Identità e profilo politico
Le sconfitte elettorali non possono divenire la sconfitta politica di un progetto ancorato a valori forti e che trova ragioni nella straordinaria modernità dei conflitti di classe. Negli anni che ci separano dallo scioglimento del PCI, i nostri limiti soggettivi si sono incrociati con l’egemonia sempre crescente di una destra che si è sempre più radicata nel tessuto collettivo e negli atteggiamenti individuali di sempre più larghi strati della popolazione. E ciò a dispetto di una crisi economico-sociale che ha depauperato le materiali condizioni di vita dei ceti popolari. In sintesi, la base oggettiva delle contraddizioni non ha “rischiarato” la coscienza di classe. Questo paradosso ha reso più urgente e acuta la questione comunista, ma non della mera ‘presenza’ di un partito che abbia nel suo orizzonte strategico il superamento del capitalismo, semmai di un’organizzazione che lavori e lotti nel quadro politico perché quell’orizzonte si sostanzi di conquiste in controtendenza per il mondo del lavoro e avvii una fase di inversione dei rapporti di forza.
Così come la dicotomia - nodo delle alleanze (tattica)/obiettivi per una trasformazione strutturale del sistema (strategia) - ha il suo parametro di valutazione nell’efficacia dell’azione politica, così il nesso tra identità e profilo politico in un partito comunista non decide della coerenza ‘ideologica’ o in astratto della ‘purezza’ dei princìpi, ma del suo radicamento di classe e popolare. E’ un circolo virtuoso che non abbiamo messo in movimento: l’efficacia dell’azione politica per i ceti subalterni e non la sola ‘rappresentanza’ in astratto, alimenta il radicamento popolare dell’organizzazione politica dei comunisti. Questa, a sua volta, rafforza l’efficacia reale e l’efficacia percepita dalle grandi masse.
Prima di sparare sul quartier generale, però, sottolineando solo i limiti e le carenze dei gruppi dirigenti (che ci sono indubbiamente stati), ci sarebbe da rilevare il dato oggettivo: le regole del gioco elettorale, il terreno di gioco politico, su cui si palesano nel nostro paese gran parte delle possibilità di incidere in maniera pur parziale sulle condizioni del lavoro e del disagio sociale, non sono determinate dai comunisti e, anzi, sono stabilite in funzione anticomunista. L’espulsione della cosiddetta sinistra ‘radicale’ dalle aule del Parlamento è stata la conditio sine qua non dei governi della destra e della dirigenza ‘maggioritaria’ del Partito Democratico in Italia, con leggi elettorali che alterano in maniera pericolosa la rappresentanza politica e della società.
Autoreferenzialità e autosufficienza
Uno degli errori più evidenti, sebbene sottaciuto, che il PD ha compiuto nell’ultima consultazione elettorale, è stata la presunzione di autosufficienza. E’ una presunzione che in Italia viene pagata a caro prezzo, perché il nostro è un paese complesso, articolato, nelle idee, nei valori e nella rappresentatività di una società civile comunque plurale. Scimmiottare l’esperienza statunitense è già costato sconfitte e rovesci pesanti per l’ex DS-PDS e nonostante questo non trae lezioni appropriate. Oggi si trova a dover fare i conti con un movimento, il 5 stelle di Grillo, eclettico e imprevedibile nella sua smania antipolitica e con venature palesemente qualunquistiche. I democratici hanno rifiutato ogni tipo di alleanza con la lista Ingroia e ancor prima con i partiti della Federazione della Sinistra disponibili, il PdCI tra questi, a un’interlocuzione possibile sui programmi e sulle candidature, alleanza necessitata appunto da una legge elettorale liberticida e antidemocratica. Una alleanza che avrebbe probabilmente costituito la vittoria del centro-sinistra.
Ma l’autosufficienza del PD, partito moderato che ha bisogno di una seria apertura a sinistra per poter ritrovare le ragioni della centralità del lavoro e di una rappresentanza di una buona parte del suo stesso elettorato e della sua militanza, non è un male isolato. Anche la sinistra comunista ne può essere artefice e vittima. Naturalmente non nei termini dell’ autosufficienza, ma dell’ autoreferenzialità ed è un pericoloso riflesso condizionato dal non raggiungimento dei minimi obiettivi che ci si era posti. Ma il fatto di non aver raggiunto obiettivi tattici, pur importanti, non deve indurre alla mera consolazione di riabbracciare la bandiera. Gesto nobile e identitario, di cui c’è anche un gran bisogno, ma, appunto, autoconsolatorio e sterile perché meramente testimoniale. La tradizione del PCI, a cui sempre rimandiamo molte nostre questioni con generosità, specie verbale, in quasi tutte le sue fasi storico-politiche ha combattuto il settarismo e la rinuncia all’efficacia dell’azione politica, con le grandi lezioni di Gramsci e di Togliatti. Uno dei grandi lasciti togliattiani è il primato della politica, da non confondere con la sua autonomizzazione e separazione dalla rappresentanza, ma soprattutto mai dai sentimenti e le semplificazioni dei più larghi strati della popolazione e da quello che Gramsci chiamava «senso comune» .
Senso comune e leadership
Il senso comune, da cui si deve partire per trasformarlo in un’emancipazione costruttrice di una nuova egemonia, oggi si forma attraverso canali diversi rispetto al passato, soprattutto attraverso la cittadella mediatica che ha visto riposizionarsi tutti i vari strumenti con cui le classi dirigenti veicolano il consenso. Riposizionamento non significa cancellazione dei mezzi tradizionali, ma la complessa articolazione sociale permette la scelta dei diversi media a disposizione. Il vettore mediatico, però, si nutre di leadership, come in passato, più che nel passato. E ciò significa che la costruzione democratica e l’avanzata degli stessi ideali comunisti nell’arena politica, ha da fronteggiare questa situazione. La leadership moderna non è solo la soggettività forte e giusta al comando: è sempre di più una capacità di rivestire una funzione, quella rappresentativo-simbolica, di rispecchiamento, delle idee, dei valori, delle varie opzioni politiche in campo. Noi comunisti abbiamo curato poco questo aspetto: la leadership nasce e si sviluppa innanzitutto con il reciproco riconoscimento identitario, anche se, come si è scritto, non deve essere fine a se stesso (cioè autoreferenziale). Ma da lì bisogna partire. Un solo esempio, ma importante: non siamo stati capaci, dopo l’esperienza di “Rinascita”, di trovare il modo per fare ‘comunità’, per far circolare le idee e le esperienze dei vari territori, delle plurime riflessioni, per riconoscerci l’un l’altro e rimotivarci alla militanza e alla formazione permanente dei quadri. E dunque la necessità di alimentare i nostri ideali con il coraggio delle nuove generazioni, di saper costruire le esperienze nella battaglia sociale dentro le contraddizioni stridenti del sistema capitalista, si vede priva di uno strumento così indispensabile. E’ solo un esempio di come riabbracciare la nostra amata bandiera si può e si deve e serve anche, ma da sola non basta. Il senso di appartenenza è il sentimento preminente per la coesione di un gruppo sociale: lo è ancor di più per l’organizzazione di un partito comunista, purchè funzionale all’unità di classe per l’unità della sinistra. La frantumazione sociale della classe è un ostacolo serio al nostro radicamento: ecco la principale ragione per conservare strategicamente il compito di unire la sinistra, in un’assoluta autonomia politica e una stringente lettura marxista non solo dei fatti storici, ma degli eventi sociali e delle loro connessioni interne che ne svelano l’arcano di sistema. Insomma, senza “fare politica”, anche la nostra analisi più profonda e rivelatrice, si tradurrebbe in sterile esercizio retorico. Così come senza analisi, il “fare politica” si rivelerebbe come adeguamento, opportunismo senza princìpi.
Il partito dei comunisti italiani ha lavorato e lavorerà nella oscurità non casuale delle sue posizioni; non chiediamo concessioni ai media controllati dai poteri dominanti: essi non ce ne faranno fino a quando non ripristineremo un protagonismo dell’efficacia concreta, il “pesare” per lo spostamento di equilibri. E’ necessaria una nostra limpida riconoscibilità e una più marcata caratterizzazione: nella temperie attuale del dominio del capitale finanziario, noi dobbiamo rivendicare con sempre più determinazione lo Stato del Welfare, dei servizi sociali, dei beni comuni, della pubblicizzazione dei settori strategici dell’economia. In controtendenza, per l’affermarsi della centralità del lavoro, della cultura, della scuola, dell’arte e del paesaggio, perché il socialismo che vogliamo è la società della conoscenza, della rete dei saperi, della formazione e della qualificazione collettivi, contro l’imbarbarimento dell’omogeneizzazione culturale, dell’ineguaglianza e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La vera scommessa per l’avvenire è ancora il socialismo, e non ci sarà socialismo senza un forte partito comunista, di quadri e di massa.
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