lunedì 29 maggio 2017
LA PEDAGOGIA DELLA RIVOLUZIONE (2) -- IL COMMISSARIATO DEL POPOLO PER L'ISTRUZIONE (NARKOMPROS)
lunedì 22 maggio 2017
Guido Liguori: "Gramsci conteso": vent'anni dopo
IL TESTO DELLA RELAZIONE DI GUIDO LIGUORI AL CONVEGNO GRAMSCIANO IL 18 e 19 MAGGIO 2017, ROMA, SU "EGEMONIA E MODERNITA'".
Il contributo che dovrei cercare di dare in questa sede, nell’ambito di una sezione dedicata alla ricerca e al dibattito italiani sui temi del convegno, si intitola “Gramsci conteso”: vent’anni dopo.
Non è un titolo che ovviamente possa essere svolto in modo esauriente. Tanto più nello spazio di una esposizione orale necessariamente sintetica.
Anche intendendo il titolo come relativo solo al concetto di egemonia, come credo vada fatto, nell’ambito di questo convegno che all’egemonia è dedicato, dico subito che ho inteso il compito che mi è stato affidato non come un invito a ripercorrere pedissequamente il dibattito italiano degli ultimi venti anni (per autori e correnti di pensiero di altri paesi, del resto, sono previste in questo nostro incontro sessioni e relazioni apposite), ma solo come tentativo di indicare alcune delle principali idee-guida che hanno nutrito la ricerca e le interpretazioni gramsciane sul tema, in Italia, negli ultimi due decenni.
Per comprendere i caratteri di fondo della ricerca gramsciana in Italia nell’ultimo ventennio occorre in primo luogo partire dal dato della grande diffusione del pensiero di Gramsci nel mondo, iniziata già nel decennio precedente, ma di cui si è avuta piena coscienza in questo paese soprattutto negli anni Novanta.
Di contro, in Italia, il decennio in questione può essere definito un momento di passaggio, anche nel campo degli studi gramsciani come in altri settori della vita nazionale, culturale e non.
Finito il Partito comunista italiano, il partito di Gramsci, imperante l’ondata neoliberista, tanto forte da far credere ai suoi sostenitori di poter proclamare “la fine della storia”, anche il pensiero del comunista e marxista sardo ebbe a subire i contraccolpi di questa situazione, oscillando tra la diffusa proclamazione del suo definitivo tramonto e il tentativo, altrettanto diffuso, di assimilarlo al pensiero liberaldemocratico, che aveva ormai conquistato una nuova e più forte egemonia, a livello nazionale e internazionale.
Forse anche come conseguenza, o se si vuole per reazione a questa situazione, prese vigore in Italia l’affermazione della necessità di tornare a uno studio serio degli scritti di Gramsci, a uno studio che si lasciasse anche in parte alle spalle l’enorme mole delle interpretazioni – certo in molti casi preziose e da studiare, ma influenzate da tanti motivi diversi e stratificati e non sempre ancora vitali – per determinare un ritorno ai testi, a una loro ulteriore messa a fuoco filologica (esigenza già avvertita negli anni ’80, ma rilanciata con decisione nel decennio successivo) e alla loro ermeneutica, meno condizionata che in passato dalla contingenza della contesa politica.
Se si pone mente ai molteplici appuntamenti dell’anno gramsciano 1997, ad esempio, ai molteplici appuntamenti convegnistici che caratterizzarono quell’anno (Cagliari, Napoli, Lecce, Cosenza, Torino, solo per citarne alcuni, in ordine cronologico) si può dire che buona parte della “contesa su Gramsci” riguardasse in fondo la pertinenza o meno di quest’autore se non alla galassia liberaldemocratica, quanto meno a una collocazione molto vicino a essa.
Faccio un esempio soltanto. Il convegno di Cagliari ebbe certo il merito di far conoscere meglio in Italia la scuola di studi incentrata sulla categoria gramsciana di «egemonia internazionale», fiorita in ambito soprattutto anglo-americano.
Ma tale scuola non assumeva – mi chiedo –, al di là di ogni soggettiva volontà politica, una prospettiva di tipo democratico-liberale, nel momento in cui veniva assumendo positivamente la categoria di «società civile internazionale», incentrando su di essa il proprio discorso interpretativo?
In generale, ebbe a rilevare in quella sede un autore nordamericano, Benedetto Fontana, il porre al centro della scena teorica il concetto di «società civile» (come già Bobbio aveva fatto, in un contesto diverso, negli anni ’60), non significava solo leggere male Gramsci, ma anche dimostrarsi subalterni al rinnovato strapotere delle forze economiche e dei mercati da un lato, e alla «proliferazione di enti privati ed associazioni sempre più concentrati su singoli interessi» dall’altro.
Certo, lo scenario che andava delineandosi, a fronte della cosiddetta «globalizzazione» (direi meglio: «globalizzazione neoliberista») imponeva una rimessa a fuoco di alcune categorie gramsciane.
Ad esempio a Lecce Pasquale Voza, ritenendo irreversibile la crisi dello Stato-nazione, sosteneva la necessità di andare, per alcuni aspetti, oltre Gramsci, di cui ricostruiva scrupolosamente le posizioni, per poi concludere:
«Non c'è Stato senza egemonia»: aveva detto Gramsci nei Quaderni del carcere […] Ebbene, ora, dovremmo dire, c'è una egemonia capitalistica senza Stato, senza cioè l’attiva mediazione sociale e culturale dello Stato-nazione. Le casematte di questa egemonia capitalistica non sono riconducibili entro i confini tradizionali degli “apparati ideologici di Stato”, ma si articolano e si intrecciano in una trama di poteri e di saperi di ordine sovranazionale .
Non è questo il luogo per aprire il confronto sulla giustezza di questa tesi, a mio avviso solo parzialmente vera, ma comunque più che meritevole di attenzione e approfondimento.
Voglio solo indicare la dimensione dei problemi, le tensioni a cui anche la categoria di egemonia venne sottoposta, vent’anni orsono, dai grandi processi storici in atto.
In generale, tornando al tema della fortuna internazionale di Gramsci, è in qualche misura inevitabile che quanto più un sistema di pensiero si diffonda in aree culturali lontane nel tempo e nello spazio da quelle in cui ebbe origine, tanto più aumentino i rischi di imprecisione o anche di infedeltà interpretative.
Sul concetto di egemonia sono rimbalzate in Italia dall’estero anche molte voci che rispecchiavano una forte deformazione dello stesso.
Come ha notato Joseph Buttigieg, negli studiosi e nei cenacoli intellettuali del mondo anglofono, anche i più prestigiosi, si trova «un Gramsci quasi irriconoscibile» . Aggiungendo poi:
Sfogliando le 776 pagine di Cultural Sudies – una raccolta di saggi di autori vari, riuniti in un singolo volume pensato per essere adottato nei corsi universitari – ci si accorge ben presto che molti esponenti di questo filone di studi sono più disposti a decifrare degli elementi controegemonici che risiedono nella cultura popolare piuttosto che ad analizzare, come fece Gramsci, le ragioni per la durevolezza, l’elasticità dell’egemonia prevalente. Correnti controegemoniche si scoprono nei fenomeni più diversi e sorprendenti: negli spettacoli e nelle canzoni di Madonna, nella pornografia, persino nello “shopping” delle categorie sociali economicamente svantaggiate. Tale concetto di controegemonia non è mai stato elaborato da Gramsci nei suoi scritti, e perciò sarebbe più giusto considerarlo un concetto pseudogramsciano. L’attribuzione di questo concetto a Gramsci è basata sulla convinzione che egli fu il propugnatore della tesi che la cultura popolare è di per sé controegemonica. Più di una tesi, per i praticanti dei Cultural Studies, il quidditas contro-egemonico della cultura popolare è un articolo di fede ereditato da Gramsci .
Un altro esempio può essere considerato il canadese Richard J. F. Day, il cui libro (tradotto in italiano) aveva un titolo molto schietto e significativo: Gramsci è morto.
Il lavoro di Day si scagliava proprio contro la politica come egemonia. Non era una tesi nuova, aveva anzi una lunga tradizione teorica alle spalle, in primo luogo anarco-spontaneista, tornata in auge in alcuni settori dei movimenti no global a cui l’autore faceva esplicito riferimento.
Il tentativo di costruire una «contro-egemonia» (il termine è molto diffuso, come si vede, nel contesto anglofono) era per Day illusorio, poiché avrebbe significato accettare «l’egemonia dell’egemonia», ovvero una concezione della politica secondo cui un mutamento significativo può essere raggiunto solo simultaneamente, per lo più attraverso il controllo delle leve statuali e con una politica di alleanze.
Bisogna invece – per l’autore – agire in modo «non-egemonico», mettendo «in discussione – egli scrive – la logica dell’egemonia nel suo stesso fondamento» e sposando l’«affinità per l’affinità – afferma Day –, cioè per rapporti non-universalizzanti – ci spiega l’autore –, non-gerarchici, non-coercitivi, basati sull’aiuto reciproco e sul comune impegno etico».
Ci si trovava, da un punto di vista teorico, nell’ampia area culturale «post-strutturalista», in una versione particolarmente radicale che Day chiama anche «post-anarchica», il cui scopo era definire una politica che potesse – egli scrive – «portare a un mutamento sociale progressista che [rispondesse] alle aspirazioni e alle necessità di identità diverse, senza tentare di sussumerle sotto un unico progetto» .
Elogio e irriducibilità delle differenze, dunque, possiamo dire, e incapacità di vedere nella struttura di dominio del sistema socio-politico un unico insieme strutturato, e dunque impossibilità di contrapporre a esso un’alleanza dei soggetti subalterni intorno a un progetto di alternativa complessiva: non resta che il riconoscersi per affinità e dar luogo a manifestazioni esistenziali e politiche di insubordinazione, rifiuto e fuga.
In una prospettiva del genere, però, a mio avviso, non sarebbe tanto Gramsci a essere morto, quanto ogni ipotesi reale di cambiamento politico e sociale.
Anche come reazione a questo rischio di deformazione di Gramsci, che è comunque un rischio, sia pure a volte denso di implicazioni positive, creative, che ha dato luogo a risultati di grande interesse (pensiamo a Stuart Hall, ad esempio)… anche come reazione a questo rischio di deformazione di Gramsci, negli ultimi venti anni in Italia, come dicevo, sono cresciuti – a scapito forse eccessivo degli usi di Gramsci – soprattutto gli studi filologici ed ermeneutici sull’opera del comunista e marxista sardo, e gli studi più approfonditi sull’effettivo contesto storico e culturale in cui egli operava, e sulla complessa biografia di questo autore, per capire il senso esatto di termini e concetti e ragionamenti non sempre facili da decifrare correttamente, specie nei Quaderni.
Dell’apporto notevolissimo in questa direzione dato dai diversi gruppi di lavoro della Edizione nazionale si è qui già detto, come anche dell’apporto dei nuovi studi biografici, sugli anni del carcere e non solo.
Un altro filone della ricerca gramsciana delle ultime due decadi che ha avuto diversi riconoscimenti è stato quello intrapreso dalla International Gramsci Society Italia sul fronte della messa a punto della ermeneutica gramsciana e della chiarificazione terminologica e concettuale dell’opus carcerario.
È stato nell’ambito di questo lavoro seminariale, collettivo e interdisciplinare, che Giuseppe Cospito ha proposto per la prima volta la sua ricognizione del termine egemonia, che costituisce oggi il contributo più esauriente e filologicamente attento di cui disponiamo sul lemma e sul concetto, e che per la prima volta apparve nel 2004 nel volume Le parole di Gramsci, che raccoglieva i primi testi appunto del Seminario della Igs.
Cospito avrebbe poi anche scritto la voce Egemonia nel grande Dizionario gramsciano 1926-1937, che da quegli stessi seminari scaturì, e fu tra i protagonisti di uno specifico convegno sul tema, nel 2005, svoltosi tra Napoli e a Salerno . Questo incontro – organizzato da Angelo d’Orsi – aveva l’obiettivo di indagare una parola in buona parte ritenuta non a torto «controversa», anche perché spesso investita da interessate distorsioni pubblicistiche e propagandistiche.
Nell’ambito di quel convegno, i contributi dedicati soprattutto a chiarificare i testi gramsciani, oltre a quello di Cospito, furono le relazioni di Giancarlo Schirru, che discuteva criticamente le tesi di Lo Piparo sulla derivazione del concetto dalla formazione linguistica di Gramsci; di Francesco Giasi, che affrontava il tema degli anni torinesi e dei Consigli; della compianta Anna Di Biagio, che indagava, con risultati estremamente interessanti, il dibattito ai vertici della Terza Internazionale; di Giuseppe Vacca, che ne proponeva una coniugazione in chiave sovranazionale, collegandolo col tema dell’interdipendenza; accanto ad altri, tesi invece a costruire raffronti e interpretazioni a partire dall’egemonia gramscianamente intesa.
Una citazione merita senza dubbio anche la ricerca di Fabio Frosini, che soprattutto nel suo libro dedicato al rapporto tra «politica e verità nei Quaderni del carcere» (così recita il sottotitolo del suo La religione dell’uomo moderno) sottolineava il carattere davvero pervasivo e strutturante del discorso gramsciano sull’egemonia.
«Egemonia – scrive Frosini – si produce dappertutto, ove vi sia un rapporto di forze, che è sempre già “saturo” di rappresentazioni e di funzioni connettive supportate da intellettuali» .
L’«analisi della politica in termini di egemonia», cioè, mostra – scrive ancora Fabio – come «la “realtà” è sempre già segmentata in rapporti di forze, in cui verità e ideologia – nota l’autore, alla luce del suo assunto più generale – entrano in […] tensione» .
Il nesso ideologia-egemonia pare anche a me essere davvero di grande significato e di grande importanza, e Frosini lo declina in modi nuovi e di grande interesse.
Mentre più di un dubbio conservo sul collegamento, sia pure parziale (ed è bene sottolineare con forza tale parzialità), che è rintracciabile, mi pare, tra la riflessione di Frosini e quella (molto nota) di Laclau e Mouffe, per i quali non vi sarebbe – alla luce di Gramsci – nesso alcuno tra politica ed economia.
Da cui appunto scaturisce una visione che assegna smisurata importanza alla tematica dei «rapporti di forze», certo rilevante nei Quaderni, ma che definire come sostitutiva del nesso struttura-sovrastruttura (termini e concetti su cui tanto spesso torna Gramsci, anche negli ultimissimi Quaderni) mi pare cosa non del tutto convincente.
Anche questa tesi era stata proposta originariamente, mi sembra, da Cospito nei seminari della Igs Italia e aveva dato luogo a diverse discussioni.
Posso qui solo dire che, alla luce della mia lettura dei Quaderni, non mi sento di condividerla.
Né posso o voglio parlare delle tesi di Laclau e Mouffe, a cui sono dedicate altre relazioni in altre sessioni.
Segnalo solo che per Gramsci i soggetti ultimi dell’egemonia sono le «classi fondamentali», mentre in questi ultimi due autori tale dato essenziale mi pare vada perso irreparabilmente.
Una lettura profondamente diversa della realtà storico-sociale, dunque, mi sembra, rispetto a Gramsci.
Anche la lettura di Giuseppe Vacca per molti versi appare estremamente innovativa, ma è tesa soprattutto a rileggere Gramsci cercando di mettere in luce il significato più vero delle categorie dell’autore dei Quaderni.
Il suo recente Modernità alternative. Il Novecento di Antonio Gramsci è un libro di grande interesse.
Essa si presente come una esposizione dei principali concetti gramsciani (egemonia, rivoluzione passiva, filosofia della praxis, ecc.), che indubbiamente l’autore maneggia con invidiabile padronanza, ma anche con una curvatura interpretativa molto personale.
Del concetto di egemonia Vacca ricostruisce la genesi e l’evoluzione in Gramsci, le varie fasi del suo utilizzo anche nel periodo precarcerario, i nessi con l’uso che del termine veniva fatto da vari esponenti del bolscevismo, i punti di svolta cruciali del 1926, la nuova concettualizzazione che innerva la ricerca dei Quaderni, fino a evidenziare in modo forte la novità lessicale, che per l’autore è anche teorica e politica, che si avrebbe col termine e col concetto di «egemonia civile», una espressione – come è noto – che compare due volte sole nei Quaderni: nel Quaderno 8, § 52 prima e nel rispettivo testo C, l’importante §7 del Quaderno 13 poi.
Tutta la politica, afferma Vacca non a torto, in questo caso, si declina ora come egemonia.
Vacca aggiunge che la teoria dell’egemonia in Gramsci subisce una «progressiva liberazione dal vincolo “di classe”», il che sembra aprire la strada a una visione per la quale – come ha scritto Angelo d’Orsi – lo svolgimento della elaborazione gramsciana diviene «un progressivo abbandono dell’ottica rivoluzionaria e un’adesione, sostanzialmente, alla via democratica».
Non è che vi sia, a mio avviso, contrapposizione necessaria tra le due vie: si può essere democratici e rivoluzionari a un tempo.
Condivido anche il giudizio di Vacca per cui «Gramsci oppone all’universalismo liberale un universalismo comunista» , più alto.
Ma se ciò è vero, non si dovrebbe lasciare sfocare, sbiadire, la differenza forte che vi è tra la complessiva visione liberaldemocratica e la complessiva visione marxista, sia pure non «volgare» (tra virgolette, in senso gramsciano), o tutt’altro che «volgare», propria di Antonio Gramsci.
Né mi convince l’affermazione, che Vacca fa, per cui «la linea di tendenza delle democrazie occidentali dopo la seconda guerra mondiale» sia stata quella evocata da Gramsci nel Quaderno 12, § 2, dove si legge che «la democrazia politica tende a far coincidere governanti e governati (nel senso del governo col consenso dei governati)» .
Perché le democrazie occidentali non si sono realmente preoccupate – come anche la nostra Costituzione, la Costituzione italiana, tra l’altro, richiede – di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale» che limitano «di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini», ovvero di affermare la necessità dei prerequisiti della democrazia, di ordine economico, culturale, dell’informazione.
Per procedere con rinnovata lena su questa strada, che io chiamo socialista, comunista e democratica, occorre anche ripartire da Gramsci.
Occorre forse anche qui in Italia riprendere a usare Gramsci, e non solo a interpretarlo, secondo la lezione che da altre parti del mondo ci è stata data, pur nella consapevolezza che una buona lettura e un uso proficui si tengono a vicenda e non sono cosa facile.
Se non vogliamo rassegnarci al presente e alle sue miserie bisogna ripartire da qui.
Gramsci non si è mai rassegnato a non più lottare per una società più giusta, come era quella socialista, nella sua visione.
Bisogna meditare sulla necessità di non rassegnarci, noi oggi, in situazioni certo meno drammatiche, ma forse non più facili.
Guido Liguori, maggio 2017
sabato 20 maggio 2017
GRAMSCI: UNA VITALE E RIGOROSA VOCAZIONE PEDAGOGICA
Contro i test Invalsi e la didattica per quiz -- Appello
Promotori
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Firmatari
sabato 13 maggio 2017
PEDAGOGIA E ANTIPEDAGOGIA -- post su FB
PEDAGOGIA E ANTIPEDAGOGIA – post su FB
Con la protervia e l'arroganza tipiche di dittatorelli truffaldini, il Ministero dell'Istruzione continua a imporre con violenza quiz e quizzetti dell'INVALSI e con forza modalità insopportabili della cosiddetta alternanza scuola/lavoro, nonostante il parere negativo di studenti, docenti e famiglie, cioè i protagonisti dell'ISTITUZIONE scolastica, non dell'AZIENDA-scuola.
Da studenti di 'movimento', odiavamo IL NOZIONISMO, il formalismo retorico dell'eloquenza "estetica", la mnemotecnica sterile, il bacchettonismo cattedratico. Per questo ci piaceva, e ci piace ancora, LA PEDAGOGIA DELLA LIBERAZIONE.
Questi insulsi burocrati al servizio dei potenti dubito che comprendano di che parliamo: per loro valgono le carte, quel MOLOCH BUROCRATICO che soffoca il lavoro docente (e anche dei presidi-"manager", ieri il decreto dell'inizio degli esami di Stato al 21 giugno, era di 46 pagine!!), che ben si sposa con il quizzume e il caporalismo della vuotaggine contenutistica.
Questi falsi rinnovatori sono così vecchi, da far pensare all'ellenismo romano, il tardo ellenismo, con le figure incartapecorite dei maestri-retori che imponevano esercizi di sola abilità mnemonica e privi di DIDATTICA DEI CONTENUTI, e contro cui lanciarono i loro strali sia Luciano di Samosata che Sesto Empirico. Quest'ultimo, in particolare, in "Contro i dogmatici", si scagliava contro la stolta imposizione della "verità" da parte dei "sapientoni insipienti", e dunque, scetticamente, ribaltò l'esigenza pedagogica in ANTIPEDAGOGIA.
Niente di nuovo sotto il sole, dunque, ma i livelli di sopportazione tracimano. (fe.d.)
INVALSI, STRUMENTO DI CLASSE
I caporali INVALSI della scuola aziendalista vogliono omogenizzare, standardizzare, senza lo spirito critico, sempre proni al comando. I poteri forti hanno bisogno di servi, la politica delle classi dominanti di sudditi, chi si crede padrone del mondo, di schiavi. La liberazione inizia con il rifiutare che il sapere, la conoscenza, sia ridotta ad un quiz, insulso e nozionistico come la forma mentis che vogliono "inculcare". Il pensiero liberista non lascia liberi, siamo tutti uguali, l'eguaglianza del supermercato, l'homo consumens, pastorizzati e serializzati, ciò che conta è l'apparire non l'essenza, la forma non il contenuto, i bisogni indotti non quelli naturali, l'avere non l'essere.
La pedagogia della liberazione è rivolta contro lo stato di cose presenti. (Dublicius)
DIALOGO FRA SCETTICI (integrale)
Lo incontrai all'Accademia, dove era scolarca, ma era di Pitane dove aveva seguito le lezioni di Autolico.
- Non possiamo essere certi di nulla, neanche delle affermazioni più banali, esordì
- Tutto è incerto, ma anche questo non è certo. Dunque?
- Che gli umani muoiano è certo, ma quando e come, essi mai lo sapranno, dunque la morte, per loro stessi, non c'è
- ciò che appare non è, ma ciò che è, potrebbe non essere? gli dissi
- non c'è dubbio - rispose
@Dublicius
LA PEDAGOGIA DELLA RIVOLUZIONE (1) Nadezhda K.Krupskaja e il metodo dialettico per lo studio delle singole discipline
[corsivo e sezioni paragrafate nostri]
Il metodo dialettico per lo studio delle singole discipline
L’insegnante di ogni singola materia deve rendersi conto che per diventare un buon insegnante deve conoscere sino a fondo la sua disciplina. Ovviamente questa condizione da sola non basta ma è sempre una condizione indispensabile. Quando si studia una qualsiasi disciplina, sia questa lingua e letteratura, scienza civica, storia, geografìa, matematica, fisica, chimica, biologia, pedagogia, bisogna studiarla in modo onnilaterale. E qui assume particolare importanza l’approccio dialettico. E qui che le indicazioni di Lenin sono particolarmente importanti.
- Prendiamo la matematica. Come prima esigenza del metodo dialettico dobbiamo abbracciarne tutti gli aspetti, tutti i suoi legami, tutte le sue interconnessioni, se vogliamo veramente conoscere questa materia. Il matematico deve conoscere le branche fondamentali della matematica, deve comprendere come sono collegate tra di loro, come una branca completa l’altra. Ma questo è ancora insufficiente. È indispensabile conoscere i problemi che essa risolve. Nell’affrontare cosi la matematica bisognerà rendersi conto della funzione che essa esercita nello studio dei fenomeni e delle forze della natura, nello sviluppo della tecnica, ecc. D’altro canto sarà doveroso avere coscienza del come il progredire della tecnica, dell’industria, della pianificazione spinge innanzi lo sviluppo della matematica. È indispensabile gettare dei ponti ben saldi tra la matematica e l’astronomia, la geografia fisica, la fisica, la chimica, lo studio della società. Se non comprendiamo che tra la matematica e le scienze sociali esistono dei fili di collegamento non riusciremo a capire perché Marx ed Engels abbiano tanto studiato la matematica. Cosa li spingeva a farlo: una pura curiosità oppure una profonda comprensione del ruolo che la matematica esercita nelle scienze sociali?
È estremamente importante vedere come e per quale influenza si sia sviluppata la matematica, individuare i punti chiave di tale sviluppo, prendere la matematica nel suo sviluppo. Ciò permetterà di prendere coscienza di quei momenti su cui l’insegnante dovrà soffermarsi specificatamente, facendo emergere le difficoltà che bisognerà superare nell’insegnamento in quella data branca della matematica.
In seguito, riflettendo sul corso di matematica, è necessario rendersi conto di come in ogni fase bisogna gettare un ponte tra la teoria e la pratica, porre in evidenza tutto il valore della matematica per la soluzione di problemi di vitale importanza. Questo collegamento tra teoria e pratica è particolarmente importante per afferrare tutto il romanticismo, l’affascinante poesia della matematica; tutto ciò desta l’iniziativa, incita il pensiero. L’insegnante di matematica con particolare attenzione deve elaborare insieme ai suoi allievi quei compiti di vitale significanza che stimolano gli allievi in questa dirczione. La verità deve essere concreta. Bisogna sa per illustrare con esempi concreti anche i concetti matematici più astratti.
Lev Tolstoj, appassionato di paradossi, soleva affermare che un professore di matematica incapace di esporre i principi della matematica superiore in modo accessibile a tutti fosse un buono a nulla. Quest’affermazione è in gran parte vera. Gli insegnanti di matematica che affronteranno dialetticamente la loro disciplina riusciranno a risolvere questo problema in modo più completo e più profondo.
Prendiamo un’altra disciplina: la geografia economica. Anche qui ci vuole uno studio onnilaterale, anche qui bisogna fare attenzione al suo sviluppo generale, bisogna esaminare questa scienza in legame allo sviluppo delle altre scienze naturali che pongono in luce le ricchezze e le possibilità produttive di ogni regione, le sue prospettive; bisogna individuare il suo nesso con le ricerche geologiche, con i successi della biologia da una parte e dall’altra bisognerà porla in relazione con lo sviluppo della tecnica e delle forme economiche socialiste, quindi affrontare gli immani problemi della localizzazione economica dell’URSS, mostrare cos’era la geografia economica nel capitalismo e cosa diventa nel regime socialista, indicare le prospettive di sviluppo di questa scienza, porre in luce il legame tra la geografia economica e la ricostruzione di tutta la base elettroenergetica della nostra economia.
Bisogna collegare lo studio della geografia economica con i compiti pratici dell’economia pianificata, con l’aiuto di determinati esempi mostrare come la geografia economica può aiutare a razionalizzare l’economia, ed infine è necessario elaborare un piano concreto di ricerche, naturalistiche ed economiche, su una data regione, ricavandone dei risultati pratici.
La geografìa economica è la scienza ove il metodo dialettico è suggerito dalla vita stessa…
Non ci soffermeremo su scienze come biologia, fisica, chimica, perché qui le cose sono chiare. Prendiamo per esempio una scienza sociale d’altro genere come la letteratura. Ognuno sa come essa sia organicamente legata alla scienza della società. Nell’epoca zarista era questa la scienza attraverso la quale di contrabbando veniva introdotta la politica, era la scienza che insegnava a vedere la vita con occhi attenti e coscienti, a guardare criticamente il regime sociale circostante. Senza un ponte robusto tra la scienza della società e la letteratura la scienza sociale languisce, scompaiono in essa le immagini vive degli uomini. Non per caso Plekhanov diceva che lo studio di G. Uspenskij e degli altri scrittori di quel periodo di transizione – dal regime feudale al regime capitalistico – non è meno importante di tutta una serie di ricerche scientifiche. La letteratura è sempre imbevuta di politica e di conseguenza il suo studio non può essere apolitico. La letteratura è organicamente legata alla linguistica. Se volessimo considerare la linguistica come una raccolta di definizioni e di regole ortografiche, allora questa «linguistica» potrebbe essere separata con un muro di pietra dalla letteratura; se invece avvertiamo come la lingua è legata alle emozioni degli uomini, alla vita, al lavoro, al pensiero, ci appaiono in tutta la loro miseria i vari discorsi sul distacco della letteratura dallo studio del linguaggio… Di giorno in giorno più calda, più possente, più copiosa, più internazionale diverrà la lingua del paese ove milioni di braccia costruiscono il nuovo regime socialista. Nella misura in cui si estenderà e si approfondirà il processo di alfabetizzazione generale, nella misura in cui il sapere penetrerà nelle masse, si farà sempre più salda l’alleanza tra la scienza e il lavoro; nella misura in cui sarà liquidata la frattura tra cultura della città e cultura della campagna, nella misura in cui si svilupperà la collettivizzazione in campagna aumenterà il bagaglio delle parole e dei concetti, si semplificherà la struttura del linguaggio e più limpido e più espressivo si farà il discorso. È forse mai possibile separare la letteratura dalla linguistica? La letteratura dalla storia? Nella storia della letteratura si rispecchia inevitabilmente il corso dello sviluppo sociale, le peculiarità dell’epoca. La letteratura è legata all’arte, alla musica, alle arti figurative. Lo sa chiunque. La letteratura si ricollega al lavoro con forza sempre maggiore. La letteratura fu distaccata dalle scienze esatte, dall’opera di trasformazione della Terra, dalla lotta per la conquista delle forze naturali. Ma nella misura in cui la carica romantica di queste scienze coinvolgerà le masse, verrà a modificarsi anche il contenuto della letteratura, si allargherà la cerchia dei temi da essa abbracciati e la letteratura verrà a porsi al servizio delle scienze esatte e aiuterà le masse a comprendere meglio e più in profondità i successi da esse raccolti e i problemi da esse affrontati. La letteratura dovrà essere studiata in tutte le sue connessioni, dovrà essere studiata nel suo sviluppo. Ma nel contempo la letteratura deve essere strettamente legata a tutto ciò che oggi ci è necessario. La letteratura dovrà affrontare problemi immani, alcuni dei quali sono stati da me toccati in precedenza. La letteratura dovrà diventare un elemento dell’edificazione socialista.
Mi astengo dal trattare le altre discipline.
Se l’insegnante non è un «uomo nell’astuccio» , il metodo dialettico applicato allo studio della sua materia gli darà moltissimo. Veramente affascinato dallo studio di quella disciplina, egli riuscirà senz’altro a trasmettere il suo interesse anche agli allievi.
Ma l’insegnante di una data disciplina non deve limitarsi a conoscere la sua materia a fondo, non deve soltanto imparare a insegnarla in modo chiaro, popolare e concreto, tenendo sempre presente i nessi con i compiti attuali dell’edificazione socialista. Questa capacità farà di lui un buon propagandista. Però per diventare insegnante di una scuola primaria e secondaria nello studio della sua materia egli dovrà introdurre un altro elemento ancora. Egli dovrà sempre affrontare questo studio dal punto di vista del pedologo che conosce tutte le particolarità legate all’età degli allievi, il livello di sviluppo dei ragazzi di oggi, età per età, il grado delle loro conoscenze e ne sappia tener conto. Soltanto allora egli potrà risolvere giustamente il problema della «metodica particolare», rinvenire i metodi di insegnamento più razionali.