea così i valori relativi come assoluti, nell’”ordine naturale delle cose”. Ma c’è anche un limite in questa analisi: la dialettica struttura-sovrastruttura viene ‘rovesciata’ (è il caso di utilizzare il termine hegeliano ma nella circolarità dialettica di segno marxiano) illudendosi di un ‘binario parallelo’ fra diritti individuali e tutele sociali. Non è così, perchè solo le più forti delle tutele sociali determinano i diritti individuali nella dimensione collettiva.

- Andrea Zhok, “La profana inquisizione e il regno dell'anomia. Sul senso storico del «politicamente corretto» e della cultura woke”, Il Cerchio, 2024



Andrea Zhok è filosofo e professore di Antropologia filosofica e Filosofia morale all'Università degli Studi di Milano.

Il tema del libro ruota intorno al politicamente corretto e alla profana inquisizione, che ha le stesse caratteristiche di quella santa, salvo l'assenza di ispirazioni teologico/confessionali: la profana inquisizione, infatti, si ispira all'istanza anomica. E qui si arriva all'altro tema principale dello scritto: il concetto di anomia. Coniato dal sociologo Emile Durkheim, il termine indica un disorientamento di ordine valoriale e etico, un'assenza di direzione che guida la società, visibile, già ai suoi tempi, soprattutto nelle città occidentali. "Oggi questa forma culturale ha raggiunto un carattere egemonico - ha scritto Zhok - E' diventata un'ideologia estremamente influente nella componente della popolazione che ha le leve della cultura e dei media e che, quindi, ha la possibilità di influenzare l'opinione pubblica".

Cioè, un’élite funzionale alle classi dirigenti e ai gruppi di potere che corrodono la democrazia sostanziale.

- Infine: la critica radicale al capitalismo può portare ad un’escatologia salvifica di un’apocalissi culturale? È questo il comunismo? Ma l’apocalissi non è solo culturale, è il rischio immanente conseguenziale del conformismo di mercato. E del mercato politico.

CAPITALISMO WOKE [1]



Carl Rhodes, “Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia”, Fazi, 2023 - [pp.314]

dalla prefazione di Carlo Galli - estratto

- woke è il progressista mainstream che ipocritamente ostenta virtù civili per essere alla moda e che conformisticamente si colloca nella parte “giusta” della società, per stigmatizzare gli “altri”.

- la società è un unico magma informe, in cui i poteri forti sono quelli delle corporations, non certo quelli politici. È questo lo scenario del neoliberismo maturo, naturalmente, in cui le grandi aziende, i loro AD, danno per scontato che lo Stato abbia fallito nel risolvere determinate questioni sociali e che tocchi all’economia gestirle o direttamente oppure sponsorizzando movimenti politici di massa come, ad esempio, Me Too, Black Lives Matter, o le cause ambientali. Non più quindi i vecchi investimenti culturali nei grandi musei e nelle grandi biblioteche fondate nel Novecento dai “baroni ladri” ritiratisi in pensione, ma nuovi investimenti sociali delle aziende, che vogliono surrogare la politica. L’economia non si limita a invadere l’intera società, ma si sostituisce direttamente allo Stato.

- Sono cause meritevoli sì, ma simboliche o morali, ed economicamente innocue: hanno a che fare con diritti civili, non con diritti sociali strutturali, legati ai rapporti di potere tra capitale e lavoro. Rispetto ai quali funzionano come un diversivo: in ogni caso, l’attivismo aziendale le fa diventare cool, le integra nel discorso mainstream. È questa, del resto, la direzione prevalente delle politiche orientate “a sinistra” in età neoliberista.

- il capitalismo compra tempo – è la sua strategia di fondo, come ha argomentato Stiglitz –: non cerca soluzioni, ma differisce fin che può l’esplosione dei problemi che esso stesso genera.

- Il capitalismo woke è un capitalismo intelligente e sofisticato che, a differenza di quello conservatore antiwoke, si preoccupa del medio termine: e non vuole lasciare spazio a nulla al di fuori di sé, ma vuole dimostrare che solo il capitalismo è il motore della produzione economica, della ricostruzione sociale, della strategia politica.

“l’etica può anche sfidare il sistema stesso su cui poggia il capitalismo.”

“il capitalismo woke dovrebbe essere contrastato e combattuto su basi democratiche, poiché esso fa sì che gli interessi politici pubblici vengano sempre più dominati dagli interessi privati del capitale globale. (..) Quando la nostra stessa moralità viene imbrigliata e sfruttata come risorsa aziendale, dietro c’è sempre all’opera l’interesse privato delle imprese.“

“Come ci ricorda la politologa Wendy Brown, il concetto di democrazia non va confuso con l’idea del moderno Stato liberale democratico. Brown sostiene che, nell’attuale congiuntura storica, «gli impegni dello Stato democratico per l’uguaglianza, la libertà, l’inclusione e il costituzionalismo sono ora subordinati al progetto di crescita economica, di posizionamento competitivo e di valorizzazione del capitale». “

Su Wendy Brown in questo blog cfr. PER UNA CRITICA DELLA TEORIA CRITICA - Wendy Brown ed Agnes Heller

“la vera democrazia si fonda sul credere prima di tutto nella sovranità popolare.”

“Il capitalismo woke è l’odierna derivazione di questo feudalesimo rinnovato, che cede alle imprese non soltanto l’autorità legale, ma anche quella morale e politica.”

Stralci da Carl Rhodes, “Capitalismo woke”, Fazi ed., cit. da ed. digitale

- Su Sahra Wagenknecht, il suo partito e il marxismo leninismo -

appiccicano etichette: rosso-bruni, conservatori di sinistra, nostalgici della DDR. In realtà il limite serio della formazione di sinistra uscita da una costola della Linke è un accentuato leaderismo personalistico. Nel nome innanzitutto: BSW significa Bündnis Sahra Wagenknecht. Ad ogni modo mandiamo via tutti gli stereotipi che ci impone la narrazione delle classi dominanti europee: il punto che a noi sembra dirimente è un altro. Alcuni altri: tra questi c’è la specularità tra diritti civili e tutele sociali. La sfida del socialismo come ideale politico del presente e dell’avvenire non può essere la riproposizione di un azzeramento dei diritti che provengono dal liberalismo, ma combattere il liberismo con il libertarismo, il libertarismo sociale, perchè esiste anche quello falso-borghese.






È questa la vera ‘next revolution‘ in occidente. Così come il fenomeno dell’immigrazione: va certo studiato, analizzato ma anche gestito con la fraternità dei popoli, faro degli ideali comunisti e libertari nello stesso tempo. Non contrapposizione tra diritti e tutele, accoglienza e sfruttamento del capitale, centralità delle classi lavorative e marginali. Ma ricomposizione. In un processo rivoluzionario. Perchè rivoluzionario? Perchè fondamentale è il movimento di massa, la mobilitazione popolare, non solo la rappresentanza istituzionale per il riformismo del Welfare. Nessuna civetteria poi con il ciarpame ideologico di destra, nessuna possibilità di confusione. Il marxismo leninismo (senza trattino) del XXI secolo è tutta nelle sfide della nostra irriducibilità al capitalismo, alle guerre imperialiste, al fascismo e ai loro dis/valori. / fe.d.

 

Su questo blog vedi anche:

SENSO COMUNE E CONSENSO

 

LA CONQUISTA DELLA COSCIENZA di CLASSE per ANTONIO GRAMSCI


 a cura di Ferdinando Dubla, pagina FB: https://www.facebook.com/profile.php?id=61555253424792



 



lunedì 7 ottobre 2024

SINOSSI DELLA LOTTA DELLE CLASSI - da Domenico Losurdo

 

a cura di Ferdinando Dubla

LA LOTTA DI CLASSE DI LOSURDO. UNA STORIA POLITICA E FILOSOFICA

Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza 2015

Un libro fondamentale del filosofo italiano e intellettuale comunista scomparso nel giugno 2018. Da studioso, passa ora ad essere studiato come uno degli autori più significativi in ambito marxista



Domenico Losurdo (1924-2018)

Scheda del libro

La crisi economica infuria e si discute sempre più del ritorno della lotta di classe. Ma siamo davvero sicuri che fosse scomparsa? La lotta di classe non è soltanto il conflitto tra classi proprietarie e lavoro dipendente. È anche "sfruttamento di una nazione da parte di un'altra", come denunciava Marx, e l'oppressione "del sesso femminile da parte di quello maschile", come scriveva Engels. Siamo dunque in presenza di tre diverse forme di lotta di classe, chiamate a modificare radicalmente la divisione del lavoro e i rapporti di sfruttamento e di oppressione che sussistono a livello internazionale, in un singolo paese e nell'ambito della famiglia. A fronte dei colossali sconvolgimenti che hanno contrassegnato il passaggio dal XX al XXI secolo, la teoria della lotta di classe si rivela oggi più vitale che mai a condizione che non diventi facile populismo che tutto riduce allo scontro tra umili e potenti, ignorando proprio la molteplicità delle forme del conflitto sociale. Domenico Losurdo procede a una originale rilettura della teoria di Marx ed Engels e della storia mondiale che prende le mosse dal Manifesto del partito comunista.

IL PLURALE DELLA LOTTA È NEI PROCESSI RIVOLUZIONARI

da un fondamentale libro di Domenico Losurdo

“Non c’è dubbio: per Dahrendorf, Habermas e Ferguson (ma anche, come vedremo, per autorevoli studiosi di orientamento marxista o post-marxista), la lotta di classe rinvia esclusivamente al conflitto tra proletariato e borghesia, e anzi a un conflitto tra proletariato e borghesia che è diventato acuto e di cui entrambe la parti hanno consapevolezza; ma è questa la visione di Marx ed Engels? Com’è noto, dopo aver evocato «lo spettro del comunismo» che si «aggira per l’Europa» e prima ancora di analizzare la «lotta di classe (Klassenkampf) già in atto» tra proletariato e borghesia, il Manifesto del partito comunista si apre enunciando una tesi destinata a diventare celeberrima e a svolgere un ruolo di primissimo piano nei movimenti rivoluzionari dell’Otto e Novecento: «La storia di ogni società sinora esistita è la storia delle lotte di classe» (Klassenkämpfe) (MEW, 4; 462 e 475). Il passaggio dal singolare al plurale fa chiaramente intendere che quella tra proletariato e borghesia è solo una delle lotte di classe e queste, attraversando in profondità la storia universale, non sono affatto una caratteristica esclusiva della società borghese e industriale. Se ancora ci fossero dubbi, qualche pagina dopo il Manifesto ribadisce: «La storia di tutta la società si è svolta sinora attraverso antagonismi di classe, che nelle diverse epoche hanno assunto forme diverse» (MEW, 4; 480). Dunque, a essere declinate al plurale non sono solo le «lotte di classe», ma anche le «forme» che esse assumono nelle diverse epoche storiche, nelle diverse società, nelle diverse situazioni concrete che via via si verificano. Ma quali sono le molteplici lotte di classe ovvero le molteplici configurazioni della lotta di classe?“



Domenico Losurdo, di Sannicandro di Bari (1941-2018) uno dei più importanti storici della filosofia marxista italiani

 

Domenico Losurdo, La lotta di classe: una storia politica e filosofica, Laterza, 2015



cit. da formato digitale, tratta di nodi teorico-politici molto importanti per lo stesso marxismo, primi tra tutti lo “Stato-nazione” e la sua degenerazione negli assetti imperialistici in quanto coloniali, il nazionalismo identitario, e la transizione al socialismo nel passaggio sempre necessario dalla “rottura” al “processo” rivoluzionario.

- La lotta delle classi intrecciata alle lotte di liberazione nazionale.

È proprio questo intreccio, non il nazionalismo identitario, che rende i processi di liberazione dei popoli oppressi oggettivamente, oltre che soggettivamente, rivoluzionari contro l’imperialismo colonialista, cioè la forma acuta di dominio ed egemonia del sistema economico del capitalismo. In Marx ed Engels

“l’interesse per i «moti delle nazionalità oppresse» non è meno vivo e costante di quello riservato all’agitazione del proletariato e delle classi subalterne.”, ma nell’ambito internazionalista, tant’è che

“ovvia è la necessità di una «economia politica della classe operaia», ma ciò non basta; occorre chiarire «alle classi operaie il dovere d’iniziarsi ai misteri della politica internazionale, di vegliare sugli atti dei loro rispettivi governi, di opporsi a essi, se è necessario, con tutti i mezzi in loro potere»; occorre che esse si rendano conto che la lotta per una «politica estera» di appoggio alle nazioni oppresse è parte integrante della «lotta generale per l’emancipazione della classe operaia» (MEW, 16; 11 e 13)+

 + la sigla MEW, seguita dall’indicazione del volume e della pagina, rinvia ai Werke, Marx K., Engels F. (1955-89), Werke, Dietz, Berlin (in traduzione it. ora per La Città del sole “Opere complete”, 2011-2016)

 

  La transizione al socialismo è preminentemente una questione politica.

Per leggerla gramscianamente è il passaggio dal dominio all’egemonia, dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”. Per Losurdo parte dalla distinzione, netta in Mao Tse Tung, tra “espropriazione politica” ed “espropriazione economica”.

L’ identità fra la lotta nazionale e la lotta di classe, secondo Mao, tende a verificarsi nelle rivoluzioni anticoloniali. La lotta di classe entra nelle guerre di resistenza e di liberazione nazionale e le insurrezioni e rivoluzioni anticoloniali.

[d’altra parte è stato così anche per la Resistenza italiana, cfr. l’analisi di Pietro Secchia in Ferdinando Dubla, “La Resistenza accusa ancora- Pietro Secchia e l’antifascismo comunista come liberazione popolare e lotta di classe (1943/45)”, Nuova Editrice Oriente, 2002]

 

“quando Marx parla della storia come storia della lotta di classe intende leggere in questa chiave non solo gli scioperi e i conflitti sociali di ogni giorno ma anche e soprattutto le grandi crisi, le grandi svolte storiche che si compiono sotto gli occhi di tutti: la lotta di classe è una macrostoria essoterica, non la microstoria esoterica cui spesso viene ridotta.” Certo, rimane il problema del segno di classe degli eventi storici: c’è il processo rivoluzionario (che è sia soggettivo che oggettivo) e c’è la reazione, la conservazione o il ritorno ad assetti regressivi dei sistemi sociali fondati sulla dialettica materialistica, asse portante dell’analisi marxista. Se la dialettica diventa genericamente masse/potere la lettura sociale diventa populista-qualunquista, anarcoide non anarchica, nel senso anche individuato da Gramsci: contro le frasi di «‘ribellismo’, di ‘sovversivismo’, di ‘antistatalismo’ primitivo ed elementare», espressione in ultima analisi di sostanziale «apoliticismo», cfr. Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, p. 2108-109 e 326-27.

 

prox.: LA “CATARSI” DI GRAMSCI, una nuova coscienza di classe per la transizione al socialismo dentro un processo rivoluzionario

 



Ferdinando Dubla- storico della filosofia, è condirettore della Scuola di Filosofia di Manduria "Giulio Cesare Vanini" e ricercatore di Subaltern studies Italia

 

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DOMENICO LOSURDO (1941-2018)

 

 

STORIA, STORIE E CONTROSTORIA: la premessa di Domenico Losurdo