Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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domenica 25 maggio 2014

Le bugie di Renzi sulla scuola


Fonte: Il Fatto Quotidiano | Autore: red.       

Tre miliardi e mezzo per la scuola. Il presidente del Consiglio lo ha ribadito nella sua intervista al Fatto. Ma ilfattoquotidiano.it aveva già scritto che in realtà i miliardi previsti per i fondi destinati agli istituti scolastici sono 2 miliardi. Matteo Renzi però è talmente sicuro di quella cifra che durante il forum con Peter Gomez, Antonio Padellaro, Marco Travaglio, Marco Lillo e Wanda Marra è tornato a ricordarla. Lillo gli ha posto una domanda sugli F35 e la sua risposta è stata la seguente: “Lillo, mi dice un governo che ha tagliato 396 milioni alla Difesa? Mi dice un governo che ha investito 3 miliardi e mezzo sulla scuola?”. All’obiezione che in realtà nel Def ne sono previsti solo due, ha risposto ancora: “E mi gioco… Sono 3 miliardi e mezzo”. Visto che l’intervista stava finendo ha promesso un comunicato che chiarisse la vicenda. Ma oltre 24 ore dopo da Palazzo Chigi comunicati non se ne sono visti. Nel documento di economia e finanza – che peraltro è solo una previsione – si parla di 2 miliardi. Mentre nell’ennesima slide – questa volta pubblicata su facebook, ieri – si parla di oltre 4mila cantieri per un totale di 2,2 miliardi.

Per ora gli unici soldi sicuri sono i 122 milioni per il 2014 e gli altrettanti per il 2015 previsti dal dl Irpef. Il 13 maggio, parlando in una scuola di via Massaua, a Milano, Renzi aveva annunciato che a partire dall’estate verranno avviati più di 7mila di nuovi cantieri per un totale di 2,2 miliardi. Le risorse arriveranno in parte dallo sblocco del patto di stabilità immediato: 1.266 per un valore di 1.392 milioni di euro; con la riprogrammazione dei fondi Ue 2007-13 verranno invece finanziati 2.700 interventi per 400 milioni. Il 19 maggio il premier annunciava festante su Twitter: “Abbiamo sbloccato il patto di stabilità, come promesso. Venerdì le risposte dei sindaci, poi i cantieri”. Ma di dispositivi di legge non c’è traccia: l’ultima volta che in Consiglio dei ministri si è parlato di edilizia scolastica è stato il 12 marzo, il giorno della conferenza stampa con le slide. Di nuovo c’è solo il via libera all’assegnazione di oltre 36 milioni per l’edilizia scolastica con lo strumento dei Fondi immobiliari, previsto il 21 maggio da un decreto del ministero dell’Istruzione. Probabilmente nel computo totale Renzi conteggia anche risorse stanziate dal precedente esecutivo. A fine aprile il ministro dell’Istruzione, Stefania Giannini, in commissione istruzione al Senato aveva spiegato di “aver reso possibili a oggi 692 interventi urgenti con 150 milioni”. Nulla di nuovo: quei soldi erano già stati stanziati dall’allora ministro Carrozza (governo Letta) nel novembre 2013. La titolare di viale Trastevere faceva riferimento anche al fatto che “con il decreto legge n.66 del 24 aprile abbiamo stanziato altri 300 milioni che riguardano interventi di edilizia immediatamente cantierabili e dunque sono disponibili cash 450 milioni”. Per ora si tratta di una possibilità e il totale sarebbe comunque lontano dai 3,5 miliardi annunciati. E anche dai 2 miliardi annunciati dal Def.

mercoledì 21 maggio 2014

Un ricordo di Stefano Garroni, un compagno, un amico, un intellettuale marxista


Nell'agosto 2001, durante un campeggio antimperialista, dopo i fatti di Genova,  abbiamo avuto modo di conoscere e apprezzare la personalità di Stefano Garroni. Lo vogliamo ricordare nel nostro blog con Alessandra Ciattini e Adriana Garroni, compagna e figlia dello scomparso. Grazie , Stefano!

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Dopo una lunga malattia, lo scorso 13 aprile si è spento a Roma Stefano Garroni, che è stato un brillante animatore del dibattito marxista in Italia e all’estero.
Nato a Roma nel 1939, dopo avere conseguito la laurea in filosofia, Garroni svolse attività di assistente presso la cattedra di Filosofia teoretica della Sapienza Università di Roma, diretta da Ugo Spirito, successivamente da Guido Calogero e Antonio Capizzi. Nel 1973 divenne ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Collaboratore della prestigiosa rivista cubana “Marx ahora”, diretta da Isabel Monal, è stato l’autore di numerose opere in cui riuscì a coniugare con grande rigore filosofia, etica e politica.
Negli anni ’80 si dedicò allo studio della psicoanalisi e del pensiero di Freud, pubblicando tre monografie: “Su Freud e la morale” (Roma 1983), “Sul perturbante” (Roma 1984), “Quaderni freudiani” (Napoli 1988). Negli anni ’90 collaborò con l’Istituto italiano di Studi filosofici di Napoli e con la Casa Editrice romana Kappa, con cui pubblicò “Tra Cartesio e Hume” (1991) e “Tracciati dialettici: note di politica e di cultura” (1994). Tradusse alcune opere del filosofo marxista tedesco Hans Heinz Holz, tra le quali ricordiamo “Sconfitta e futuro del socialismo” (Milano 1994) e “Marx, la storia, la dialettica” (Napoli 1996). Curò sia la pubblicazione di alcuni classici della filosofia e del marxismo, come il “Manifesto del partito comunista” di Marx e Engels (Napoli 1994), sia l’opera collettanea “Engels cento anni dopo” (Napoli 1995). A questi anni appartengono anche “Su marxismo e stagnazione” (Napoli 1994) e “Dialettica e differenza” (Napoli 1997).
Negli anni duemila Garroni ha curato, in collaborazione con Alessandra Ciattini, la pubblicazione del libro di Charles de Brosses, “Sul culto degli dei feticci, o parallelo dell’antica religione egiziana con la religione attuale della Nigrizia” (Roma 2000), nella cui Introduzione analizza il concetto di feticismo e le sue utilizzazioni, e ha pubblicato “Dialettica e socialità” (Roma 2000). Nel 2002 ha pubblicato con la rivista Contropiano la “Attualità della Questione ebraica di Marx” e nel 2009 ha curato l’edizione degli “Scritti filosofici” di Mao Zedong (Napoli 2008).
Anche se gli interessi di Stefano Garroni erano molteplici, il tema principale dei suoi studi era rappresentato indubbiamente dalla dialettica hegeliana e dalla dibattuta relazione tra Hegel e Marx, di cui ha proposto una lettura originale fondata sul ripudio della classica tesi del rovesciamento. Come è noto, questa tesi ha condotto il marxismo, in più occasioni, ad una concezione rozzamente materialistica della storia; posizione nella quale Garroni non si riconosceva, preferendo sottolineare piuttosto la complessità sia dell’eredità marxiana sia delle vicende umane da interpretare con l’aiuto del filtro della dialettica.
Garroni era ben consapevole che questo fosse un compito arduo, come si può del resto ricavare da una sua affermazione presente nella breve Introduzione al suo libro “Tracciati dialettici”. Infatti, egli scrive che tale opera, orientata a ripensare il metodo hegelo-marxiano, rappresenta solo il tentativo abbozzato di ritrovare le fila di un ragionamento dialettico e marxista, di cui cerca di mostrare la fecondità, applicandolo all’analisi di fenomeni centrali della nostra cultura attuale.
Possiamo senz’altro dire che questa problematica costituisce il filo rosso della sua riflessione, i cui scopi principali erano mostrare sia l’attualità del pensiero di Marx sia denunciare le insufficienze teoriche, etiche e politiche dell’ideologia contemporanea (post-modernismo), che di fatto impedisce lo sviluppo di qualsiasi pensiero critico.
Ma l’intensa attività di ricerca di Stefano Garroni non si rivolgeva soltanto a tematiche schiettamente filosofiche, essendo egli infatti convinto del legame inscindibile tra la riflessione filosofica e l’impegno politico. Dal suo punto di vista il ruolo dell’intellettuale consisteva nel conoscere e nel divulgare la conoscenza per contribuire attivamente alla costruzione di una società più giusta e democratica. In questa prospettiva si situa la lunga attività seminariale, in cui Garroni si è impegnato per anni, affrontando nelle sue lezioni i temi più disparati - dalle problematiche più squisitamente filosofiche alla storia del PCI e dell’Urss, dal problema della costruzione del partito in Lenin, alla riflessione gramsciana - sempre con l’obiettivo di contribuire alla formazione dei giovani e dei militanti della sinistra extra-parlamentare italiana.
Ultima opera filosofica pubblicata da Stefano Garroni è “Letture marxiste di Hegel” (Napoli 2013), il cui ripropone la cruciale riflessione sulla dialettica. Infine, tra le sue ultime attività ricordiamo il lavoro del Collettivo di formazione marxista, con cui ha curato la pubblicazione di libri di informazione politica e di divulgazione culturale, come per esempio “Finché c’è guerra c’è speranza” (2001), “Riproposte dialettiche” (2009) “Ricerche marxiste” (2012) e “Ripensare Marx” (2014).

mercoledì 14 maggio 2014

Scuole inadeguate, al Sud pochi asili



In un Paese dove la povertà eco­no­mica col­pi­sce già un 1 milione di minori, è troppo alto il tasso di disper­sione sco­la­stica ita­liana e in par­ti­co­lare è nelle regioni del Sud che l’offerta edu­ca­tiva per bam­bini e ado­le­scenti è «scarsa e ina­de­guata». La regione con la maglia nera è la Cam­pa­nia, dove solo nel 6,5% delle scuole pri­ma­rie è garan­tito il tempo pieno. Sono solo alcuni dei dati rive­lati dallo stu­dio di Save The Chil­dren, nel primo rap­porto inti­to­lato «La Lam­pada di Ala­dino — L’Indice per misu­rare le povertà edu­ca­tive e illu­mi­nare il futuro dei bam­bini in Ita­lia». In Cala­bria, per esem­pio, gli asili nido pub­blici sono suf­fi­cienti solo per il 2,8% dei bam­bini fino a 2 anni di età. Fa peg­gio la Cala­bria con il 2,5% e si regi­strano valori bassi anche in Puglia (4,5%), Sici­lia (5,3%), Basi­li­cata (7,3%), Abruzzo (9,5%). L’Emilia Roma­gna è prima per coper­tura di nidi pub­blici (26,5%) e tra le prime per par­te­ci­pa­zione al tea­tro dei ragazzi (ci sono stati nell’ultimo anno il 38,7%) e pra­tica spor­tiva (57,8%).

Meno di un terzo dei minori ita­liani fa sport. I libri e l’arte occu­pano il tempo libero di pochi: appena il 16% dei minori cam­pani ha visi­tato un monu­mento nell’ultimo anno, e ancora meno i ragazzi in Cala­bria, il 12%. La situa­zione è più grave e dif­fusa al Sud, ma per­fino Friuli Vene­zia Giu­lia, Lom­bar­dia e Emi­lia Roma­gna, le regioni ita­liane più «ric­che» di ser­vizi e oppor­tu­nità edu­ca­tive per bam­bini e ado­le­scenti, non reg­gono il con­fronto con l’Europa: nes­suna regione ita­liana è in linea con alcuni obiet­tivi euro­pei quali, per esem­pio, la coper­tura degli asili nido che dovrebbe essere del 33% (nella fascia di età 0–2 anni), ma arriva a stento al 26,5% in Emi­lia Roma­gna. E, per esem­pio, la disper­sione sco­la­stica, che ha numeri altis­simi in Cam­pa­nia e Sici­lia (22 e 25,8%), arriva anche in Valle d’Aosta al 19% (l’Ue ha posto obiet­tivo del 10% al 2020).

13/05/2014 11:44 | WELFARE - ITALIA | Fonte: Redattore Sociale

venerdì 9 maggio 2014

Nuovo numero (maggio 2014) di Lavoro Politico


Il nuovo numero di Lavoro Politico
(maggio 2014)

Comunisti in Europa
 

Novant'anni dopo Livorno. index
 

Ugo Mattei: i predatori dei beni comuni
(anche in questo blog)

per leggere, vai a
http://www.lavoropolitico.it/

sabato 3 maggio 2014

Ugo Mattei: i predatori dei beni comuni. Il caso Taranto


Secondo Ugo Mattei, teorico dei beni comuni, il caso Taranto dimostra le nefaste conseguenze del distorto "sviluppo" capitalista. Se ne può uscire solo coniugando lavoro, salute e ambiente ed evitando le contrapposizioni tra lavoratori e cittadini, con la partecipazione. Sul Manifesto del 1 maggio:

I predatori dei beni comuni



«Il lavoro è un bene comune» era lo striscione che apriva un corteo milanese della Fiom prima che si
raccogliessero le firme sui quesiti referendari sull’acqua del giugno 2011. Erano quelli i mesi in cui
nell’occidente liberale i «beni comuni» stavano abbandonando le scrivanie di un numero circoscritto
di studiosi, per lo più economisti negli Stati Uniti (Elinor Ostrom ed altri) e giuristi in Italia (Commissione
Rodotà), ponendo le premesse per divenire importante categoria del dibattito politico, capace
di infliggere, con la vittoria del referendum sull’acqua, una delle pochissime sconfitte del modello
neoliberale trionfante dalla caduta del Muro di Berlino.
Comprendere il lavoro fra i beni communi non è stata operazione politica priva di critiche, che vennero
da quanti ancora credono nel costituzionalismo liberale e dalla corrente di pensiero erede
dell’operaismo. I primi hanno fatto leva sulle difficoltà teoriche dell’inserire il lavoro fra i beni
comuni. Inoltre, hanno sostenuto che «se tutto è un bene comune nulla è un bene comune», rivendicando
così una specie di purezza concettuale per cui i beni comuni non potrebbero essere nulla più
che un tetiumgenus ben definito fra proprietà privata e proprietà pubblica. Dall’altro lato, la corrente
di pensiero erede dell’operaismo, che ha avviato una importante riflessione sul «comune»
(Michael Hardt e Toni Negri), ha evidenziato la tensione, in condizioni di capitalismo cognitivo, fra
l’opzione di porre al centro il reddito e l’idea che il lavoro possa essere un bene comune (Andrea
Fumagalli).
Il debito ecologico
Visti gli effetti odierni del progetto di produzione fordista insita nel «Piano Sinigaglia» che, insieme
allo Schema Vanoni, utilizzò il denaro del Piano Marshall per rafforzare la produzione d’acciaio
a Piombino, Conigliano e Bagnoli e dar vita al nuovo stabilimento Italsider di Taranto, è difficile
negare che il lavoro o meglio quel tipo di lavoro sia un «male comune». Un male per il lavoratori,
contadini poveri cui fu promesso un futuro migliore rispetto a quello dell’«avara civiltà dell’ulivo»
e per l’ intera comunità nazionale persuasa, attraverso un imponente sforzo degli apparati ideologici
dello Stato, che la trasformazione brutale di beni comuni fisici e sociali come il paesaggio,
l’ambiente, la salubrità delle acque, l’antico sapere contadino ed artigianale in capitale costituisse
un progresso. Quel periodo storico venne presentato come boom economico (per enfatizzare il
legame con lo «Zio Sam») o come miracolo economico, una locuzione più adatta a convincere i
«miracolati» che trascorrere lunghe e dure ore respirando i fumi della trasformazione della ghisa in
acciaio fosse un premio di cui bisognava esser grati ai vari protettori politici democristiani che si
battevano a Roma per portare lavoro, sviluppo e progresso nelle terre dei cafoni (Pallante).
Taranto è fin dalle sue origini una tragedia del modello di capitalismo definito estrattivo e fondato su
economie di scala, su razionalizzazione di processi produttivi nel quadro di un processo decisionale
strutturato in modo da non potersi far carico delle esternalità negative, siano esse di carattere ecologico
ovvero sociale. A bene vedere infatti, dopo la sbronza «sviluppista» che un decennio dopo la
realizzazione dello stabilimento ne decise il «raddoppio» (in realtà la triplicazione avvenuta nel 1971
in spregio alle prime resistenze del Comune di Taranto che cercò di opporsi negando i permessi edilizi),
la questione ambientale fu posta proprio dalle maestranze tarantine. La «vertenza Taranto» nei
confronti di Italsider si sviluppò nel 1974 ottenendo qualche risultato positivo sotto forma di un
accordo contenente una serie di obblighi volti al mantenimento di un ambiente di lavoro più
accettabile.
Tipologia del danno
Le conoscenze disponibili nei tardi anni Cinquanta (sono del 1959 i primi lavori di sradicamento
degli ulivi secolari e dei vigneti di una delle coste più belle del mezzogiorno) intorno a quel modello
di sviluppo, che oggi sappiamo bene esser stato sovvenzionato attraverso il «debito ecologico», non
erano quelle disponibili oggi. Neppure il libro simbolo dell’ambientalismo, Primavera silenziosa di
Raquel Carson, era ancora stato pubblicato ed Enrico Mattei veniva accolto come un eroe ovunque si
recasse per proporre i suoi disegni (visionari per l’epoca) di sviluppo estrattivo. Occorre dunque una
comprensione storica di più lungo periodo per smettere di presentare Taranto come un conflitto del
qui e adesso fra lavoro e ambiente (o salute).
La sensibilità ecologica a livello internazionale inizia infatti ad emergere nei tardi anni Sessanta
e dal punto di vista economico le analisi di Fritz Shumacher (in origine allievo prediletto di Keynes)
dimostrano come le sole ricette coerenti con le esigenze di un modello economico sostenibile vadano
cercate in modelli «piccoli e bellissimi», che privilegiano il lavoro di qualità e la buona distribuzione
nelle comunità di riferimento rispetto al modello fordista a alta concentrazione di capitale.
Anche in Italia la sensibilità ambientale stava pian piano emergendo. Sebbene la Legge Merli, prima
normativa a tutela dell’ambiente, dovesse giungere soltanto nel 1976, la giurisprudenza di legittimità
e di merito aveva iniziato in materia di immissioni industriali (l’articolo 844 del Codice Civile)
a considerare il diritto costituzionale alla salute (Articolo 32 della Costituzione) come immediatamente
precettivo e soprattutto non comprimibile o bilanciabile con qualsiasi altro interesse pur
costituzionalmente garantito come il lavoro o l’iniziativa economica. L’evoluzione di questa sensibilità
capace di comprendere il legame indissolubile fra salute ed ambiente, era iniziata con la cosiddetta
Legge antismog del 1964 e aveva raggiunto il suo punto d’arrivo con la legge istitutiva del
Ministero dell’ambiente nel 1986. In quello stesso periodo i giuristi lavorarono alacremente alla
costruzione di nuove tipologie di danni risarcibili, tutte indicative di una emergente sensibilità
capace di dare rilevanza al bisogno fondamentale di condurre una vita qualitativa in un ambiente
sano al riparo da minacce per la salute psichica o mentale. Si sviluppa così il dibattito sulla risarcibilità
del danno non patrimoniale nella sua componente «biologica» (integrità fisica), «morale» (integrità
psichica) e infine «esistenziale».
Paradossalmente, l’identità di interessi fra lavoro, salute ed ambiente venne offuscata proprio nel
quadro di questa evoluzione giuridica e culturale. La necessità di ancorare la tutela giuridica a diritti
soggettivi, pur fondamentali e di rango costituzionale, fece perdere di vista la dimensione collettiva
e quella dei doveri sociali, individualizzando il conflitto. Fu così che si insinuò la visione di un contrasto
di interessi fra lavoro ed ambiente laddove il primo fu utilizzato tramite una classica strategia
ricattatoria, cui il sindacato non riuscì a resistere, come scudo ideologico a tutela del profitto. Da un
lato la riduzione della questione ad un conflitto fra diritti ed interessi individuali contrapposti (produrre
da un lato, godere tipicamente come proprietario residenziale di aria buona e un bel paesaggio
dall’altra) rendeva gli interessi sovra-individuali indirettamente coinvolti (lavoro e ambiente) in conflitto
tra loro. In più, lo Stato Sociale proprio in quegli anni dichiarava di potersi far carico del diritto
costituzionale alla salute tramite l’istituzione (e siamo alla metà degli anni Settanta) del Servizio
Sanitario Nazionale, con ciò spostando la partita nell’ambito del diritto pubblico.
In cerca di riconversione
In questo quadro il lavoro (salariato) venne ridotto ad una mera componente del processo produttivo,
importante in quanto «lotta alla disoccupazione» e dunque contrapposto alle esigenze di conservazione
dell’ambiente visto come entità statica e conservatrice. La dimensione qualitativa del lavoro
come processo di emancipazione, collaborazione alle scelte produttive, guardiano delle condizioni di
luoghi e della salvaguardia di salute, ambiente e coesione sociale (qui sta l’importanza del lavoro
domestico di cura ad oggi non salariato) viene completamente sminuita nella logica fordista, tanto
nel caso di attività economica privata quanto nel caso di quella pubblica. Eppure gli appigli costituzionali
non mancano, dall’articolo 43 con il ruolo riconoscibile alle «comunità di lavoratori e utenti»
all’articolo 46 con il «diritto dei lavoratori a collaborare nella gestione delle aziende».
Negli anni Cinquanta l’ideologia della crescita promossa dallo Stato in prima persona accompagnata
da ignoranza della questione ambientale portò alla devastazione di Taranto. Negli anni novanta, la
celebrazione ideologica delle virtù salvifiche del privato portò alla vendita al gruppo Riva. Qui però
non c’è buona fede perché le conoscenze ecologiche c’erano già tutte ed il dovere dello Stato
(Governo Prodi) sarebbe stato quello di farsi carico in prima persona della conversione dell’intera
economia dell’area. Infatti, l’immenso sito dello stabilimento di Taranto era già stata dichiarata, per
legge, zona ad alto rischio ambientale nel 1994 e la vendita avvenne nel 1995. In più, la vendita della
più grande acciaieria Europea, che impiegava oltre 12.000 operai avvenne a prezzo vile, poco più di
700 milioni di euro, nell’ambito di quella immensa dismissione di patrimonio pubblico le cui conseguenze
ricadranno per decenni sulle spalle delle genrazioni future. Nello specifico privatizzando
non ci si poteva certo liberare del problema ma si moltiplicarono i soggetti coinvolti ed i conflitti di
interesse fino a giungere all’attuale stallo.
Produzione comune
In questo contesto bisogna riflettere sul senso del lavoro come un bene comune, un’esperienza collettiva
capace di emanciparsi dall’alienazione fordista e dall’idolatria produttivistica per farsi avanguardia
nella trasformazione del capitale in beni comuni. Il lavoro può essere di commoning, dando
così senso pieno alla condivisione sociale nelle scelte relative alla produzione, nei processi produttivi,
e nella grande conversione ecologica che volenti o nolenti siamo chiamati ad intraprendere. Il lavoro
si fa bene comune se recupera la sua dimensione collettiva e la sua soggettività politica diretta,
prendendo coscienza prima di tutto delle strumentalizzazioni tragiche di cui è stato vittima. Non esiste
un interesse dell’ambiente e della salute contrapposto a quello del lavoro. Esiste soltanto un interesse
predatorio della produzione capitalistica, che fa uso della tenaglia fra pubblico e privato per
distruggere ogni bene comune, incluso il lavoro.
© 2014 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE