sabato 28 maggio 2016
La stregoneria del mercato capitalistico. Parla l'antropologo Marco Aime
«Giocare in borsa: azzardo e stregoneria a Wall Street» è il titolo dell’incontro con l’antropologo Marco Aime svoltosi sabato 28 maggio (ore 18.30 – Piazza del Duomo) nell’ambito della VII edizione di Pistoia – Dialoghi sull’uomo (www.dialoghisulluomo.it), festival di antropologia del contemporaneo, 27-29 maggio 2016, ideato e diretto da Giulia Cogoli
«Se un uomo trova un diamante, ha fortuna, se un uomo trova due diamanti, ha molta fortuna, se un uomo trova tre diamanti: è stregoneria» recita un proverbio africano. La stregoneria e la magia, infatti, spiegano ciò che è evidentemente di molto lontano dalla normalità. Termini come «magia» e «stregoneria» ci rimandano immediatamente a un mondo primitivo, segnato da superstizioni, popolato da individui succubi di credenze, impregnato di elementi, che noi definiremmo sovrannaturali e pertanto non controllabili dall’uomo. Ma se proviamo a spostarci sul nostro quotidiano, in un’epoca in cui i mercati hanno preso il sopravvento sulla politica, le borse sulle manifatture, la finanza sul lavoro, ci accorgiamo che alcune considerazioni sui «primitivi» suonano particolarmente evocative e inaspettatamente familiari. Perché lavorando, forse si arriva a trovare un diamante; lavorando molto e con l’aiuto della fortuna anche a trovarne due, ma è solo la credenza nel Dow Jones che può indurre a pensare di poter guadagnare tre diamanti in breve tempo e senza lavoro. Se è vero che il capitalismo classico, quello manifatturiero è nato da una istanza di razionalizzazione, non si può dire altrettanto del moderno capitalismo finanziario.
Abbandonata quell’etica protestante cara a Weber, che aveva caratterizzato la borghesia del capitalismo nascente, il capitalismo finanziario fonda la propria esistenza sulla forzatura e sull’aggiramento di «quelle» regole di mercato. A partire dagli anni Settanta si è così avviato un processo, sempre più rapido e intenso, di finanziarizzazione del capitalismo mondiale. Il lavoro ha lasciato uno spazio sempre maggiore al capitale e alle transazioni monetarie ed è in seguito a questa trasformazione, che prende via via sopravvento lo spirito dell’incertezza. Le situazioni di rischio sarebbero quelle in cui gli esiti sono sconosciuti, ma la distribuzione delle probabilità è nota fin dall’inizio. Al contrario, in quelle dell’incertezza, la distribuzione delle probabilità è invece ignota. Il rischio è ormai parte integrale del meccanismo capitalistico contemporaneo e possiamo identificare una serie di pratiche magiche nel cuore della finanza, che si fondano sulla fede nel mercato, frutto di una nuova religione che lo considera fonte di certezze. Tutto questo nonostante le classifiche stilate dalle agenzie di rating, non siano più scientifiche delle previsioni di un astrologo e di una lettrice di tarocchi.
Quanti tra i non addetti ai lavori sanno cosa significa rating, spread, subprime, bond, credit crunch oppure cosa sono e che funzione hanno agenzie come Moody,s o Standard & Poor’s? Eppure veniamo ogni giorno a conoscenza del fatto che il nostro futuro, quella dell’azienda in cui lavoriamo, del Paese in cui viviamo sembrano dipendere da questi dati, chiari solo agli operatori del settore. Anche il linguaggio di maghi e stregoni è spesso esoterico, fatto di formule incomprensibili ai più. Proprio in questo sapere segreto sta una parte del loro potere e della loro influenza sulla gente. Già Malinowski rilevava che, mentre la scienza è aperta a tutti, è un bene condiviso dall’intera comunità, la magia è occulta e viene insegnata attraverso misteriose iniziazioni e trasmessa attraverso canali ereditari diretti o almeno molto chiusi. Nel film La grande scommessa, che narra la vera storia della tristemente nota crisi del 2008, la voce fuori campo dice: «titoli garantiti da ipoteca, mutui subprime, tranche… Wall Street usa termini che confondono per farti credere che solo loro possono fare quello che fanno o meglio ancora allo scopo di non farsi rompere le palle». Si tenta di controllare e manipolare la natura servendosi di pratiche e mezzi particolari, esclusivi di cui solo loro conoscono i poteri.
La scienza si fonda sul principio della prova empirica, verificabile e ripetibile. L’economia no, per questo non può essere considerata una scienza. È sintomatico, peraltro, che il verbo usato per definire l’attività finanziaria sia «giocare». Anche in francese si dice jouer à la bourse, play the stock market in inglese e juega en la bolsa in spagnolo. Non si lavora «in borsa», vi si gioca e ogni gioco, si sa, prevede un più o meno rilevante margine di rischio, proprio come ogni gioco d’azzardo. Esiste una componente imponderabile, che solo il miraggio di un miracolo può far sì che diventi accettabile. Occorre credere che quella parte di «sorte», fuori dal nostro controllo, giri a nostro favore e chi controlla la sorte? Lo stregone, il mago. In genere le credenze in magia e stregoneria vengono evocate come marcatori di primitività, come sintomo di un pensiero irrazionale, pre-logico; detto in altri termini è un dato che distingue «noi» dagli «altri». Uno scenario dove gli «altri», con una lettura implicitamente evoluzionista, sono più arretrati di noi. In realtà, La stregoneria non è tanto un retaggio del passato ancestrale, come si pensa comunemente, ma ha un intimo legame con la modernità capitalista. Forse vale la pena di ricordare il lucido cinismo di Ambrose Bierce, che nel suo Dizionario del diavolo dava questa definizione: «Magia: arte di trasformare la superstizione in denaro».
sabato 21 maggio 2016
HUGO E IL TEMPO
Siamo sulle ali del tempo e non ci
sono artigli per sostenerci
(Hugo von Hofmannsthal)
…e infatti, Hugo, il tempo è la misura dell’esistere
ma è anche la misura dell’incommensurabile….
(Dublicius)
Hugo von Hofmannsthal (1874-1929)
lo scrittore austriaco fu il testimone e la sensibile antenna della fine di un'epoca, della propria epoca. Socialmente aristocratico, fu conservatore in politica, sui generis, in quanto cio' che a lui premeva erano le tradizioni culturali della sua terra coniando la celebre espressione, "rivoluzione conservatrice". Amo' la musica di Strauss e la lego' alla sua straordinaria capacità lirica. E infatti, a mio parere, è stato e rimarrà uno dei poeti tra gli intramontabili di tutte le epoche, che sa parlare all'anima individuale e a quella universale del mondo.
giovedì 19 maggio 2016
Rivoluzione culturale, un’utopia attuale
2016. Sbaglia chi lamenta l’assenza di valori nella società di oggi, che in realtà assume il profitto a valore dominante e universale - come Dio indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero socialista è stata interdetta, ma si è disgregato lo stesso contesto dei valori borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia, tolleranza, libertà... come le «menzogne viventi» di cui scriveva Sartre nel ’62
di Edoarda Masi
Sono passati (cinquant’anni, ndr) anni dall’inizio della rivoluzione culturale in Cina, o meglio, da quando il movimento sfuggì dalle mani della burocrazia, dopo il dazebao della giovane Nie Yuanzi il 25 maggio 1966: per breve tempo, giacché nel corso del 1968 (febbraio o dicembre, secondo le varie interpretazioni) era virtualmente conclusa.
Esporre nelle linee essenziali le vicende di quel movimento, i suoi contenuti, i motivi della sua eccezionale importanza nella storia mondiale, le ragioni della sua sconfitta e, ad un tempo, della sua attualità, risulta impossibile.
Infatti il pubblico al quale ci si rivolge ha subìto anni di lavaggio del cervello, più che mai intenso e distruttore nell’ultimo decennio, a proposito non tanto o non solo delle questioni cinesi, quanto della conoscenza e dell’interpretazione della storia degli ultimi due secoli, delle origini e dello sviluppo del movimento operaio internazionale, degli attacchi violenti e ininterrotti ai paesi socialisti (che hanno contribuito a deformarne irrimediabilmente il carattere); per non parlare dei contenuti del pensiero socialista nelle sue diverse correnti (…)
Sbaglia chi lamenta l’assenza di valori nella società di oggi, che in realtà assume il profitto a valore dominante e universale – come Dio indiscutibile e onnipotente. Non solo la conoscenza del pensiero socialista è stata interdetta, ma si è disgregato lo stesso contesto dei valori borghesi, di cui tutti si riempiono la bocca: democrazia, tolleranza, libertà… come le «menzogne viventi» di cui scriveva Sartre nel ’62, lanciate dalle città d’Europa in Africa, in Asia: «Partenone! Fraternità!», risuonano vuote oggi fino nel centro delle metropoli. Hanno la stessa funzione dei «variopinti legami» della società feudale di cui dice il Manifesto del partito comunista. Li ha spazzati via, divorando la stessa borghesia, un padrone anonimo come Dio indiscutibile e onnipotente, che chiamano «mercato» per non usare il termine «capitale», che sarebbe più corretto.
Il padrone anonimo domina oggi nel mondo, semina degrado dolore e distruzione anche nei paesi che avevano cercato la via socialista; anche in Cina, dopo che, con la morte di Zhou Enlai e di Mao Zedong, ebbero fine le lunghe lotte con cui prima, durante e dopo la rivoluzione culturale, si era tentato disperatamente di bloccarne l’ingresso. Si era arrivati, da parte dei rivoluzionari cinesi, a riconoscere il dominio effettivo del capitale anche nell’Unione sovietica staliniana e brezneviana (le stesse conclusioni alle quali, per altra via, è giunto Istvàn Mészàros); e ad attaccare quanti, nel Pcc, intendevano seguirne la strada: quelli che oggi sono al potere. Come già da un pezzo e ripetutamente è stato dimostrato, il degrado e la distruzione, l’allargamento oltremisura della forbice che divide i ricchi dai poveri, la stratificazione sociale sempre più rigida, la perdita di ogni reale cittadinanza da parte dei poveri – la stragrande maggioranza – non sono fenomeni marginali, difetti ai quali porre un rimedio, né residui di un passato di «arretratezza» da superare, ma il risultato del meccanismo universale in atto e la condizione stessa della sua esistenza.
Rapidamente avanzano dalla periferia verso il cuore delle metropoli: chiunque non sia del tutto cieco ne fa esperienza quotidiana. Più si aggrava l’infelicità della vita senza scopo, del lavoro idiota, del lavoro con pericolo di morte e del non lavoro, dell’assenza di umanità, della solidarietà ridotta a beneficenza, anche nelle felici metropoli, dove il nemico da combattere ha perduto anche i connotati culturali positivi della borghesia, più diventa indispensabile per quest’ultimo che la massa degli infelici sia accecata: che sia cancellata la nozione stessa di un’alternativa possibile, e la storia di quelli che per essa sono morti, a milioni nel corso di due secoli. (…)
Come raccontare allora che i giovani cinesi in rivolta già in quegli anni lontani avevano sollevato questi problemi, tentato di fare un passo oltre, verso una dimensione comunista dei rapporti umani (economici e sociali); che avevano posto con grande libertà le questioni del rapporto fra dirigenti e diretti, fra partito e popolo, fra stato e individuo; fra colti e incolti; fra le esigenze della produzione e quelle del benessere immediato di chi lavora. Nelle grandi città industriali e nei loro hinterland sperimentando forme audaci di organizzazione «orizzontale», di gestione decentrata del territorio, di imprese miste agricolo-industriali; in alcune comuni, realizzando forme inedite di gestione «dal basso». (…) Tutta ideologia, ti diranno gli apologeti del presente, i cinici ideologi del «mercato». La sola cosa possibile, allora, è di consigliare a qualche volenteroso di ricercare i vecchi documenti , ricominciare a studiarli: anche per vedere se alla fine non possano essere di qualche utilità qui e ora.
(Articolo pubblicato sul manifesto il 25 maggio 2005)
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domenica 15 maggio 2016
Concetto Marchesi: ecco cos'è la "buona scuola" (1946)
(..) Poiché la scuola è la più
chiara voce che ci giunga dal passato, è un albero antico che non sopporta
sconsigliate mutilazioni, occorre procedere con la massima cautela
nell'innovare e nell'abolire ed
anzitutto tener presente che l'istruzione in tutti i suoi gradi è problema non
di regioni,
comuni o privati ma nazionale che va affrontato in modo unitario senza timore
dell'accentramento.
Il
vero decentramento dipende dall'insegnante, in quanto è la persona umana che fa
buona la scuola.
Il
problema educativo, considerato in genere dagli uomini politici soltanto per
fuggevoli motivi di opportunità e magari nei limiti di un collegio elettorale,
guardato nel suo insieme rivela che "l'istituto scolastico è oggi in crisi
di dissoluzione ed aspetta una disciplina con la stessa ansietà con cui il
popolo italiano aspetta lavoro e pane"
sintesi
di Tina Tomasi da Concetto Marchesi, La
cultura e la scuola, in Rinascita,
1946, n.9, pp.217-224
domenica 8 maggio 2016
Tina Tomasi: I convitti della Rinascita
I
convitti della Rinascita
Avanzata pedagogia dell’autogoverno, "collettivo", uno dei maggiori promotori fu Antonio Banfi,
ma le forze reazionarie ne provocarono la fine prematura (1945-1956)
Il Convitto si presenta come "scuola del popolo" aperta
anche ai reduci, ai perseguitati dal
regime, agli ex internati, carcerati ed esiliati ed intende offrire a quanti
hanno capacità e volontà di riprendere studi interrotti o di iniziarli ex novo
una guida sicura ed un aiuto ben più consistente della solita borsa di studio
che lascia il beneficiario abbandonato a se stesso alle prese con difficoltà
spesso insormontabili. Organizzazione interna, contenuti culturali, attività
didattiche sono strutturati in base alla pedagogia più avanzata ed in stretto
rapporto con la viva realtà politica e sociale, tenendo ben presente che gli
alunni sono uomini maturi o precocemente maturati da dure ed abnormi
esperienze. La direzione non è in mano di un’autorità insindacabile investita
dall’alto e dotata di ampi poteri discrezionali ma di un comitato elettivo che
cura l’esecuzione delle deliberazioni prese settimanalmente dall’assemblea
generale degli alunni; ed il collegio dei professori, tutti di sicure idee
democratiche, ha funzione di guida, ossia “ispiratrice e suscitatrice di
energie“. Nella vita interna ha un ruolo importante il giornale murale che
accoglie riflessione e proposte frutto di ricerca e discussione comune al fine
di elaborare una “cultura collettiva“ e di migliorare il “codice del convitto“,
documento la cui consultazione è obbligatoria quando si deve prendere qualsiasi
decisione.
Gli aspiranti all’iscrizione italiani e stranieri sostengono una
prova scritta atta a rivelarne la maturità e poi frequentano “un corso
orientatore, rivelatore, selettivo“ al termine del quale sono oggetto di un
doppio giudizio tecnico da parte di esperti e psicologico (riguardante il
carattere, la moralità, le attitudini) da parte dei compagni. La vita interna
si regge sull’autogoverno; gli ospiti hanno piena responsabilità anche per
quanto riguarda lo studio; la valutazionne del profitto e del comportamento,
demandata al “collettivo“ degli insegnanti e degli alunni è trascritto su una
scheda “sanitaria, sociale e psicologica“ continuamente aggiornata.
Il piano di studi rifiuta il sapere “libresco“ per raccogliere una
cultura il più possibile attuale, scevra da provincialismi, aperta ai
problemi politici sociali economici, in primo luogo a quelli del
lavoro che occupa una parte non marginale della giornata. Il convitto dispone
di una biblioteca, una sezione della quale raccoglie documenti della storia
recente, in particolare della guerra partigiana.[3]Sul piano pratico la maggiore
difficoltà è fin dall’inizio di ordine finanziario,provvisoriamente e solo
parzialmente risolta da un decreto del
Clnai emanato il 23 Aprile 1945 che a somiglianza di quanto avviene negli Stati
Uniti pone a carico dello Stato la spesa occorrente per dare ai reduci la
possibilità di riprendere e portare a termine gli studi. Nel gennaio 1946
l’Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani) riesce a stipulare con il
ministero del’assistenza postbellica un accordo in base al quale ottiene un
contributo per ogni ospite, previo controllo sull’attività organizzativa e
didattica. Il provvedimento favorisce la nascita di nove convitti (Roma,
Torino, Genova, Bologna, Venezia, Reggio Emilia, Novara, Sanremo, Cremona) che
assumono il carattere di scuole professionali specializzate ad eccezione del
veneziano che si configura come orfanotrofio: tutti dunque più o meno
forzatamente devianti dal modello milanese e destinati dalla mancanza di mezzi
a breve e precaria esistenza. Infatti il finanziamento governativo avviene col contagocce
ed in costante ritardo e si assottiglia ulteriormente quando dopo il 18 aprile
1948 le competenze del soppresso ministero dell’assistenza postbellica passano
a quello degli interni, retto da Scelba, e le modeste sovvenzioni locali non
bastano ad assicurarne la sopravvivenza.
Inutilmente Banfi, il più prestigioso tra i promotori, denuncia in
Parlamento un vero e proprio sabotaggio.[4] L‘irrobustita stampa
conservatrice sferra attacchi sempre più violenti contro i convitti; titoli
vistosi informano i benpensanti che ai partigiani o sedicenti tali, gente tutta
poco raccomandabile, s’insegna una nuova “mistica“ non meno pericolosa della
fascista; che agli esami di ammissione si fanno domande di sapore sovversivo o
quanto meno antinazionale ed antireligioso. Qualcuno definisce il convitto “strumento
di rosso attivismo mimetizzato“, in parole povere centrale di addestramento al
terrorismo, e non manca chi insinua l’uso illegale di radio ricetrasmittenti
per finalità eversive; e tutti insieme, di sperpero di pubblico denaro. Queste
e simili accuse gratuite trovano credito anche a causa di alcuni sbagli od
imprudenze del comitato direttivo. Riesce perciò facile, nel
mutato clima politico, provocare nel giro di pochi anni la morte o la riduzione
alla normalità dei convitti, dei quali soltanto il milanese, appoggiato
fortemente dal PCI riesce a sopravvivere ma attraverso molte traversie e
trasformazioni.[5]
Nonostante alcuni aspetti discutibili, dovuti in parte alle
circostanze, i convitti costituiscono nella grigia monotona burocratica storia
della nostra scuola un’esperienza di rilievo, anche se condizionata da un
particolare momento storico e non tanto per la novità dei programmi e dei
metodi quanto per la forte carica democratica presente anche nell’organizzazione
interna, dove lo studente, retribuito come qualsiasi altro lavoratore,
partecipa attivamente alla gestione di una scuola di precisa impostazione
ideologica, in contrasto con la comune ipocrita neutralità: aspetti
appassionatamente difesi da Antonio Banfi in Senato: “Questi convitti […]
possono commettere molti errori, ma […] tentano una esperienza nuova, una
esperienza democratica della scuola, una esperienza che porta i figli del
popolo a partecipare attivamente della cultura. […] Il loro valore positivo
supera di gran lunga le eventuali manchevolezze; e, quando parlo di valori, mi
riferisco soprattutto alla reale capacità di formare cittadini tecnicamente e socialmente preparati, alla fiduciosa
cooperazione tra docenti e discenti, alla attuazione più completa dell’art. 34
della Costituzione“.[6]
da Tina Tomasi, La scuola italiana dalla dittatura alla repubblica
(1943-1948), Ed.Riuniti, 1976, pp. 248-252
altre
risorse:
A scuola di democrazia e responsabilità. I
Convitti-Scuola della Rinascita (Nunzia Augeri)
[1] Angelo
Peroni, Genesi, finalità, primo funzionamento e sviluppo di uno dei più
interessanti esperimenti di scuola di questo dopoguerra, in Patria
indipendente,11 luglio 1965, p. 7. Attualmente sopravvive soltanto il
Convitto di Milano,ma completamente svuotato dalla funzione originaria.
[2]Q.
Casadio, Gli ideali pedagogici della resistenza, Bologna, Alfa, 1967, p.
161 Alessandro Netta, Scuola e resistenza nei "convitti della
Rinascita". Discorso in Parlamento sul bilancio della pubblica
istruzione, Roma, ed. Anpi, 1950.
[3] Luisa Socci, (C’è una scuola a Milano, in Il Politecnico, 12 marzo 1946) racconta
una visita al convitto di Milano, scuola sognata e progettata in montagna dai
partigiani non come fabbrica di diplomi sia pure concessi per meriti militari
ma come strumento per rinnovare lo studio e liberarlo dal privilegio economico.
Nonostante la modestia degli inizi, la sede provvisoria, le scarse
disponibilità finanziarie ha molte domande d’iscrizione. I promotori a chi
s’informa sul possibile sviluppo dell’iniziativa rispondono: “Ora, accanto a
tutti i progetti, a tutte le polemiche e le discussioni teoriche che si stanno
facendo sull’argomento, noi almeno manderemo alla Costituente un’esperienza
concreta di riforma scolastica: la prima esperienza di scuola democratica che
sia stata fatta in Italia”.
[4] Antonio Banfi nel discorso
al Senato del 27 aprile 1950 (Scuola e
società, Roma, Editori Riuniti, 1958, p.105) denuncia le vessazioni a cui
il convitto Rinascita è sottoposto, proprio per aver cercato di rinnovare la
scuola nello spirito della resistenza ed aggiunge alludendo alla mancata
riforma della scuola italiana: “E’ una battaglia perduta, onorevoli colleghi,
questa, per la democrazia italiana. È la battaglia perduta della ricostruzione
di queste forze vive e sane del paese. E v’è un’ altra battaglia perduta,
onorevole ministro, volontariamente perduta: è quella per cui i convitti Rinascita
dei partigiani e dei reduci sono stati privati dei loro sussidi. Scuole nate
nel primo momento della liberazione, col fondo raccolto dai partigiani stessi,
scuola nascente col sacrificio di questi giorni, scuola in cui essi avevano
sperato di educarsi civilmente e tecnicamente e di preparare future grandi
scuole di lavoratori. Questa funzione dei convitti non è stata compresa; o, se
è’ stata compresa, è stata temuta; grave colpa e grave danno della scuola
democratica”.
[5] Riforma della scuola (Operazione Andreotti, 1956, n.2)
racconta che alle due del mattino del 1 dicembre 1955, per ordine del ministro
delle finanze Giulio Andreotti, il convitto di Milano è stato sfrattato dai
locali di via Zecca Vecchia, già sede del Partito nazionale fascista, e che ha
trovato provvisoria e dispersiva ospitalità nei locali della camera del lavoro,
dell’Anpi, della Umanitaria. In seguito si stabilisce in via Giambellino 115;
e, nonostante le crescenti difficoltà, si sforza di mantenersi fedele ai
principi per cui è sorto ed in stretto contatto con la realtà contemporanea.
Dal 1956, anno in cui ottiene il riconoscimento legale, assume l’onere di una
scuola media a pieno tempo per ragazzi di famiglia economicamente e
culturalmente depressa; il che fa si che sia ormai considerato come un istituto
per ragazzi difficili, una specie di ghetto per esclusi: posizione che invece
energicamente rifiuta.
[6] A. Banfi, Per la riforma della scuola, Collana
Discorsi parlamentari, Stab. tip.
Uesisa, Roma , 1948, pp. 18-19. E più
tardi Angelo Peroni (Genesi, finalità,
ecc., cit): “Nonostante che l’Italia abbia camminato, i problemi sociali ed
umani che giustificarono il sorgere dei convitti-scuola sono sempre più che mai
attuali ed irrisolti […] Per questo io
credo che la storia dei convitti non sia finita, che il convitto di
Milano abbia il significato di un vivo ed operante auspicio di quella
liberazione della cultura che sottrarrà il nostro popolo alla schiavitù
dell’arretratezza e dell’ignoranza, che ci permetterà di utilizzare tanti
cervelli tuttora ignobilmente sprecati”. Vedi anche A. Raimondi e A. Pancaldi ,
Storia delle origini e delle attività del
convitto Rinascita, in Rinascita,
settembre 1955,p. 554; e Luciano Biancatelli, Una scuola ispirata alla resistenza, in Riforma della scuola, aprile 1966.
domenica 1 maggio 2016
UNA FOTO AL MUSEO
UNA FOTO AL MUSEO
Il volto della donna antica come corona sui capelli
non era più immobile,
quando ho preso il tuo viso tra le mani,
c’era un sogno che dormiva,
l’ho risvegliato il tuo sogno,
è entrato nei tuoi occhi
ora è lì che mi guarda,
se sorridi
(Dublicius)
Ipazia di Alessandria (355/70-+415)
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