Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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martedì 31 ottobre 2023

LA PROMESSA DELLA TERRA _ SUL FUTURO DELLA PALESTINA

 




documenti per una visione marxista, universalistica e di classe della "questione palestinese"

a cura di Ferdinando Dubla - Subaltern studies Italia


“Due popoli due stati” è una formula consunta, consumata dall’asimmetria dovuta all’occupazione israeliana dei territori palestinesi. E non ci può essere pace senza la fine dell’occupazione (Edward Said - 2002) che ci sembra un punto fermo anche riferito alle posizioni dell’ANP di Abu Mazen (Autorità Nazionale Palestinese, al governo in mezzadria con l’esercito israeliano in Cisgiordania). La configurazione di un unico stato binazionale, rilanciata qui in Italia da Moni Ovadia, (cfr. intervista all’Unità del 28 ottobre c.a., propria di Ilan Pappè, cfr. qui ultimo paragrafo) non convince però i comunisti israeliani e palestinesi (leggi l’importante documento del Partito Comunista Israeliano, paragrafo sottostante) in quanto porterebbe a negare il diritto alla terra palestinese abusivamente occupata, colonizzata a suon di crimini di guerra. Quindi, quando si perora la causa di uno Stato palestinese, come entità politica statuale autonoma e indipendente, più che criticare la formazione statale che, come da ogni parte, può essere superata in un processo rivoluzionario di transizione e di “lunga durata”, bisogna rifuggire da nazionalismo e fondamentalismo religioso teologico-politico, dal sionismo e dal jaidismo, facce di una stessa medaglia, armi di distruzione di massa delle popolazioni. Ecco perchè “democrazia per due popoli” e laicismo socialista nelle forme e nei modi dell’autodeterminazione politica delle popolazioni, suggella il diritto alla resistenza popolare e l’avvio di un processo di trasformazione sociale strutturale e radicale delle classi subalterne nei confronti delle classi dominanti, palestinesi e israeliane. La lettura classista marxista dei fatti sociali e degli scenari geopolitici deve essere il linguaggio universalista dei comunisti, contro l’imperialismo atlantista guerrafondaio, contro il colonialismo e neocolonialismo occidentalista, contro il teologismo politico fondamentalista. /

I COMUNISTI DEVONO TROVARE UN LINGUAGGIO UNIVERSALISTA

- HADASH nasce nel 1977 dall'unione del Partito Comunista di Israele (Rakah) con parte del movimento delle Pantere Nere e altri gruppi di sinistra. All'interno di Hadash, il PC di Israele mantiene uno status autonomo.

[In Israele] l’unica forza politica che sta cercando di opporsi all’ondata bellicista è rappresentata dal Partito Comunista Israeliano e dal Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza, promosso dai comunisti nel 1977 e che resta punto di riferimento per tutti coloro, principalmente arabi ma anche ebrei, che rifiutano la contrapposizione etnica e la logica di guerra.

Le condizioni nelle quali i comunisti e i loro alleati possono condurre la loro battaglia politica sono estremamente difficili. In parlamento, Ofer Cassif eletto nelle liste di Hadash, è stato praticamente espulso per 45 giorni per aver sostenuto le posizioni politiche del movimento.


I comunisti israeliani contro l’ondata bellicista

Ottobre 26, 2023

L’attacco portato da Hamas al sud di Israele, nel quale oltre a 300 militari sono stati uccisi centinaia di civili, ha aperto una nuova fase del conflitto israelo-palestinese dalle conseguenze imprevedibili. Esercito e servizi segreti dello stato ebraico sono stati presi alla sprovvista e il bilancio in termini di vittime è stato il più alto subito da Israele al di fuori delle diverse guerre tra Stati che lo hanno visto protagonista dal 1948 ad oggi.

All’interno del paese la reazione è stata da un lato di estesa critica al governo di Netanyahu, che unisce destra ed estrema destra suprematista, accusato di avere sguarnito la difesa al confine con Gaza per rafforzare il sostegno militare ai coloni che occupano illegalmente i territori palestinesi in Cisgiordania. A Netanyahu personalmente viene anche imputato di avere diviso in due campi frontalmente contrapposti la società israeliana per imporre una riduzione dei poteri della Corte Suprema sostanzialmente finalizzata a garantire la propria impunità dalle accuse di corruzione ma anche a piegare alla propria visione autoritaria il sistema politico israeliano.

L’attacco di Hamas ha pericolosamente scatenato un’ondata bellicista che in larga misura sostiene l’idea dell’azione militare a Gaza, anche se questo comporta di colpire indiscriminatamente la popolazione civile come sta avvenendo in questi giorni e continuerà ancora per non si sa quanto tempo.

L’esercito ha già predisposto una “grande armata” di 300.000 uomini (e donne) al confine con la striscia di Gaza, pronta ad invadere quel disgraziato territorio. Nel frattempo ha avviato una vasta campagna di bombardamenti, ha intimato a un milione di abitanti di spostarsi nella parte sud del territorio (che per altro ha continuato ad essere colpito dall’aviazione israeliana), e ha bloccato tutti i rifornimenti vitali per la popolazione. Solo una piccola quota di aiuti ha potuto attraversare, dopo lunghe e laboriose trattative, il valico di Rafah, unico passaggio di collegamento con l’Egitto.

L’esercito ha dichiarato di essere pronto per avviare un’operazione militare che prevede l’attacco da terra, dal mare e dall’aria, ma attende il via libera del governo. Netanyahu sembra ancora incerto sul da farsi. I settori più oltranzisti del governo pensano che questa sia l’occasione per avviare una grande operazione di pulizia etnica che possa liberarsi definitivamente dell’ingombro palestinese, costringendo alla fuga gli abitanti di Gaza e forse anche quelli della Cisgiordania. Operazione alla quale si oppongono evidentemente sia l’Egitto che la Giordania.

Per ora il governo e l’esercito hanno dichiarato un obbiettivo più limitato ma certamente ambizioso. Rimuovere completamente la presenza di Hamas da Gaza. Questo può implicare un conflitto che, come ha dichiarato un portavoce militare al quotidiano israeliano Haaretz, potrebbe durare quasi certamente mesi e forse anni. Questa è la preoccupazione degli Stati Uniti che, come sempre, si sono schierati a sostegno di Israele, mettendo in campo forze militari dirette, armi e sostegno politico nelle sedi internazionali, ma temono le ricadute politiche nelle loro relazioni globali da un’azione militare prolungata nel tempo e con un bilancio sempre più pesante di vittime civili. Certamente la decisione di Israele di prendere di mira l’Onu a seguito delle dichiarazioni di Guterres sulle cause di fondo del conflitto israelo-palestinese non favoriranno l’allineamento di molti Stati e delle loro opinioni pubbliche dietro la guida degli Stati Uniti, sia nella guerra contro Gaza sia in quella che prosegue in Ucraina.

Il portavoce della Casa Bianca ha dichiarato che gli Usa respingono le richieste di cessate il fuoco e ha anche affermato che le vittime civili sono “quasi inevitabili”. Un discorso che per gran parte del mondo evidenzia la doppia morale occidentale nel valutare i “propri morti” e quelli “altrui”, come ha sottolineato con forza un personaggio normalmente moderato e filo-occidentale come il re di Giordania.

Per ora le voci critiche all’interno di Israele sono poche e abbastanza isolate. Un sondaggio di cui riferisce il Jerusalem Post rivela che certamente la fiducia nel governo è la più bassa da vent’anni a questa parte e dubbi si sono accesi anche sull’affidabilità dei vertici militari ma, in ogni caso, quasi la metà degli intervistati il (47,5%) ritiene che non si debba avere nessuna preoccupazione per i civili di Gaza. Un’altra parte consistente ritiene che questa remora debba essere solo minimale. Solo nella minoranza arabo-palestinese, l’83% degli intervistati ritiene che anche le condizioni di vita della popolazione di Gaza debbano essere tenute in conto da Israele.

Il maggior elemento di difficoltà per il governo si trova sulla questione dei circa 200 ostaggi presi da Hamas in territorio israeliano e portati a Gaza. Solo 4 finora sono stati liberati, altri forse sono morti sotto i bombardamenti. I famigliari protestano regolarmente sotto le sedi governativi chiedendo un impegno del governo per la loro liberazione. Una possibilità che l’inizio dell’invasione di Gaza renderebbe molto difficile se non impossibile.

In questo contesto l’unica forza politica che sta cercando di opporsi all’ondata bellicista è rappresentata dal Partito Comunista Israeliano e dal Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza, promosso dai comunisti nel 1977 e che resta punto di riferimento per tutti coloro, principalmente arabi ma anche ebrei, che rifiutano la contrapposizione etnica e la logica di guerra.

Le condizioni nelle quali i comunisti e i loro alleati possono condurre la loro battaglia politica sono estremamente difficili. In parlamento, Ofer Cassif eletto nelle liste di Hadash, è stato praticamente espulso per 45 giorni per aver sostenuto le posizioni politiche del movimento.

Il Partito Comunista Israeliano ha una lunga e complessa storia che risale al 1919 quando sorse la prima organizzazione ispirata alle idee della rivoluzione d’Ottobre. Da questa nacque il Partito Comunista Palestinese, inizialmente composto quasi esclusivamente da ebrei originari della Russia e dell’est Europa e poi a metà degli anni ’30 capace di arruolare nelle proprie file militanti arabi.

Nel 1948, i comunisti che operavano nel territorio del neonato stato di Israele, sia ebrei che arabi, diedero vita al Partito Comunista Israeliano, il cui leader Meir Vilner fu tra i firmatari della dichiarazione di indipendenza. I comunisti sono sempre stati l’unica forza a rifiutare la contrapposizione etnica in nome di una visione universalista e classista della società. Per questo sono sempre stati fermamente critici del sionismo come ideologia, ma nello stesso tempo difendono l’esistenza di Israele come stato a maggioranza ebraica. Difendono l’idea della convivenza dello stato israeliano a fianco di uno stato palestinese installato nei confini della linea verde del 1948 e quindi con il ritiro di Israele da tutti i territori occupati e lo smantellamento delle colonie insediate in quei territori.

All’interno di Israele contestano la definizione di “stato ebraico”, in nome di una visione laica e pluralista, anche se ovviamente resterà una maggioranza ebraica, e chiedono il riconoscimento della presenza degli arabo-palestinesi come minoranza nazionale dotata di propri diritti. Da tempo denunciano una deriva “fascista” in atto in Israele con la crescita delle tendenze razziste, suprematiste e del fondamentalismo religioso che con Netanyahu hanno avuto sempre più peso nel governo.

Sulle ultime vicende hanno condannato in modo “inequivoco” ogni attacco a civili innocenti. Ayman Odeh, leader di Hadash, ha dichiarato che gli attacchi ai civili devono essere “assolutamente proibiti” e ha condannato gli appelli di Hamas ai cittadini della minoranza arabo-palestinese ad unirsi alla lotta contro Israele.

Sia il Partito che il Fronte hanno denunciato le responsabilità del governo Netanyahu nella escalation dello scontro militare tra Hamas e Israele. “I crimini del governo fascista di destra nel perpetuare l’occupazione – scrivono in un loro comunicato – stanno conducendo ad una guerra regionale che deve essere fermata.”

Il partito collega l’escalation del conflitto alle azioni dei coloni nei territori occupati che nelle ultime settimane, col sostegno del governo, hanno attaccato la moschea di Al Aqsa e condotto l’ennesimo pogrom anti-arabo a Huwara. I comunisti chiedono alla comunità internazionale e ai paesi della regione di intervenire immediatamente per mettere a tacere i tamburi di guerra e promuovere una soluzione politica. Non ci può essere una soluzione militare al conflitto perché questa può realizzarsi solo mettendo fine all’occupazione e riconoscendo i diritti legittimi del popolo palestinese. La fine dell’occupazione e l’instaurazione di una pace giusta sono nel comune interesse dei due popoli.

Come hanno affermato in un loro documento congressuale per risolvere il conflitto israelo-palestinese, il PCI si batte su due fronti. Da un lato ci sono l’Amministrazione americana e i governi israeliani (dovremmo aggiungere l’Unione Europea) che si sono dichiarati per la soluzione dei due stati, ma in realtà questa affermazione è avanzata non per implementarla quanto per oscurare il processo reale dell’occupazione e della colonizzazione dei territori occupati.

Il “secondo fronte” è quello che in “vari circoli” propone il ritiro dell’obbiettivo dei due stati e di accontentarsi della “opzione teorica dell’unico stato binazionale”. La posizione del PCI è che questa opzione è inaccettabile, non funzionale e non costituisce una vera alternativa alla soluzione dei due stati.

I comunisti, seguendo la strategia che hanno sempre richiamato nei loro documenti della “politica di massa”, pur contrastando il sionismo e l’identificazione tra sionismo e stato israeliano, sono sempre disposti a lavorare con settori sionisti di sinistra e pacifisti. Queste correnti, che in certi momenti hanno animato il “campo della pace”, sono da tempo in crisi profonda e incapaci di riformulare una prospettiva coerente che tenga insieme una proposta di soluzione del conflitto con la loro ideologia di riferimento.

Nel frattempo all’interno del campo sionista si sono sempre più rafforzate le componenti caratterizzate da oltranzismo, suprematismo e fondamentalismo religioso. Questa egemonia, se da un lato ha favorito lo spostamento a destra di importanti settori delle comunità ebraiche in Occidente, ha anche fatto emergere, soprattutto negli Stati Uniti, una forte presenza di ebrei che rifiutano l’accettazione incondizionata ed acritica delle politiche militariste prevalenti nella politica israeliana.

In questa fase difficile, i comunisti israeliani cercano di tenere aperto uno spazio all’interno del loro Paese per una prospettiva politica ragionevole e giusta, contro la logica della vendetta e della criminalizzazione indiscriminata dell’intero popolo palestinese.

Nei giorni scorsi l’organizzazione giovanile comunista ha diffuso un documento comune con il Mesarvot Network, che sostiene l’obiezione di coscienza all’occupazione militare e i “Giovani contro la dittatura” che si oppongono alle politiche di Natanyahu sia all’interno di Israele che nei territori.

“Noi, giovani attivisti dell’anti-apartheid, siamo fermamente contrari all’uccisione indiscriminata di civili e contro i crimini di guerra perpetrati da Hamas e dall’esercito israeliano”, scrivono nel loro documento.

Le proposte politiche che vengono avanzate sono: il cessate il fuoco immediato; il rilascio di tutti gli ostaggi e i prigionieri politici; l’arrivo rapido degli aiuti umanitari a Gaza; la richiesta a Israele di restituire le forniture di acqua, cibo ed elettricità a Gaza; la condanna di ogni trasferimento forzato come quello imposto ad un milione di residenti di Gaza; l’embargo delle armi a tutte le parti combattenti; la richiesta al governo israeliano di mettere fine all’illegale e mortale assedio di Gaza e all’occupazione della Cisgiordania; la fine della manovre israeliane per dividere i palestinesi; l’incoraggiamento a tutte le parti coinvolte per avviare negoziati che giungano ad una pace duratura attraverso la soluzione dei due stati  e il diritto al ritorno.

Voci ancora flebili ma il cui rafforzamento è indispensabile se si vuole uscire dalla logica di guerra e aprire la strada alla soluzione politica del conflitto.

Franco Ferrari

25/10/2023 

 


Estratto - Partito del Popolo Palestinese (PPP) 21 gennaio 2018

Non c’è dubbio che sia di grande importanza rafforzare la linea laica antimperialista nella “resistenza” palestinese, tenendo presente che tutti i palestinesi sono ostili all’occupazione e ostili alla posizione americana che favorisce Israele. Tuttavia, non è possibile descrivere la tendenza laica come la più forte, in quanto vi è una grande influenza del movimento religioso che è cresciuto negli ultimi decenni a seguito delle politiche adottate dai regimi arabi in generale, sopprimendo la sinistra e le forze laiche. D’altra parte, la più grande forza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il movimento Fatah, che dovrebbe rappresentare la tendenza laica, sta bloccando la strada per raggiungere una soluzione politica attraverso un processo politico. Inoltre, le forze di sinistra, che dovrebbero sollevare la bandiera del secolarismo, dello stato civile, della separazione dei poteri e del passaggio pacifico del potere ecc., sono deboli nell’arena palestinese.

L’antimperialismo non è chiaro o facile da definire nel caso palestinese che sta attraversando un processo di liberazione nazionale caratterizzato da un rapporto di forze sfavorevole. Ciò spinge la leadership politica a cercare altri attori anche all’interno del campo imperialista, approfittando di alcune differenze nelle loro posizioni rispetto a quella degli Stati Uniti, come ad esempio l’Unione Europea, per modificare questo equilibrio. Tuttavia, la forte tendenza religiosa e parte della tendenza laica, pur essendo in contrasto con il mondo capitalista a causa dell’attuale situazione politica, dell’esistenza dell’occupazione, del sostegno di Israele, ecc., non è ostile al sistema capitalista.

Questo è ciò che vediamo chiaramente nelle politiche di molti paesi della regione; possono essere in conflitto con gli Stati Uniti e la NATO non perché conducono la guerra imperiale ma a causa delle politiche statunitensi nei confronti di questi paesi o regimi, mentre allo stesso tempo stabiliscono le migliori relazioni con gli altri poli capitalisti nel mondo.

Rafforzare e attivare il ruolo della sinistra palestinese, unificare la sua visione politica e l’attività sul terreno, rinunciare alle sue differenze saranno le premesse per rafforzare il movimento antimperialista nell’arena palestinese.

Estratto - Partito Comunista Palestinese (PCP) 21 gennaio 2018

La questione dei rivoluzionari che sono coinvolti nell’OLP merita un lungo dibattito e solleva le seguenti domande:

1) Ci sono elementi rivoluzionari nell’OLP

2) Se ci sono elementi rivoluzionari, chi sono e qual è stato il loro ruolo nel conflitto in corso e nello sviluppo dell’organizzazione?

La storia delle cosiddette organizzazioni sociali rivoluzionarie mostra che queste organizzazioni sono state e sono ancora il ponte tra il movimento rivoluzionario e la destra palestinese. Il loro ruolo nell’autorità di Oslo è emerso sia direttamente che indirettamente partecipando al governo attraverso la loro presenza in posizioni sensibili all’interno dei ministeri. (..) La nostra posizione sull’OLP è che è un’organizzazione che ha perso il suo carattere rivoluzionario dopo aver rinunciato alle disposizioni della Carta nazionale palestinese. Ciò che serve è riorganizzare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina su una base rivoluzionaria nazionale democratica. La nostra posizione è il sostegno dell’OLP dopo il suo rinnovo.

Estratto - Partito Comunista di Israele (CPI) 21 gennaio 2018

È tempo che l’intera comunità internazionale riassuma il suo ruolo nel conflitto israelo-palestinese. Pertanto, ribadiamo la nostra ferma posizione di richiesta di una conferenza internazionale per risolvere la questione palestinese, che imporrà la sua volontà sulla parte israeliana e libererà il popolo palestinese dalla sofferenza e dall’oppressione e realizzerà i suoi legittimi diritti nello stato indipendente palestinese, con Gerusalemme Est come capitale e il ritorno dei rifugiati in conformità con le risoluzioni di legittimità internazionale. (..) la società israeliana è ancora soggetta all’influenza dell’ideologia sionista radicale e abbraccia l’intera narrativa religiosa nei confronti di Gerusalemme. Pertanto, la posizione della società israeliana è incentrata sul sostegno di questa decisione. Persino le forze che potrebbero considerarsi razionali hanno adottato questa decisione pur sapendo che il suo tempismo fa gioco al governo dell’estrema destra e al suo leader Benjamin Netanyahu.

Con l’eccezione del nostro Partito Comunista, del nostro Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza (Hadash) e della lista comune che si opponeva a questa risoluzione, ritenuta una flagrante violazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese, tutti i partiti politici in Israele hanno accolto con favore questa decisione.

Il Partito Comunista Israeliano e il Partito del Popolo Palestinese hanno rilasciato una dichiarazione congiunta su questa risoluzione: la politica Usa a sostegno dell’occupazione israeliana dei territori occupati nel 1967 alimenterà solo il caos e l’instabilità nella regione e nel mondo. Gli Stati Uniti d’America sono parte del problema, non della soluzione; non vi è altra via che porre fine all’occupazione, esercitare il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e istituire uno stato indipendente nei territori del 1967 con Gerusalemme come sua capitale e risolvere la questione dei rifugiati in conformità con la risoluzione 194 delle Nazioni Unite. (..) Netanyahu sa molto bene come alimentare sentimenti e animosità nazionaliste tra gli ebrei e questo serve al suo programma di estrema destra. Per cui, la decisione di Trump non ha fatto che facilitargli il compito.

Ma la cosa più pericolosa è la possibilità che queste rapide indagini conducano a un’avventura militare verso la Striscia di Gaza. Questa possibilità è ancora nei pensieri del governo e del suo primo ministro estremista di destra.

Pertanto, il nostro partito cerca di approfondire e sviluppare la lotta per accelerare il rovesciamento di questo governo. Sta lavorando alla più ampia cooperazione per proporre l’unica soluzione che garantisce i diritti dei due popoli: porre fine all’occupazione e stabilire uno stato palestinese indipendente entro i confini del 4 giugno con Gerusalemme Est come capitale accanto allo Stato di Israele con Gerusalemme Ovest come sua capitale.

tratto da International Communist Press (ICP)
Speciale intervista con il Partito del Popolo Palestinese, il Partito Comunista Palestinese e il Partito Comunista di Israele sulle questioni di Gerusalemme e delle lotte future, 21 gennaio 2018

 

LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA E L'AUTODETERMINAZIONE POLITICA

Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina

«Insieme all’ultimo Said, Ilan Pappé è il più eloquente narratore della storia palestinese». «New Statesman»

ed. Fazi, 2008, anche in formato digitale https://fazieditore.it/catalogo-libri/la-pulizia-etnica-della-palestina

- scheda-

Nel 1948 nacque lo Stato d’Israele. Ma nel 1948 ebbe luogo anche la Nakba (‘catastrofe’), ovvero la cacciata di circa 250.000 palestinesi dalla loro terra. La vulgata israeliana ha sempre narrato che in quell’anno, allo scadere del Mandato britannico in Palestina, le Nazioni Unite avevano proposto di dividere la regione in due Stati: il movimento sionista era d’accordo, ma il mondo arabo si oppose; per questo, entrò in guerra con Israele e convinse i palestinesi ad abbandonare i territori – nonostante gli appelli dei leader ebrei a rimanere – pur di facilitare l’ingresso delle truppe arabe. La tragedia dei rifugiati palestinesi, di conseguenza, non sarebbe direttamente imputabile a Israele. Ilan Pappé, ricercatore appartenente alla corrente dei New Historians israeliani, ha studiato a lungo la documentazione (compresi gli archivi militari desecretati nel 1988) esistente su questo punto cruciale della storia del suo paese, giungendo a una visione chiara di quanto era accaduto nel ’48 drammaticamente in contrasto con la versione tramandata dalla storiografia ufficiale: già negli anni Trenta, la leadership del futuro Stato d’Israele (in particolare sotto la direzione del padre del sionismo, David Ben Gurion) aveva ideato e programmato in modo sistematico un piano di pulizia etnica della Palestina. Ciò comporta, secondo l’autore, enormi implicazioni di natura morale e politica, perché definire pulizia etnica quello che Israele fece nel ’48 significa accusare lo Stato d’Israele di un crimine. E nel linguaggio giuridico internazionale, la pulizia etnica è un crimine contro l’umanità. Per questo, secondo Pappé, il processo di pace si potrà avviare solo dopo che gli israeliani e l’opinione pubblica mondiale avranno ammesso questo “peccato originale”.

 



* Ilan Pappé (in ebraico אילן פפה, Ilan Pappe) (Haifa, 7 novembre 1954) è uno storico israeliano.

Intellettuale e studioso socialista, ebreo e anti-sionista, di formazione comunista, è uno dei rappresentanti della cosiddetta Nuova storiografia israeliana, che ha come fine scientifico ed etico quello di sottoporre a un accurato riesame la documentazione orale, che è prevalsa per decenni, nel tracciare le linee ricostruttive storiche relative alla nascita dello Stato d'Israele e del sionismo in Israele; nella "nuova storiografia" Pappé rappresenta la voce più critica nei confronti della leadership israeliana (da Ben Gurion in poi) e in favore dei palestinesi.

Nel 1996 Pappé è stato candidato alla Knesset sulla lista dell'Hadash, emanazione del Partito Comunista Israeliano, ma in seguito ha lasciato il Paese.

Secondo Ilan Pappé, l'esodo palestinese può essere paragonato ad un'operazione di «pulizia etnica», conseguenza di una politica pianificata da David Ben Gurion e messa in opera dai suoi consiglieri; sempre secondo Ilan Pappé, questa politica fu applicata fin dal dicembre del 1947, ben prima quindi della proclamazione dello Stato d'Israele (1948).

Egli sostiene uno stato binazionale laico e secolare comprendente sia ebrei che arabi, in posizione di parità. 



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sabato 28 ottobre 2023

EDWARD SAID: INTERPRETARE L’OGGI CON LE LENTI DELLA STORIA

 



Edward Said (Gerusalemme, 1935 - New York, 2003)

“La pace può venire soltanto con la fine dell’occupazione”.

Così scriveva Edward Said nel gennaio 2002, venti mesi prima della sua morte. Said è stato uno degli intellettuali più importanti del XX secolo, professore alla Columbia University di Letteratura comparata, era nato a Gerusalemme nel 1935 e cresciuto al Cairo. Pietre miliari della sua produzione di scrittore e studioso furono in particolare due opere: la sua prima in assoluto, “Orientalismo” del 1978, presa a riferimento per gli studi cosiddetti post-coloniali (postcolonial studies) e “Cultura e imperialismo” di quindici anni dopo, 1993, lavoro di indagine letteraria e storica in cui accusa le complicità della cultura occidentale con il progetto egemonico di vecchi e nuovi imperi. Molti studiosi hanno sottolineato la consonanza tra le sue riflessioni e una ‘lettura interpretativa’ degli scritti di Gramsci. (Cfr., tra gli altri, Orazio Irrera, Université Paris 1 – Panthéon-Sorbonne, Egemonia e coscienza geografica. Edward W. Said lettore di Antonio Gramsci, febbraio 2016, https://gramscilab.com/2016/02/04/seminario-egemonia-e-coscienza-geografica-edward-w-said-lettore-di-antonio-gramsci/ 




- Attivo sostenitore della causa del suo popolo, non esitava neanche a criticare le leadership delle organizzazioni palestinesi, l’arrendevolezza e il moderatismo degli accordi al ribasso e la perdita di egemonia di Arafat e Fatha per le controversie interne, l’autoritarismo e la corruzione, che poi in effetti porteranno come concausa al dominio dei fondamentalismi politico-religiosi. Ma il suo indice accusatore fu sempre contro l’imperialismo a dominanza USA e l’occupazione abusiva permessa ai governi israeliani per conto dell’atlantismo nell’area strategica del Medio Oriente. Rileggere Said è interpretare l’oggi con le lenti della storia.

“La tesi insensata del governo Sharon, ovvero che in quarant’anni di una guerra spietata e indiscriminata, intrapresa dall’esercito israeliano contro civili, proprietà e istituzioni, la vittima sia Israele e i palestinesi siano gli aggressori. Questo significa oggi che i palestinesi sono rinchiusi in duecentoventi ghetti controllati dall’esercito; che gli elicotteri Apache, i carri armati Merkava e gli F-16 forniti dagli americani falciano ogni giorno persone, case, uliveti e campi coltivati; che scuole e università sono devastate, così come le imprese e le istituzioni civili; che centinaia di civili innocenti sono stati uccisi, mentre i feriti sono decine di migliaia; che gli omicidi israeliani di leader palestinesi continuano; che i tassi di disoccupazione e povertà si aggirano intorno al 50 per cento”. Edward Said, in Al-Ahram, 10-16 gennaio 2002, ora in La pace possibile - Il testamento politico del grande intellettuale palestinese, Il Saggiatore, 2004, pag.171

 

RILEGGERE SAID

Uno degli assi del pensiero di Said è che le questioni in nome della religione sono politiche. Fuori la religione dalla politica, dunque, nessuna è superiore o inferiore all’altra;  non c’è civiltà in nome della religione, civiltà è solo l’autodeterminazione, necessaria, dei popoli oppressi. L’imperialismo e il colonialismo hanno sempre soffiato e soffiano sulle guerre di religione, ma il loro interesse è economico e politico. I popoli convivono pacificamente tra loro, ognuno con la sua cultura e credenze, l’imperialismo e il colonialismo dividono e provocano i conflitti.

È vero, ci manca il suo acume, la sua analisi stringente, corroborata sempre dalla documentazione, la sua interpretazione storico-politica. Edward Said è stato uno dei più grandi e innovativi studiosi del XX secolo, fondatore, di fatto, degli studi postcoloniali. Attraverso le sue opere, è uno dei più attuali del XXI secolo. Di fronte al martirio del suo popolo, lui, naturalizzato statunitense, ha da dirci tanto, soprattutto, come ha scritto Bruno Montesano su Il Manifesto (20.10.2023) sulla necessaria disarticolazione tra Stato e identità (religiosa e nazionale che sia). Non un’utopia, una necessità. Per i palestinesi e per tutti i popoli oppressi nella loro autodeterminazione. Rileggere proprio ora l’autore di “Orientalismo” (1978) è necessario.

L’imperialismo è colonialismo su larga scala, la cultura imperialista colonialista impregna l’immagine dell’”altro”, lo costruisce, se la rimanda come a uno specchio riflesso, diventa stereotipo di massa: l’oriente esotico, l’arabo- musulmano, il mediorientale-terrorista. E l’intellettuale, che dovrebbe svelare la fenomenologia neocolonialista, strumento di potere, “dire la verità” (titolo di un bellissimo saggio pubblicato in Italia da Feltrinelli, 1995 e 2014), non critica ma occulta. L’indispensabilità dell’intellettuale, dunque, ma quello “organico” alla classe subalterna, antimperialista e anticolonialista. Said è lettore e interprete di Gramsci. /fe.d.


L’INTELLETTUALE SECONDO SAID

Quella dell’intellettuale, tuttavia, è voce solitaria e ha risonanza soltanto qualora si coniughi liberamente con la realtà di un movimento, con le aspirazioni di un popolo, con un ideale collettivo da perseguire. In Occidente, per esempio, dove perlopiù prevale la critica indiscriminata al terrorismo e all’estremismo palestinese, la legge dell’opportunismo esige una condanna senza mezzi termini, salvo poi tessere le lodi della democrazia in Israele. Dopo di che sarà opportuno aggiungere qualche parola a favore della pace. Il senso di responsabilità impone che l’intellettuale dica ai palestinesi tutte queste cose,  ma soprattutto cha a New York, Parigi o Londra, dove il suo discorso può avere massima risonanza, egli sostenga l’idea della libertà per i palestinesi nonchè della libertà dal terrore e dall’estremismo per tutti gli attori coinvolti, non soltanto la parte più debole e più vulnerabile.

Dire la verità al potere non è idealismo alla Pangloss: significa soppesare scrupolosamente le alternative, scegliere la migliore e rappresentarla con sapienza là dove si rivela più efficace per modificare la realtà secondo giustizia.

 

Edward Said, Dire la verità - Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, 2014 (ed.or. 1994), pag.108.

 

EDWARD SAID - LA QUESTIONE PALESTINESE

La questione palestinese. La tragedia di essere vittima delle vittime (The Question of Palestine, 1979; con nuova introduzione ed epilogo, 1992), trad. di S. Chiarini e A. Uselli, Gamberetti Editrice, 1995; Collana La Cultura, Milano, Il Saggiatore, 2011.

/ scheda ed. 2011 /

Molti sono i collegamenti e le affinità tra la storia degli arabi e quella dei palestinesi, così come si sono definiti nel secolo scorso. Ma l'incontro traumatico con l'occupazione israeliana ha reso unica la storia dei palestinesi. L'unicità di questa storia e di questo popolo, con le sue vite vissute, le sue tante sofferenze e le sue profonde aspirazioni, è messa a fuoco e analizzata in "La questione palestinese". La storia nazionale palestinese testimonia uno scontro perdente tra un'ambiziosa ideologia, fondamentalmente europea, e l'incapacità di convincere l'Occidente della giustezza della causa anticolonialista araba. Eppure, nonostante questo tragico fallimento, nonostante i palestinesi siano stati dispersi, frazionati, espropriati dei loro territori, essi hanno saputo sviluppare una sorprendente capacità di resistenza e, soprattutto, dare vita alla loro specifica identità di popolo. A partire dalla realtà storica del suo popolo, Edward W. Said in questo libro mette crudamente alla prova l'infondatezza delle gabbie interpretative già criticate in "Orientalismo", fornendo la definizione più esauriente e illuminante della questione palestinese.

 

#subalternstudiesitalia #questionepalestinese #EdwardSaid #AntonioGramsci









mercoledì 18 ottobre 2023

Le origini di Lavoro Politico e l’”Università negativa” di Trento (1967)

 


[A Trento] Uno dei fatti salienti che caratterizza gli inizi dell’anno accademico 1967-68 è, senza dubbio, il “Movimento per una università negativa”.

Formatosi negli anni precedenti nel corso delle occupazioni della facoltà, nell’autunno ‘67 il Movimento per una Università negativa è tra i promotori dei controcorsi (e di altre proposte analoghe: le controlezioni, le occupazioni bianche); ed è tra i fondatori della rivista “Lavoro Politico”. Pubblicato per la prima volta in vesti di rivista nell’ottobre del ‘67, “Lavoro Politico” era nato nel 1962 a Verona, su iniziativa di Walter Peruzzi, come organo mensile del Centro di informazione. Di origine cattolica, si sposterà progressivamente sempre più a sinistra. La sua trasformazione in “Lavoro Politico”, nel ‘67, suggella questa sua evoluzione. Accusato, dopo l’uscita del primo numero, di peccare di dogmatismo, il collettivo “Lavoro Politico” (del collettivo fanno parte, oltre il “Movimento per una Università negativa” di Trento, il “Centro di informazione” di Bolzano, la “comune” di Verona, e altri militanti) si difende dichiarando, tra l’altro, “adesione integrale al pensiero di Mao Tse-Tung” in quanto esso “è il solo modo corretto di opporsi non solo al revisionismo ma anche al dogmatismo”. E continua: “Il problema del partito rivoluzionario è della più grande importanza pratica, perchè riguarda lo strumento con cui tradurre nella pratica della lotta di classe la teoria rivoluzionaria, cioè come usarla realmente… In questo senso deve ormai aver luogo, a livello teorico, una centralizzazione che orienti le differenti esperienze e le lotte localmente avviate… All’unificazione teorica dei marxisti-leninisti, nella prospettiva del partito rivoluzionario di tutti i marxisti-leninisti, intende contribuire “Lavoro Politico”. (Lavoro Politico, nr.2, novembre 1967, pp.44-45)

Il brano è tratto da Alessandro Silj, “mai più senza fucile!”, Vallecchi, 1977, pag.42

IL MANIFESTO PROGRAMMATICO (autunno 1967)

Il manifesto programmatico del “Movimento per una Università negativa” riproduce, nelle grandi linee, molte delle posizioni su università e società (..) ; il linguaggio, semmai, è più vivace. Vi si citano Ortega y Gasset (l’insegnamento universitario è responsabile della formazione dei “Nuovi barbari”, uomini sempre più istruiti e sempre più ignoranti), Josè De Castro (l’insegnamento universitario fornisce degli stereotipi di sue realtà parziali, didatticamente mutilate…crea all’interno della cultura un tipo sui generis di civiltà, diretta da uomini dalle conoscenze tecniche rigorose ma affetti da una miopia politica deplorevole), Rathenau (sulla “invasione verticale dei barbari”), Wright Mills (sulla razionalità senza ragione, una razionalità che non accresce, accrescendosi, la libertà, ma la distrugge). Sempre citando Mills il manifesto denuncia l’attuale tendenza dell’insegnamento universitario: l’imbecilità tecnologica come condizione intellettuale e la robotizzazione degli individui come comportamento sociale diffuso. Repressione e violenza sono il tessuto connettivo della nostra società:

“Ciò che si vuole reprimere è la dimensione critica del pensiero, il regno della storia, il senso della possibilità e dell’alternativa, ovvero, in ultima analisi, l’antagonismo di classe… In questa logica si spiega come ogni forma di movimento, ogni alternativa storica, ogni progetto umano assuma le sembianze di una tendenza sovversiva. “ 

(concetto marcusiano presente nel Manifesto programmatico dell’Università negativa, novembre 1967, cfr. anche Guido Viale, <Contro l’Università> in Quaderni Piacentini nr.33, febbraio 1968, reperibile nell'archivio digitale della biblioteca "Gino Bianco" di Forlì - https://www.bibliotecaginobianco.it/flip/QPC/07/3300

Il manifesto programmatico è frutto in larga parte della penna di Mauro Rostagno, ndr).

Il documento cita l’affermazione di Marcuse secondo cui “il successo più caratteristico della società industriale avanzata è proprio la sua capacità di integrazione degli opposti”, ma per negarne la validità. Al contrario, esiste ancora “la possibilità concreta di un rovesciamento radicale del sistema a capitalismo maturo attraverso nuove forme di lotta di classe…nazionale e internazionale”. Come? “Lanciamo l’idea di una università negativa che riaffermi nelle università ufficiali, ma in forma antagonistica ad esse, la necessità di un pensiero teorico, critico e dialettico che denunci ciò che gli imbonitori mercenari chiamano ‘ragione’”.   Lavoro Politico, nr.2, novembre 1967, pag.43

cfr. anche Trento: le esperienze di "Università Negativa" e "Lavoro Politico",

http://www.bibliotecamarxista.org/soccorsorosso/capitolo 2.htm




L’Università negativa e le classi subalterne: il lavoro politico è creativo, antagonista ed alternativo

 

“Le classi subalterne non dispongono…di strutture ufficiali - università - per formare i loro intellettuali e così devono ricorrere a strutture di sostituzione che volta a volta assumono la forma di “scuole quadri” di partito, scuole sindacali, ecc. È inutile in questa sede analizzare le inadeguatezze di tali surrogati più adatti a preparare “ideologi anacronistici” che professionisti organici. La formulazione gramsciana dello specialista politico ci sembra oggi ancora convincente. Si tratta di trovarne la forma di realizzazione”.

Manifesto programmatico Università negativa, cit. in A.Silj, op. cit., pag. 44.

 

noi formuliamo come ipotesi generale che vi sia ancora la possibilità concreta di un rovesciamento radicale del sistema a capitalismo maturo attraverso nuove forme di lotta di classe interna ed esterna (nazionale ed internazionale) e lanciamo l'idea di una UNIVERSITÀ NEGATIVA che riaffermi nelle università ufficiali ma in forma antagonistica ad esse la necessità di un pensiero teorico, critico e dialettico, che denunci ciò che gli imbonitori mercenari chiamano "ragione" e ponga quindi le premesse di un lavoro politico creativo, antagonista ed alternativo.

Contestazione politica

Solo il rovesciamento dello stato permetterà una reale ristrutturazione del sistema d'insegnamento [...] Lo studente deve quindi, al di là del suo status, agire, in una prospettiva di lungo periodo, per la formazione (stimolazione) di un movimento "rivoluzionario" delle classi subalterne, che si esprima nella forma organizzativa piú adeguata al nuovo tipo di lotta che si deve condurre (..)

da Lavoro Politico, nr.2, novembre 1967, cit.

 

Lavoro Politico contro l’avventurismo insurrezionalista

Dobbiamo già cominciare a realizzare elementi di controsocietà. Cosí la lunga marcia attraverso le istituzioni crea poteri rossi dove si comincia a gestire la società alternativa. (..)

Questo non è un momento rivoluzionario, ma prerivoluzionario, e quindi non è un momento in cui si pone immediatamente il problema della presa del potere ma l'organizzazione di un lavoro politico. Allora occorre dire che è avventurismo far sembrare o far credere alle persone, alle masse che la presa del potere e la realizzazione di una società egualitaria è un'opera facile e rapida: bisogna invece continuamente sottolineare che sarà difficile e lunga. Non è l'esempio cubano, ma è l'esempio cinese, quello che abbiamo di fronte, cioè non è possibile l'organizzazione dell'isola felice con due anni di lotta, ma è possibile attraverso 40 anni di resistenza.

da Proposta di foglio di lavoro, a cura di Renato Curcio e Mauro Rostagno, ciclostilato reperibile presso l'Istituto Feltrinelli di Milano.

Lavoro Politico si definisce fin dai primi numeri "un organo marxista-leninista che si lega nelle sue origini ad alcuni avvenimenti del nostro tempo, quali la rivoluzione culturale proletaria guidata dal pensiero di Mao Tse-tung; l'invincibile lotta del popolo vietnamita e la contemporanea degenerazione del PCI e del PSIUP sempre piú apertamente dimostrativa della politica di 'nuove maggioranze' logico sbocco della 'via italiana e pacifica al socialismo'. Quanto appare su LP è il risultato di una elaborazione collettiva del comitato redazionale e dei collaboratori: per questo non appaiono, generalmente, firme individuali."

Escono complessivamente nove numeri (di cui tre doppi): il primo datato ottobre 1967, l'ultimo (n. 11/12) nel gennaio 1969.

Verso la fine del 1968, l'intera redazione, tra cui Renato Curcio, Margherita Cagol e Duccio Berio (che piú tardi si ritroveranno nella Sinistra Proletaria), aderisce al PCd'I, Partito Comunista d’Italia, seguendo, nella scissione di questo nel dicembre 1968, la “linea rossa” contro la "linea nera".

tutti i titoli sono redazionali #LavoroPolitico_web_serie #SubalternStudiesItalia










martedì 10 ottobre 2023

CALABRESI E FILOCINESI - MAO TSE TUNG A CUTRO

 



Rosario Migale e Mao Tse Tung


Rosario Migale +: Nel 1963,  in disaccordo con la gestione della giunta comunale  e  della federazione provinciale del partito,  abbandona il Pci e costituisce un suo partito a Cutro, il Movimento comunista cutrese, che avrà  un'ottima affermazione nelle amministrative del 1964.
Nel frattempo, arrivava con forza il vento della politica cinese di Mao Tse-tung, e Migale si lasciò catturare dalla figura rivoluzionaria di Mao, cominciando a stringere significativi legami politici con i calabresi filocinesi.
Proprio in quel periodo si rafforzò un'amicizia importante tra lui e l'intellettuale Pier Paolo Pasolini, tanto da avere una parte nel film “Il Vangelo secondo Matteo” (1964), l’apostolo Tommaso.


Il "cinese" Migale fece confluire il suo Movimento comunista cutrese nel nuovo partito marxista-leninista, fondato a Livorno il 16 ottobre 1966, il PCd’I, divenendone un esponente importante per l'Italia meridionale.

Novembre 1967: lotte di classe in Calabria 
Nel 1967 scoppiarono rivolte contadine a Cutro e ad Isola Capo Rizzuto 

 

Cutro, 8 novembre 1967 - corteo davanti il Comune





 Nel novembre 1967 un gruppo di braccianti ha occupato le terre demaniali per protestare contro la disoccupazione crescente, la riduzione del prezzo del grano (in esecuzione degli accordi MEC) e la distribuzione di terre demaniali che il comune ha fatto in base a criteri esclusivamente clientelistici. Contemporaneamente a Cutro, un gruppo di vecchi militanti contadini (espulsi dal partito Comunista nel 1963) ha iniziato una lotta chiedendo l’integrazione del prezzo del grano, la riapertura dei cantieri di rimboschimento, i lavori di irrigazione…Il 3 novembre la polizia di Isola Capo Rizzuto interviene per espellere i braccianti dalle terre occupate, il 6 esplodono disordini, il 7 a Cutro un corteo contadino dà alle fiamme il municipio. Si rinnovano, in entrambe le località, gli scontri con la polizia. La repressione è dura. Quando le prime notizie delle lotte si diffondono a Trento, Curcio prende la macchina e con altri due compagni corre in Calabria. A Capo Rizzuto si incontra e discute con i compagni del PCd’I- che nelle lotte di Cutro ha svolto un ruolo importante, peraltro in seguito assai criticato (calato dall’alto e ideologico in senso generale, ndr) - e con quelli del “Fronte proletario” di Castrovillari. Questi in seguito pubblicheranno un documento che, prendendo spunto dalle lotte di Cutro e di Isola Capo Rizzuto, affronterà il tema più largo dei metodi di lotta nel Mezzogiorno. È un documento che ancora oggi (1977, ndr) conserva notevole interesse, non solo nei suoi aspetti di analisi delle condizioni del proletariato nel Mezzogiorno, ma anche per il modo insolitamente lucido (quando lo si paragoni ad altri documenti della sinistra rivoluzionaria di quel periodo) con il quale tratta il problema di una strategia rivoluzionaria (nella quale radicamento nelle masse, lavoro ideologico e lavoro organizzativo non possono andare disgiunti) nelle sue varie articolazioni. [in nota: ampi stralci del documento sono riprodotti  su “Quaderni Piacentini”, nr.34, maggio 1968]. https://www.bibliotecaginobianco.it/?e=flip&id=37

 

da Alessandro Silj, “mai più senza fucile!” - alle origini dei NAP e delle BR, prefazione di Pio Baldelli, Vallecchi, 1977, pag.62. 


 

+ la biografia dettagliata di Rosario Migale [Cutro (Crotone), 31 gennaio 1920 - 9 aprile 2010]

può essere letta qui: https://www.icsaicstoria.it/dizionario/migale-rosario/

qui sotto il link all’intervista raccolta nel corso del 2007 nell’abitazione di Migale a Cutro e si riferisce in particolare al periodo 1967-1972, dall’assalto e incendio del comune (per il quale fu costretto alla latitanza prima, al carcere poi, difeso dagli avvocati Gracci, Baccioli e Guidetti Serra) all’occupazione di oliveti ad Isola Capo Rizzuto. Migale condivise il proprio percorso politico con Angiolo Gracci (Gracco), già comandante partigiano fiorentino, avvocato ed esponente di primo piano del movimento marxista-leninista italiano.

1 aprile 1971 - comizio di Rosario Migale e Angiolo Gracci (a dx.) a Cutro




Su Zapruder nr. 16- 04.2017, a cura di Pino Fabiano

http://storieinmovimento.org/wp-content/uploads/2017/04/Zap16_10-Voci1.pdf

La voce su Angiolo Gracci curata da noi su Wikipedia https://it.wikipedia.org/wiki/Angiolo_Gracci

su questo blog: 

http://ferdinandodubla.blogspot.com/2012/04/angiolo-gracci-un-comunista-testa-alta.html


 

Pasolini e il premio Crotone 

QUEL PREMIO NON S’HA DA DARE

 

foto Pasolini con i giovani del PCI a Cutro (1959)




 

-Il PREMIO CROTONE 1959 va a PIER PAOLO PASOLINI, per il suo docu-romanzo “Una vita violenta”. Non senza polemiche, critiche, querele e recriminazioni, pre e post, di cui dà conto l’Unità il 7 e l’8 novembre di quell’anno. Era accaduto che, quell’estate del 1959, Pasolini nel suo primo peregrinare in terra calabra, aveva colto soprattutto la desolante bellezza della costa ionica e l‘aveva immortalata in un reportage intitolato “La lunga strada di sabbia“ pubblicato dal mensile milanese “Successo” diretta da Arturo Tofanelli. C’erano espressioni rivolte agli abitanti di Cutro

(“È, veramente, il paese dei banditi come si vede in certi film western”) che avevano infastidito gli amministratori comunali democristiani del paese del crotonese, tanto da spingerli a una querela, rimasta però senza conseguenze giudiziarie. Mentre tutta questa polemica infuriava, accadde che nello stesso periodo (autunno 1959) una giuria composta, fra l’altro, da Giacomo Debenedetti, Alberto Moravia, Giuseppe Ungaretti, Leonida Repaci, Carlo Emilio Gadda e Giorgio Bassani decise di assegnare il “Premio Crotone” (istituito il 4 aprile 1952 da una delibera dell’Amministrazione comunale guidata dal Pci di Silvio Messinetti che aveva ricevuto indicazioni in tal senso dal segretario regionale Mario Alicata) a Pier Paolo Pasolini per il suo romanzo “Una vita violenta“ pubblicato dalla casa editrice Garzanti nella primavera del 1959. La vigilia dell’assegnazione del riconoscimento (consistente anche in un premio da un milione di lire) fu preceduta dunque da roventi considerazioni, e da parte degli amministratori cutresi, come detto, e da parte dei democristiani crotonesi. Si criticava, infatti, l’indicazione di Pier Paolo Pasolini a vincitore del “Premio Crotone”, innanzitutto, perché unica candidatura all’edizione e poi, per la vicinanza dello scrittore al Pci. Il poeta friulano, in quell’anno, era stato escluso dal Premio Viareggio e dallo Strega. Una parte del Pci premeva allora per un riconoscimento altro che potesse restituire dignità all’intellettuale di Casarsa. Per inciso, quello di Crotone fu un premio davvero straordinario. Si pensi che al secondo posto si classificarono ex aequo Ernesto de Martino con il suo “Sud e magia”  ed Elemire Zola con “L’eclisse dell’intellettuale”.


 

Bellocchio e il maoismo

QUANDO A SERVIRE IL POPOLO ERA IL MAOISTA BELLOCCHIO

 

Marco Bellocchio durante le riprese del lungometraggio “Paola, il popolo calabrese ha rialzato la testa”, girato nel 1969





nella sezione ‘Subalternist’ e ‘Movie Subaltern’ del canale video di Subaltern studies Italia il docufilm di Marco Bellocchio “Il popolo calabrese ha rialzato la testa” del 1969 (link in fondo al post). In collaborazione con Mauro Francesco Minervino (I calabresi.it) e Archivio audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico.


Dopo il successo all'esordio sul grande schermo con I pugni in tasca, il regista Marco Bellocchio si trasferì sul Tirreno cosentino con Lou Castel per documentare le lotte di "Servire il popolo", movimento comunista che sognava di portare la rivoluzione cinese nel profondo Sud dominato dalla DC. Ne nacque un film semidimenticato che ci mostra una miseria lontana anni luce dal Boom economico che interessava il resto del Paese.    


Non si sono ancora spente le polemiche per Marco Bellocchio, autore della dibattuta serie Tv “Esterno notte“ che ha toccato un nervo scoperto della recente storia d’Italia come il “caso Moro”. Bellocchio, originale e sempre controverso cineasta, oggi è per tutti l’autore della pellicola sull’oscuro rapimento e la morte di Moro, ribadito nella sequela ipnotica e spiazzante della recente serie TV. 

Quasi nessuno, invece, ricorda un suo lontano film politico, documento dal vero su povertà e sottosviluppo del “popolo meridionale”.

Eppure si tratta di un film di Bellocchio appena consecutivo al suo esordio di successo nel grande cinema, che riporta alla vicenda giovanile del cineasta e ad un periodo – mai rinnegato – di impegno politico militante e fortemente ideologizzato, in cui egli incontrava la realtà marginale del Sud e della Calabria, a Paola. 

Bellocchio e la rivoluzione

Accadde quando Bellocchio era già al suo terzo film, dopo gli anni da studente del Centro Sperimentale di Cinematografia. In questo film-documento girato in Calabria, a Paola e a Cetraro, con mezzi di fortuna, emergono l’impegno politico e la vena sociale di Bellocchio. Da militante rivoluzionario maoista, racconta con il suo occhio di cineasta e in presa diretta, il Sud arretrato e povero e le lotte per l’occupazione delle case popolari nella Calabria di fine anni ‘60.  Il lungometraggio “Paola, il popolo calabrese ha rialzato la testa”, girato nel 1969, arriva quattro anni dopo “I pugni in tasca“ e appena due anni dopo “La Cina è vicina“ del 1967. Il lungometraggio fu ideato e realizzato con le finalità di un prodotto di propaganda e di azione della “Associazione Marxisti Leninisti Italiani”, meglio conosciuta come Servire il popolo. Dopo un lungo  periodo passato nel dimenticatoio, la pellicola è stata ripresentata per la prima volta al Festival di Locarno del 1998, all’interno di una retrospettiva dedicata al cinema di Bellocchio. La fine del Sessantotto vide Bellocchio impegnato in prima persona nel movimento di estrema sinistra della Unione dei Comunisti Italiani (marxisti-leninisti). Testimonianza di questo periodo di militanza rivoluzionaria fu la sua diretta partecipazione nel 1969 alle azioni per l’occupazione di case popolari organizzata dai militanti di Servire il Popolo, che in quegli anni aveva una sua forte base politica e organizzativa proprio nella cittadina calabrese. (..) 

- Un’occupazione in 100 minuti

Per me che ero ragazzino negli anni in cui questo accadeva nel mio paese (sono nato a Paola e lì, in quegli stessi luoghi e tra quelle persone, ho vissuto i mei anni più giovani), quella stagione rappresenta i ricordi di una realtà umanamente complessa, fonte di incontri e di conoscenze successive, e di un insieme di riflessioni politiche e sociali che non hanno smesso ancora, a distanza di anni, di interrogarmi e di farmi problema. 

“Il popolo calabrese ha rialzato la testa” di Bellocchio è in fondo la storia in 100 minuti, esemplarmente triste ed esaltante, di un’occupazione di case organizzata e guidata da un gruppetto di militanti dell’allora “partito maoista”, una formazione politica rivoluzionaria che ebbe in quegli anni forti basi organizzative e individualità costitutive del movimento in questa piccola città calabrese. 


 

Mauro Francesco Minervino - estratto, leggi tutto 

Maoisti su Paola: Bellocchio e la Calabria del ’69

https://icalabresi.it/cultura/bellocchio-e-la-calabria-del-69-maoisti-su-paola/?fbclid=IwAR2eYJP1ohnzywsqcnbzCM02hB42zBCx6l4z3wMyfRgfpefqa5Q6tCJuBdA

 

Il link al docufilm, “Il popolo calabrese ha alzato la testa” durata 2h01’

https://www.youtube.com/watch?v=L0yaEMsZYd8