Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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martedì 28 febbraio 2023

I SEMINARI RURALI e LA TEOLOGIA DELLA “ZAPPA”, la TEOLOGIA da ENXADA di padre Josè Comblin

 

Zappatori della dura terra non si nasce, si diventa. Come una delle personalità sicuramente più significative della teologia della liberazione, Josè Comblin (1923-2011) prete belga in missione in Brasile, che diventerà la sua patria di adozione e naturalizzazione. Purtroppo il suo primo e importante testo non è stato tradotto in italiano, segno indubbio nel nostro paese di grave sottovalutazione di un’esperienza davvero straordinaria. Entro le stesse comunità di base, colonne portanti delle metodologie e percorsi di ecclesia della teologia della liberaciòn,  dedite alla teoresi collettiva e la condivisione (cum-panis condividere il pane, compagni dunque), i seminari rurali organizzati da Comblin associavano alla riflessione e discussione, il lavoro comune sulla terra, riproducendo la collettivizzazione dei mezzi di lavoro di una strutturata società contadina organizzata comunitariamente.

 

Padre Josè era stato inviato come missionario in Brasile nel 1958 nel Nordest come sacerdote ‘Fidei donum‘. Iniziò lì come insegnante di chimica e fisica a Campinas, poi divenne assistente alla JOC (Juventude Operária Católica), dove ebbe come studenti coloro che sarebbero diventati Frei Betto e Frei Tito (approfondimenti seguendo il  canale Telegram - https://t.me/scuolafilosofiaVanini ).

- Fu chiamato nel 1965 all'Istituto di Teologia di Recife, su invito del vescovo dom Helder Camâra, dedito alla lotta contro la povertà e ne divenne uno dei suoi più stretti collaboratori.

Nel 1969 fonda il “Centro Rurale di Formazione Teologica ” con lo scopo di formare missionari laici. Lì pratica la "teologia della vanga", un metodo che combina insegnamento e apprendimento in agricoltura. Collabora alla fondazione di numerosi seminari rurali a Paraíba, da cui trae e arricchisce le basi per la “teologia della vanga” (Teologia da Enxada). Continua la sua ricerca teoretica e didattica come professore di teologia in Ecuador.

- Le sue idee e la sua azione sconvolgono il regime militare: fu espulso dal Brasile nel 1971 e tornò in Cile per un periodo di otto anni. Dichiarato nuovamente ”persona non grata”, fu espulso dal Cile di Pinochet nel 1980, a causa della pubblicazione del libro “A Ideologia da Segurança Nacional“ (1977). Tornato in Brasile, si stabilì a Serra Redonda (Paraíba), dove continuò il suo insegnamento e le sue numerose pubblicazioni in molti campi. Fonda un nuovo seminario rurale e numerose comunità di base e anche movimenti secolari: Missionários do Campo ( 1981 ), Missionárias do Meio Popular ( 1986 ), Missionários de Juazeiro de Bahia ( 1989 ), de Paraíba ( 1994 ) e Tocantins ( 1997 ).

- Tra tutti i suoi scritti molto rilevante e ormai introvabile (ecco la necessità della traduzione nel nostro paese) è Théologie de la pratique révolutionnaire, del 1974, la Teologia della rivoluzione, come fu conosciuta in quegli anni, in particolare in una traduzione francese dei circoli universitari e considerata, da molti attivisti dei movimenti antagonisti, come la base politico-ideale della lotta di classe dei cristiani per il socialismo, che aveva già conosciuto il suo emblema in Camilo Torres, presbitero colombiano e sociologo guerrigliero morto il 15 febbraio del 1966 a Patio Cemento, durante un combattimento. ( vedi su questo blog_ 

http://ferdinandodubla.blogspot.com/2021/04/teologia-della-liberazione-teologia-do.html )

   Tradotta e reperibile è invece la sua fondamentale “Antropologia cristiana” scritta per le edizioni Vozes nel 1985 e pubblicata dall’editrice Cittadella in Italia nel 1987.

 

#SubalternStudiesItalia   scritto  in collaborazione con Wikipedia in lingua francese.











mercoledì 22 febbraio 2023

SUBALTERN THEOLOGY, LA PRASSI DEGLI OPPRESSI

 

Cristianesimo e marxismo, croce e rivoluzione, eguaglianza e fraternità, pace e guerra, violenza e non-violenza, umanesimo religioso e umanesimo laico, conseguenze politiche del teismo e dell’ateismo, sono solo alcuni dei temi, oggi analizzati dagli studi subalterni con la Subaltern Theology, sottesi alle fondamenta filosofiche della teologia della liberazione. / Use tag.: #lacrocedellarivoluzione  #SubalternTheology

LA CROCE DELLA RIVOLUZIONE (1.)

I concetti di collettivo e comunità di base sono le fondamenta della teologia della liberazione (Gutierrez, Leonard Boff). L’incontro tra cristianesimo e socialismo rivoluzionari, superamento della distinzione tra umanesimo religioso e umanesimo ateistico e laico, è nel riscatto degli oppressi, nella liberazione dei gruppi subalterni, nella concreta solidarietà - fratellanza e nella contemporanea presa di coscienza della possibile autodeterminazione popolare contro le classi dominanti. La comunità dell’Isolotto di Firenze (don Enzo Mazzi, padre Balducci) negli anni 1954-1969, può essere inscritta a pieno titolo come esperienza della teologia della liberazione italiana.

La teologia fase suprema della filosofia. Ma della liberazione. Dopo la sussunzione medievale dell’ancella filosofica alla “scienza di Dio”, il dibattito sugli universali, innescato dalla cosiddetta «sententia vocum» di Roscellino di Compiègne (1050-1120) aveva sviluppato una sovrapposizione tra logica e misticismo, tra il nome delle cose e la loro essenza, derivata dalla loro stessa esistenza reale. Filosoficamente il problema verrà posto come la liberazione dell’essere, poi della ‘persona’: ma non più solo spirituale o secondariamente materiale, ma primariamente materiale. La teologia della liberazione, dunque, filosoficamente risolve la possibile divaricazione tra liberazione dell’individuo e liberazione collettiva, tra uguaglianza materiale di critica al classismo sociale e la fratellanza universale di azzeramento del classismo sociale. Che per i teologi della liberazione, significò, a leggere i loro scritti (Gustavo Gutierrez, Leonard Boff, Hans Kung, Hugo Assmann in particolare) una costante interlocuzione con il marxismo e con le idealità socialiste, fino alla identificazione rivoluzionaria: può essere il cristianesimo uno strumento della rivoluzione? Può, il cristianesimo, portare la croce della rivoluzione? Oltre la contingenza storica della sua diffusione in America Latina negli anni ‘70 e ‘80 del Novecento, lo spessore teoretico della teologia risulta essere una filosofia, come il materialismo storico e il comunismo dell’uomo ‘onnilaterale’ di Marx, della liberazione. (1. continua) / fe.d.

SUBALTERN THEOLOGY

Dobbiamo impegnarci per la liberazione di quanti sono stati spogliati del diritto legittimo di essere persone. La nostra missione consiste in questo: insieme agli esclusi del continente, la cui povertà non è una situazione naturale ma il prodotto di un crudele sistema sociale; insieme a quegli strati sociali totalmente depauperati dal sistema; insieme alle culture disprezzate e agli indigeni autoctoni discriminati, dobbiamo impegnarci nella ricerca di soluzioni adeguate ai molteplici problemi che il popolo sta vivendo! Un impegno quindi vólto alla liberazione, al cui contesto non sono estranee conquiste come la miglior distribuzione dei frutti del progresso, con in testa lo sradicamento della fame, il diritto a un’istruzione di base, uguaglianza reale. Dobbiamo lottare perchè venga abolita l’unilaterale divisione del lavoro, la costante dipendenza dei popoli sottosviluppati dalle nazioni industrializzate, affinchè vengano abolite le ingiuste condizioni sociali esterne ed interne. Un impegno per la liberazione, affinchè attraverso questa diventi possibile un nuovo modo di essere uomini e di essere cristiani: non attraverso la mera compassione o generose opere di misericordia, o attraverso solo riforme superficiali, ma affinchè si renda possibile ed effettiva la nascita di un “uomo nuovo” in un contesto sociale rinnovato, realmente giusto, fraterno e libero a tutti gli effetti.

Hans Küng, da Essere cristiani significa essere umani in modo radicale, in Boff, Küng, Greinacher, Il grido degli ultimi - La chiesa dei poveri tra nord e sud del mondo, Datanews, 1997 (ed.or.1995)  pag.36

LA PRASSI LIBERATRICE

 Il termine «Teologia della liberazione» risale a una conferenza tenuta da Gustavo Gutiérrez nel 1968 a Chimbote, nel Nord del Perù. Il termine poi dà il titolo al suo libro Teología de la liberación del 1971 e con esso acquisisce notorietà in tutto il mondo. La decima edizione riveduta del libro (1992) è preceduta anche da un’ampia introduzione. In essa l’autore chiarisce il significato di alcuni termini, passibili di malintesi: come, ad esempio, quello di opzione preferenziale per i poveri, di lotta di classe, di teoria della dipendenza e di peccato strutturale e sociale. (..) La Teologia della liberazione intende il lavoro teologico come partecipazione attiva, pratica – e pertanto trasformatrice – all’agire liberante integrale, complessivo inaugurato da Dio, grazie al quale l’agire storico dell’uomo è reso capace e chiamato a servizio della liberazione e dell’umanizzazione dell’uomo stesso. (..) le grandi conferenze dell’episcopato latinoamericano di Medellín (1968), Puebla (1979) e Santo Domingo (1992) hanno inteso se stesse come messa in pratica e realizzazione dello sviluppo complessivo della teologia cattolica del XX secolo, nel contesto socio-culturale e spirituale del subcontinente latinoamericano. Per questo è risultata essenziale la nuova comprensione della chiesa a partire dal Vaticano II che si diffuse in tutta l’America Latina. È quella concezione conciliare di chiesa del tutto incompatibile con la divisione – risalente al periodo coloniale e i cui effetti si fanno sentire ancora oggi – tra una cerchia ristretta di responsabili, vescovi, presbiteri e religiosi appartenenti alla popolazione bianca o, rispettivamente, ai missionari stranieri da un lato; e, dall’altro, una popolazione originaria passiva – composta dai cosiddetti indios autoctoni, dai discendenti degli schiavi di colore e dai meticci – considerata immatura e alla quale vengono offerti unicamente dei riti religiosi. /

da Gustavo Gutiérrez - G.L. Müller, Dalla parte dei poveri - Teologia della liberazione teologia della chiesa, Emi, Bologna, 2013, cit. da ed.digitale, cap.2 §1.

- Una nuova comprensione della teologia: riflessione teologica al servizio della prassi liberatrice di Dio. / Nonostante tentativi dell’ultimo Gutiérrez e di molti teorici della teologia della liberazione di rientrare nella comunità ecclesiale a pieno titolo, dopo scomuniche, abiure, anatemi, pentitismo e ‘irriducibili’, il debito di questa teologia con il marxismo è evidente, e, piuttosto che accusa, ne è un punto di merito: il fondamento teoretico ‘primo’ della teologia subalternista è una filosofia della prassi, utilizzando un’espressione cara a Labriola e Gramsci, la prassi degli oppressi, una Subaltern Theory.

 

SUBALTERN THEOLOGY E Il MOVIMENTO DEI PRETI OPERAI (PO)

Riteniamo convintamente che la comunità dell’Isolotto di Firenze animata da don Enzo Mazzi (incontrato personalmente nel 1977 nella biblioteca afferente la parrocchia tuttora attiva del quartiere), la rivista ‘Testimonianze‘ di  padre Ernesto Balducci e il movimento dei preti-operai (per diretta conoscenza durante il tirocinio di teoria politica e filosofia all’Università di Firenze) possano considerarsi espressioni contestuali a pieno titolo del movimento internazionale della teologia della liberazione inaugurato in America Latina da Gustavo Gutierrez e Leonard Boff. / fe.d.

Per quanto riguarda il movimento PO, esso fu fondato in Francia dal cardinale Suhard. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1949 (lo stesso anno in cui un decreto del Sant’Uffizio colpiva con la scomunica i comunisti e i loro simpatizzanti), la Mission de France fu guardata con sospetto dai responsabili romani e nel settembre del 1953 fu decretata la chiusura del seminario della Missione, dove si formavano i futuri preti operai, mentre nel gennaio del ’54 arrivò il provvedimento definitivo voluto da Pio XII: l’obbligo per i preti di lasciare il lavoro entro il termine ultimo del primo marzo “sotto pena di sanzioni gravi”.


PRETI OPERAI. LE ORIGINI (1.)


Avversati e/o scomunicati in ogni modo, quella dei preti operai non fu una “stagione”, ma l’emblema del movimento carsico di trasformazione rivoluzionaria degli anni ‘60 e ‘70 del Novecento. L’origine di questa importante figura di soggettività antagonista è in Francia. Si deve al cardinale Emmanuel Suhard (1874-1949) vescovo di Parigi nel 1940. Consapevole dell’indifferentismo agnostico maggioritario, un “sostanziale paganesimo” nella classe operaia e nel mondo subalterno, in particolare della banlieue parigina, si fece promotore di un ‘missionarismo’ laburista e a questo scopo fondò la Missione operaia di Parigi dalla quale uscirono, nel 1944, i primi preti operai. Accanto a Suhard, l’abate Henri Godin, morto troppo presto (1906-1944), ma, già assistente della Jeunesse ouvrière catholique, autore del libro considerato storicamente il fondamento del movimento PO (Preti Operai), “Francia, terra di missione?”, or. La France, pays de mission? (Les Éditions du Cerf, Paris, 1943) -

https://openlibrary.org/authors/OL126753A/Henri_Godin

 

Giuseppina Vitale, Il prete, la professione e la fabbrica. Soggettività e memoria dei preti operai, Studium, 2021

 /scheda/

 La vicenda dei preti operai copre un ventennio chiave del “Secolo breve”. L’esperienza lavorativa di alcuni sacerdoti italiani – ispirati dai precoci confratelli d’Oltralpe – pone le basi per una nuova teologia laica, guidata dalle stesse azioni di trasformazione storica che, nel corso del “Lungo Sessantotto”, hanno investito tutta l’Europa. Il volume intende ricostruire non soltanto una breve esperienza religiosa e anche politica, ma soprattutto la memoria di alcuni protagonisti dell’epoca. Attraverso le interviste a Roberto Fiorini, Luigi Consonni, Beppe Manni, Sandro Vesce, Carlo Carlevaris, Louis Magnin, Luigi Sonnenfeld e Giuseppe Dossetti jr., l’autrice intende creare una sorta di affresco capace di miscelare le azioni, i sentimenti, i ricordi con l’intricato contesto storico degli anni Sessanta e Settanta del Novecento.

 

PRETI OPERAI, UNA SCELTA DI CLASSE

 

Soprattutto l’influenza del movimento studentesco portarono una parte consistente del dissenso ecclesiale a compiere una scelta di classe, persino a schierarsi contro una Chiesa di classe. Nella Chiesa si sviluppò una sorta di coscienza critica che permise la permanenza di molti giovani e la proliferazione di una “teologia laica” che coinvolse pienamente le vite dei sacerdoti al lavoro.

Giuseppina Vitale, op.cit., pag.15

 

Subaltern studies Italia tornerà ad occuparsi dei preti operai, colonna subalternista, in particolare attraverso le biografie di esponenti del movimento italiano, come Sirio Politi, Bruno Borghi, Renzo Fanfani, attivi in Toscana - vedi  https://youtu.be/ynlQCPi95pU

trailer al docu-film realizzato dal regista Massimo Tarducci nel 2021 con il contributo e il patrocinio della Regione Toscana).

 

#SubalternStudiesItalia,  Use tag.: #pretioperai

 

Su questo blog vedi anche

I SUBALTERNI DI GUTIERREZ (Teologia della liberazione)

http://ferdinandodubla.blogspot.com/2023/01/i-subalterni-di-gutierrez-teologia.html

[ Conscientização ] La "coscientizzazione" in Paulo Freire

http://ferdinandodubla.blogspot.com/2021/04/conscientizacao-la-coscientizzazione-in.html

TEOLOGIA della LIBERAZIONE, TEOLOGIA DO OPRIMIDO [dedicato a Camilo Torres Restrepo (1929/ +1966)]

http://ferdinandodubla.blogspot.com/2021/04/teologia-della-liberazione-teologia-do.html

 

a cura di Ferdinando Dubla, Subaltern studies Italia - Appunti per convegno della Scuola di Filosofia  "Giulio Cesare Vanini" di Manduria, 28 febbraio 2023- https://t.me/scuolafilosofiaVanini













venerdì 17 febbraio 2023

PROLETARI “CON” RIVOLUZIONE - ‘ali’ di piombo in occidente

 

Come Subaltern studies Italia premetteremo sempre quanto segue ai post, scritti e appunti sulla lotta armata di autoaffermata ispirazione marxista in Italia degli anni ‘70 e i testi a essa riferiti, sia nei documenti originali o-e nelle biografie di militanti, che nella memorialistica, fondamentale per la documentazione storica in prima persona senza mediazione culturale o interposto giudizio politico, nei libri scritti dai protagonisti, come Prospero Gallinari (morto nel 2013) , l’intervista di Mario Moretti a Carla Mosca e Rossana Rossanda, Adriana Faranda, Barbara Balzerani, ad esempio, per indicarne solo alcuni, crediamo necessari, per conoscere il fenomeno delle Brigate Rosse [in particolare gli eventi che vanno dalla formazione del CPM (Collettivo Politico Metropolitano di Milano del settembre 1969, poi SP - Sinistra Proletaria, il convegno di Pecorile-Costaferrata il 17 agosto 1970) fino alla dichiarazione di ‘fine della lotta armata’ di esponenti del ‘nucleo storico’, Renato Curcio, Mario Moretti, Barbara Balzerani - il 21 marzo 1988 i tre esponenti delle BR, durante una pausa del processo Moro Ter, rilasciano una intervista a Ennio Remondino del TG1 in cui pongono  la questione di una “soluzione politica” vedi video https://www.youtube.com/watch?v=6qMuaDf2llM] 

Per lo storico ‘integrale’ a cui si è sempre riferito Gramsci (Q.25)  la diretta documentazione sulle fonti è necessaria per comprendere i fenomeni sociali e politici oggetto dunque di inchiesta storico-politica.

LA MAPPA PERDUTA di una DAMNATIO MEMORIAE

 La lotta di classe armata in occidente fu insieme sia espressione oggettiva delle contraddizioni sociali del capitalismo e del dominio imperialistico sia forzatura soggettiva di autoproclamate avanguardie che nel ‘salto’ diventarono autoreferenziali perdendo i connotati di classe attraverso lo schematismo analitico e un dottrinarismo fideistico, semplificatore della realtà. Quando ci si immette sulla strada prima della “propaganda armata” poi su quella dirimente di obiettivi politici da sopprimere, si valuta la fase sociale come “guerra di movimento” di “lunga durata” tra l’altro, e non quella che Gramsci aveva analizzato con la categoria di “guerra di posizione” come transizione al socialismo in occidente. Configurandosi dunque come avventurismo (la forzatura ‘soggettivista’) categoria analitica del leninismo e della tradizione comunista. Con tutte le conseguenze del caso, anche a voler prescindere dall’ineliminabile riprovazione per i costi umani di tale scelta (anche nelle proprie fila).

 Il movimento operaio e sindacale di massa passò dall’offensiva alla difensiva, la controreazione decretò il riflusso reazionario, lo stesso PCI fu stretto in una morsa che provocò un riflesso d’ordine in difesa delle ‘istituzioni democratiche’ che pur si volevano riformare in un ‘processo’ di trasformazione strutturale della società. Sullo sfondo, la ristrutturazione capitalista e della globalizzazione multinazionale dei mercati, che affiancava l’imperialismo militare occidentale a quello culturale e politico, anticipati e seguiti dal terrorismo di matrice fascista, tentativi di colpo di Stato, bombe a banche e treni, con collusione degli stessi apparati dei servizi segreti, come nei disegni di Gladio e della P2.

La MAPPA RITROVATA

Progetto memoria: La mappa perduta, a cura di Maria Rita Prette, Sensibili alle foglie, 3ed. 2013 

/scheda/ Sono qui presentati i risultati di una ricerca sul fenomeno armato di sinistra che ha attraversato l'Italia tra il 1969 e il 1989. Rispetto alla prima pubblicazione del 1994, questa edizione propone i frutti di una ricerca concernente le formazioni che tra il 1990 e il 2019 sono state ricondotte nel solco delle esperienze precedenti. Il testo si articola in sei sezioni. La prima espone la storia essenziale di 47 organizzazioni e la loro bibliografia. Per 24 di esse viene fornita una descrizione socio-statistica considerando età, livello degli studi, attività lavorativa e regione di provenienza degli inquisiti. La seconda si compone di capitoli nominali relativi all'evento in cui hanno incontrato la morte 71 militanti delle organizzazioni armate. La terza sezione presenta dati e riferimenti bibliografici sugli eventi in cui sono morte le 128 persone colpite dalle formazioni considerate. Una quarta parte è dedicata alla descrizione socio-statistica dell'esperienza armata nel suo complesso. La quinta sezione descrive il periodo 1990-2019. Infine, alcune correlazioni fra dati presentano uno sguardo sintetico sulla situazione attuale di 27 prigionieri politici.

- - 

Occorreva capire e cercare di far capire, ad esempio, che chi riduce la realtà umana alla sola dimensione della prassi empirica, e ne ignora la profondità metafisica, compie un’astrazione mentale che ricalca e fa apparire necessaria la corrispondente astrazione reale quotidianamente operata dal modo di produzione capitalistico: è il funzionamento di tale modo di produzione, infatti, che nel sussumere l’uomo in se stesso, nel suo ciclo di produzione e di consumo, lo fa essere sola prassi empirica, e lo rende cieco ad ogni altro lato ontologico. (..) L’anticapitalismo vero (e non basta l’anti, progettualmente occorre l’andare oltre il capitalismo) non può esistere se non sulla base di un modo di essere personale capace di resistere ( e la resistenza è solo se è progetto) in qualche sia pur limitata forma alla logica di contrapposizione commisurante che traduce in termini di motivazioni individuali l’impersonale dinamica sistemica dell’ accumulazione senza fine di plusvalore. (..) affermazione della libera individualità sociale quale espressione consapevole di un nuovo e maturo agire comunitario (..) la comunità realizzata in autentica pienezza di significato con la convergenza interiore delle libere individualità (cui faceva riferimento Marx) è davvero il superamento dell’alienazione determinata dalla cogenza della valorizzazione del capitale. 

dall’intervista a Carmine Fiorillo a introduzione dell’edizione 2013 de “L’ape e il comunista”, a cura del gruppo di studio Resistenze Metropolitane per PGreco ed. 

Carmine Fiorillo, direttore della rivista Corrispondenza Internazionale dal 1975 al 1985, anno della sua chiusura. Autore di 

Il necessario fondamento umanistico del «comunismo» scritto insieme a Luca Grecchi per le edizioni Petite Plaisance, 2013.

/scheda/ Questo libro cerca di mostrare che una buona progettualità teorica del comunismo è necessaria, data la grave condizione di sofferenza materiale e spirituale prodotta dal modo di produzione capitalistico. Tale progettualità, per essere buona, necessita però di un fondamento filosofico, ossia di una buona conoscenza della natura umana. In assenza di questo fondamento, il "comunismo" si trasforma in mera istanza oppositiva, smarrendo le proprie profonde radici culturali (orientali, greche, cristiane, medievali: non solo moderne). Solo invece recuperando una solida fondazione filosofica, nonché la consapevolezza della propria costante presenza nella storia umana, il "comunismo" potrà tornare ad essere pensato nella maniera corretta, ovvero come un modo di produzione sociale ideale in cui vivere, in quanto conforme alla natura comunitaria dell'uomo.

A cura di #SubalternStudiesItalia 



Valerio Morucci e Adriana Faranda al processo Moro nel 1980. Furono gli unici esponenti delle BR ad opporsi all'esecuzione del prigioniero eseguita il 9 maggio 1978







giovedì 9 febbraio 2023

70 anni che Rocco Scotellaro se n'è andato - A fare il giorno nuovo






Riprendiamo i classici del meridionalismo storico politico di impostazione gramsciana per ridefinire un nuovo meridionalismo non latitudinario che può essere inscritto nella più generale critica postcoloniale alle forme della modernità.

Come il giovane Gramsci che scrive nel 1917 lo splendido articolo della rivoluzione russa “contro il capitale”, caratterizzando crediamo per sempre il suo marxismo come creativo e antideterminista; così Scotellaro intende il suo ruolo attivo di intellettuale “organico” alle classi subalterne, nonostante Gramsci avesse riflettuto che la civiltà contadina del mondo rurale si affidasse agli intellettuali ‘tradizionali’ e non producesse suoi propri intellettuali. Era iniziato il riscatto dei gruppi subalterni del Mezzogiorno.   

https://www.amazon.it/dellintellettuale-meridionalista-Scotellaro-percorso-antologico/dp/8861150829 

- E’ impressionante la rimozione che la cancellazione richiede. Se si pensa che si deve all’oggi scomparso studioso statunitense John Cammet, l’inizio di una seria e rigorosa bibliografia gramsciana internazionale, vien da pensare come purtroppo sia proprio l’Italia il paese dove il lavoro su Gramsci presenta le maggiori difficoltà e addirittura ostracismo quando se ne rivendica l’impegno comunista militante. Segno di un clima culturale (e politico) regressivo o, peggio, del ripudio sostanziale della sua eredità. E per Scotellaro non va meglio, appena se ne rivendichi la sua appartenenza ideale e politica al marxismo. L’autore de ‘I contadini del Sud’ che ben figurerebbe oggi, lui poeta e scrittore con poca dimestichezza sociologica, accanto ai Cultural Studies (che hanno in Inghilterra in Stuart Hall, il loro rappresentante più significativo) e ai Post Colonial Studies, (e dunque negli Stati Uniti con la figura del noto studioso Edward Said), entrambi di matrice gramsciana.

Quelle facce di ‘come eravamo’ che ricompaiono, nello stesso 1953 che a dicembre registrerà la  sua prematura morte, nelle “Note di viaggio” di Ernesto de Martino.

Ernesto de Martino, dinanzi a quegli stessi contadini lucani  raffigurati poeticamente dal poeta tricaricese e dipinti dal piemontese Carlo Levi pur ferito dal confino, svilupperà la categoria della ‘presenza’, dell’’esserci-nel-mondo”, unico tramite per arrivare alla coscienza di sé e del proprio riscatto. E l’esserci-nel mondo è ben lontano dall’essere una categoria filosofica fenomenologica, ma, come nel Mondo magico, è preso in esame come problema collettivo, tramite, appunto, della coscienza di classe.  Per de Martino si trattava di un passaggio “dall’astratta impostazione idealistica” al “terreno concreto dei rapporti di classe”, così scrisse il mio indimenticabile maestro all’Università di Firenze, Cesare Luporini, “Intorno alla storia del mondo popolare subalterno”, in Società, vol.VI,  nr.2,  1950, ora in Rauty (a cura di), Cultura popolare e marxismo, Editori Riuniti, 1976, pp.74 sgg.  E’ stupefacente come quell’articolo, riletto oggi, possa costituire una delle forti ragioni della ripresa di Gramsci dei Subaltern Studies che dagli anni ’80, sotto la guida dell’indiano Ranajit Guha, hanno ridefinito una feconda attualità delle riflessioni meridionaliste (dei paesi post-coloniali e di tutti i Sud del mondo).

Perché il riscatto senza cancellazione è nella loro mente e nei loro cuori. Se noi oggi scegliamo loro come compagni di viaggio è perché, nonostante i loro sforzi e il loro travaglio, non c’è stato alcun riscatto per le nostre terre, mentre la cancellazione si fa progressiva e devastante.

dalla prefazione dell'autore 


Ferdinando Dubla (Taranto, 1956) docente di filosofia e ricercatore Subaltern studies Italia

Ferdinando Dubla, A fare il giorno nuovo. Il nuovo ruolo dell'intellettuale meridionalista in Gramsci e Scotellaro e breve percorso antologico - nota introduttiva di Massimo Giusto, Chimienti ed., 2015






domenica 5 febbraio 2023

BRIGANTI SI MUORE - Franco Molfese e il brigantaggio come insorgenza meridionale

 

Franco Molfese - Storia del brigantaggio dopo l'Unità, Milano, Feltrinelli 1ed. marzo 1964

cit. da seconda edizione 1974 

IV cop.

Il brigantaggio che flagellò il Mezzogiorno continentale dal momento stesso  dell'unificazione fin verso il 1870, costituisce una delle pagine più fosche e meno note della storia dell'Italia moderna.

Franco Molfese (Roma, 1916/+2001)

E'  stato vicedirettore della Biblioteca della Camera dei deputati. Fra le sue opere citiamo il saggio Lo scioglimento dell'Esercito Meridionale apparso nel 1960  su "Nuova rivista storica" e l'intervento al Secondo convegno di studi gramsciani raccolto nel volume ‘Problemi dell'Unita' d'Italia’ (1962). Ha collaborato alla rivista Studi storici.

---- estratti da L'Ufficio Stampa del P.C.I.M-L., 12 agosto 2007

Franco Molfese, nelle considerazioni conclusive del suo monumentale e tuttora fondamentale libro sul brigantaggio dopo l'unità  d'Italia, si chiede se era possibile evitare l'immane sperpero di vite umane e di ricchezze, provocati dal brigantaggio contadino e dalla repressione statale. Se esisteva nel Sud la possibilità  di una diversa soluzione dei rapporti tra classe borghese-liberale e masse contadine. Consapevole comunque che una risposta a tali domande appare sul terreno storiografico sempre azzardata, perchè la storia non si scrive con i se del senno di poi. Tuttavia, essendo implicito nei fatti storici anche il possibile che non si è realizzato, un ripensamento del genere arricchisce certamente la comprensione dell'accaduto.

(..)

La Destra moderata, minoritaria nel Sud, fece ricorso alla dittatura militare per reprimere l'offensiva del grande brigantaggio contadino. I salariati-briganti aspiravano al pane, alla libertà , anche alle vendette come forma di rozza giustizia, dibattendosi nelle strette del carovita, della disoccupazione, dei redditi insufficienti. La risposta governativa fu una repressione armata in funzione anti-contadina ed anti-popolare. I contadini del Sud combatterono per anni, contro forze preponderanti, una lotta senza speranza, condannata all'insuccesso. Ma posti di fronte all'alternativa di vivere asserviti in ginocchio o di morire in piedi, scelsero la seconda.

Il libro del Molfese parte dalle prime ondate della guerriglia contadina sviluppatasi dall'autunno del 1860 a tutto l'inverno del 1861, quando agli spontanei movimenti contadini comincia a soprapporsi la reazione borbonico-clericale imprimendo loro un orientamento politico. Il brigantaggio consegue rapidi successi nel Beneventano, nel Molise, in Terra di Lavoro, negli Abruzzi. I moti contadini si intensificarono e si radicalizzarono successivamente in Calabria, Basilicata, Puglia.

Lo scioglimento dell'esercito meridionale garibaldino, con la conseguente frustrazione per le speranze deluse, infoltirono sia di uomini che di rivendicazione le bande brigantesche.

La fine del Regno borbonico delle Due Sicilie, con la resa finale di Gaeta, Messina, Civitella del Tronto e la fuga di Francesco II a Roma presso la corte pontificia, fu un altro elemento che si interseca con il brigantaggio. I Borboni in qualche modo tentarono di sfruttarlo ai fini di un improbabile tentativo di restaurazione del Regno di Napoli.

Intanto bande armate si andavano costituendo dappertutto, capitanate da valenti e coraggiosi capibanda. Il Molfese, nell'appendice terza del suo libro, pubblica un elenco delle bande brigantesche attive fra il 1861 e il 1870 e ne individua ben 388 (trecentottantaotto), dalle piccole, composte di pochi individui (5-15), fino alle grandi, che raggiunsero e superarono talvolta i 100 uomini, con punte fino a 300-400.

Fra le grandi bande, Molfese cita quelle di Giovanni Piccioni, Giacomo Giorgi, Berardo Stramenga nell'Abruzzo Teramano ed Aquilano; di Pasquale Mancini e Salvatore Scenna, Domenico Valerio [Cannone] e Policarpo Romagnoli, Giovanni Di Sciascio, Domenico Saraceni (Pizzolungo) nell'Abruzzo Chietino; di Domenico Coja (Centrillo), Luigi Alonzi (Chiavone), Cedrone, Capoccia, Alessandro Pace, Francesco ed Evangelista Guerra, Domenico Fuoco, Luigi Andreozzi, Tristany nella Terra di Lavoro, Sorano e Stato Pontificio; di Nunzio di Paolo, Giuseppe Schiavone nel Molise, Sannio e Beneventano; di Cipriano e Giona La Gala, Agostino Sacchitiello nell'Irpinia e Salernitano; di Carmine Donatelli (Crocco), Giuseppe Nicola Summa (Ninco-Nanco), Giovanni Fortunato (Coppa), Paolo Serravalle, Pasquale Cavalcante, Donato Tortora, Angelo Antonio Masini, Giuseppe Caruso in Basilicata; Michele Caruso, Angelo Maria Villani (lo Zambro) in Capitanata; Sergente Romano in Terra di Bari e Terra d'Otranto; Mittica in Calabria; Vincenzo Barone in Provincia di Napoli

Sproporzionato appare il numero di quasi 120.000 soldati impegnati dallo stato piemontese nell'opera di repressione, ma questo testimonia come il brigantaggio in quegli anni sia stato un fenomeno di massa, che andava ben al di là  dei briganti alla macchia. Questa forza imponente, che rappresentava quasi i due quinti dell'intero esercito italiano, non riusciva, però, a venire a capo della ostinata guerriglia contadina condotta da un numero infinitamente minore ed estremamente fluttuante di armati.

Nel dicembre 1862, dal parlamento torinese, venne istituita la Commissione Parlamentare d'Inchiesta sul Brigantaggio (CPIB), con l'obiettivo di indagare le cause del brigantaggio, studiare l'oggettiva situazione sul campo e proporre i mezzi per sconfiggerlo. Della Commissione facevano parte due parlamentari della sinistra democratica, un indipendente di sinistra, quattro moderati e governativi, due generali dell'esercito (ex garibaldini). Le Relazioni conclusive della Commissione d'inchiesta vennero presentate alla Camera dei deputati nel maggio 1863.

Il 15 agosto 1863 venne promulgata la legge Pica che dava ai tribunali militari la competenza a giudicare i briganti e i loro complici e comminava la fucilazione a chi avesse opposto resistenza a mano armata. Ebbe così inizio una legislazione eccezionale che durò fino al 31 dicembre 1865. Quanti furono i cosiddetti briganti fucilati o uccisi? Il numero preciso non lo si saprà mai, ma furono tantissimi. Molfese, dal secondo bimestre del 1861 e tutto il 1865, ne documenta 5.212. Ma vi è chi ha scritto che i guerriglieri caduti in combattimento in quel decennio furono 155.620 e i fucilati o morti in carcere 120.327. Un massacro. L'olocausto del Sud.




La Storia del Brigantaggio del Molfese è un libro che richiede grande fatica nella lettura; ma chi vuol capire cosa veramente è accaduto in Italia nel decennio 1860-1870, non può fare a meno di leggerlo. Sono riportati e sintetizzati i numerosi dibattiti che si tennero in quegli anni nel Parlamento italiano sulla questione del brigantaggio, sono spiegate le ragioni per le quali agli spontanei movimenti contadini andarono pian piano a sovrapporsi le ragioni dei borbonici e degli ambienti clericali, sono riportati dettagliatamente i moltissimi episodi della guerriglia contadina che i briganti combatterono in tutto il Sud.




L’’opera di Franco Molfese (Roma, 1916-+2001), Storia del brigantaggio dopo l’Unità, pubblicata a Milano nel 1964, è rimasta per più di mezzo secolo la migliore sintesi sul tema per ampiezza d’indagine e quantità di fonti d’ogni sorta esaminate (archivistiche, memorialistiche, cronache locali etc.), abilità nell’analisi della politica italiana di quegli anni.

A detta di questo autore, studioso marxista, il brigantaggio postunitario sarebbe stato fondamentalmente una manifestazione di lotta di classe dei contadini contro i proprietari terrieri e la borghesia in generale, sebbene una fazione del ceto dominante d’idee legittimistiche avrebbe cercato di controllare e sfruttare il fenomeno per una restaurazione borbonica.

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mercoledì 1 febbraio 2023

L'INIZIO, ALLA FINE DEL MONDO-Marco Revelli legge Ernesto de Martino

 

Spaesamento e nichilismo. I tratti di un'apocalisse culturale irreversibile divenuti modelli prescrittivi dell'agire sociale

- MARCO REVELLI - pubblicato da Il Manifesto, 20 nov 1999

 

Forse nessuno ha riflettuto, quanto Ernesto de Martino, intorno al concetto di "apocalisse culturale" su quel versante insieme teoretico e pratico che sta all'incrocio tra approccio filosofico-antropologico e approccio politico. Nessuno, dunque, ci è forse così utile come de Martino oggi, quando quello dell'"apocalisse culturale" è diventato un orizzonte consueto della nostra dimensione esistenziale: un tema con cui convivere o, se si preferisce, una dimensione che avvertiamo presente, come rischio (un "non-ancora" da temere), ma anche come presupposto (un "già-stato" che ci condiziona) della nostra "situazione".

Che cos'è - innanzitutto - un'"apocalisse culturale"?

Nella concettualizzazione demartiniana è, come recita appunto il titolo della sua ultima opera postuma, una "fine del mondo". Anzi: la "fine di un mondo"; lo sprofondare di un ordine (culturale, mentale, storico); l'esperienza devastante dello sradicamento radicale e della "perdita della presenza" come smarrimento del senso del "qui ed ora", come incapacità di essere "in situazione", di agire e non di essere agiti in un contesto culturalmente controllabile (dunque "domestico", consueto, storicamente agibile). E' dunque insieme una "catastrofe spaziale" (la perdita, fisica o mentale, di un "luogo" di riconoscimento e di "appaesamento", cui segue appunto uno spaesamento estremo, uno smarrimento tenebroso) e una "catastrofe temporale": la perdita, materiale o esistenziale, di un tempo aperto in cui operare e "trascendere le situazioni" dando un senso alla propria finitudine, ricostruendo "catene di senso" nel rapporto con un passato che continui a parlarci e un futuro che rimanga in qualche modo aperto e decidibile. L'apocalisse culturale è dunque, insieme, crisi ("crollo") della socialità e crisi ("chiusura") della storicità. E' fine dell'"essere con" e fine dell'"essere per". E' "perdere il mondo" (...); o, in alternativa ma anche in combinazione, "perdersi nel mondo": in un mondo che non è più il proprio, che non è più "riconoscibile", in cui nulla è più al proprio posto e il "reale" di ieri si è inabissato e perduto; o in uno spazio che "si è fatto buio" perché tutto ciò che era non è più. Un punto di caduta, dunque, che può essere definito "una vera e propria fine del mondo", ma che può costituire anche l'occasione di un nuovo inizio.

Posta in questi termini l'"apocalisse culturale" è una dimensione consueta dell'umanità, che ne ha accompagnato, nella sua oscillazione tra positività e negatività, i diversi momenti critici, le svolte e le scansioni. Costituisce una parte essenziale dell'elaborazione culturale e, all'interno di questa, dell'esperienza religiosa. E infatti ancora nella prima metà degli anni Sessanta, quando appunto furono stese la maggior parte delle note preparatorie a La fine del mondo, de Martino poteva classificarne almeno quattro diversi tipi, connotati in termini di maggiore o minore "positività", con gradi tra loro assai diversi di "utilità sociale", per così dire, di potenzialità reintegratrice e re-identificante: 1. la tradizione apocalittico-escatologica giudaico-cristiana; 2. le apocalissi escatologiche del terzo mondo; 3. l'apocalisse senza escaton (cioè senza promessa di riscatto) della cultura occidentale in crisi, e 4. le apocalissi psicopatologiche. Tra queste le prime due hanno un esplicito contenuto "salvifico" e reintegrativo.

L' apocalittica giudaico-cristiana implica "strutturalmente" l'idea di una riapertura del tempo e ricostruzione di uno spazio di reintegrazione della presenza e di riscatto dei mali mondani; in quella neo-testamentaria, addirittura, è presente il richiamo a un "già stato" apocalittico, a una caduta estrema (la passione e la morte del Cristo) che ha la funzione di confermare nella certezza del riscatto un "non ancora" certificato sacralmente; la perdita nel passato serve a presidiare un futuro atteso. Così come l'apocalittica escatologica del terzo mondo "lavora" a favore della storicizzazione dell'esistenza, del delicato passaggio dalla "natura" (passività assenza di decisione sul proprio destino) alla "cultura" (protagonismo, liberazione) individuando nella dissoluzione dell'ordine tradizionale la condizione diretta di una reintegrazione in una dimensione umana più compiuta. Non di una "de-umanizzazione" ma di una "ri-umanizzazione" del mondo.

D'altra parte la stessa apocalisse senza escaton dell'occidente, pur riconosciuta nella sua radicalità e nel suo carattere per così dire "definitivo", è tuttavia colta nella sua "storicità" e parzialità, come crisi dunque relativa, propria di una parte del mondo e di una specifica cultura (la cultura "borghese" quale storicamente si è data nella modernità compiuta), non come crisi della cultura tout court e del mondo in quanto tale. Essa appare, certo, nella diagnosi demartiniana, inappellabile e irrisolvibile: congiuntura culturale nella quale il tema della fine si colloca "al di fuori di qualsiasi orizzonte religioso di salvezza, e cioè come nuda e disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell'appaesato, del significante e dell'operabile, secondo un diabolico gusto di descrivere con meticolosa accuratezza il disfarsi del configurato, lo spaesarsi dell'appaesato, il perder senso del significante, l'inoperabilità dell'operabile". Ma ammette pur sempre che la reintegrazione possa essere immaginata in un qualche altrove (in altri segmenti culturali, da parte di altre classi sociali, in altri luoghi di uno spazio non ancora occupato totalitariamente). Resterebbe così solo l'ultimo tipo di apocalisse culturale - quella psicopatologica - a mantenere carattere di crollo integrale e irredimibile. (...)

Questo sembra dunque essere il nucleo forte della diagnostica antropologica di de Martino: il riconoscimento dell'apocalisse senza riscatto - e della deriva nichilistica ad essa connessa - come tratto "morboso" della congiuntura culturale contemporanea. Il suo carattere di "malattia" morale e mortale del tempo, su cui chinarsi per comprendere ma soprattutto per "curare". Com'è possibile che essa si sia trasformata, nel breve raggio di appena un trentennio, da "morbo" (individuale) in "norma" (sociale)? Che essa sia diventata da patologia che era, forma conclamata della salute? Da simbolo della crisi della presenza, simbolo opposto della "mondanità" (dell'essere "gente di mondo")? Perché è questo che accade oggi, in tempo di pensiero debole e di apologia della flessibilità assoluta: l'assunzione dello spaesamento e dello sradicamento, non solo come tratti dominanti dell'esperienza sociale, ma come modelli prescrittivi dell'agire sociale adeguato.

Un primo fattore quantomeno di spiegazione se non di "senso" potrebbe essere la "rivoluzione spaziale" che nell'ultimo trentennio ha rovesciato in forma "passiva" (nel senso gramsciano del termine) il nostro mondo. Quella che con termine ormai abusato e povero chiamiamo "globalizzazione". L'occidentalizzazione del mondo - come più propriamente la definisce Serge Latouche - ha lavorato (come apocalisse culturale essa stessa) sulla struttura delle "apocalissi culturali" in una duplice direzione. Da una parte essa ha "mondializzato" la crisi spirituale dell'Occidente; ha universalizzato l'apocalisse culturale senza escaton, senza promessa di riscatto e redenzione, di una parte del mondo, trasformandola in crisi universale.

Dall'altra parte ha cancellato, per mancanza di uno "spazio culturale autonomo" entro cui rappresentarsi, le diverse apocalissi escatologiche del terzo mondo: quelle apocalissi positive, per così dire, attraverso le quali la dissoluzione di un mondo poteva essere convertita in una più forte e autentica presenza nel mondo.

In quanto estensione su scala planetaria di un sistema culturale locale (l'Occidente, appunto, o meglio la sua sintesi semplificata americana) ha finito per assolutizzare la crisi culturale di quel segmento di umanità, per trasformarla in crisi di ogni mondo (storico) (...); in non trascendibilità dell'esistente; in pietrificazione e immobilità per assenza di un qualunque "altrove" in cui pensarsi diversi. Fattasi mondo, la crisi dell'Occidente ha sanzionato insieme alla propria "fine del mondo" (o all'idea di fine del proprio mondo) la fine di ogni altro mondo possibile ponendo la deriva nichilistica come statuto essenziale dell'intera umanità (...).

Un secondo fattore (ma non è che il risvolto del primo) può essere individuato nella parallela "rivoluzione temporale" che ha accompagnato la rivoluzione spaziale contemporanea risultandone una componente costitutiva: nella vertiginosa accelerazione del tempo sociale da cui è derivata, appunto, l'altrettanto vertiginosa compressione dello spazio sociale di riferimento, la riduzione spasmodica delle distanze (dei tempi di attraversamento dello spazio socialmente significativo). Ora, una delle condizioni fondamentali per sostenere una soluzione escatologica delle apocalissi culturali, per mantenere aperta una possibilità di re-integrazione nelle dinamiche dissolutive, era l'attribuzione di una qualche linearità e processualità della dimensione temporale.

La possibilità di trattare il tempo come un continuum lineare lungo il quale correlare un prima e un dopo, un già stato e un non ancora ritrovando, come si è visto, nel primo una qualche promessa o garanzia del secondo. Assicurandosi un qualche grado di apertura del tempo storico verso un altrove (celeste, prima, ma poi storico) in cui proiettare l'idea della reintegrazione. Solo così il tempo in cui si vive può mantenere, insieme, il carattere della domesticità (dell'"essere a casa", del consueto e del sicuro) e dell'operabilità (dell'essere "in situazione", della decidibilità e della trasformabilità). Condizioni, tutte, che cadono non appena il tempo si fa - come ora - puntiforme e istantaneo. Si riduce per eccesso di velocità e si chiude per mancanza di continuità. Allora esso perde il carattere della domesticità, si fa luogo dell'incertezza e dell'insicurezza, in cui nessuna radice può essere posta e nessuna direzione trovata (dunque nessuna decisione su se stessi men che occasionalistica e infondata può essere presa), terreno in cui ogni appaesamento si sgretola e svanisce per mancanza di sostanza esistenziale. E anche di ogni materia sociale in qualche misura "resistente". (...)

Ma allora se è così (...) è su questo terreno che occorre concentrare la terapia (individuale ma soprattutto pubblica, collettiva). E' sul terreno di una nuova antropologia reintegrativa del legame sociale - più che su quello di una politica sempre più implicata nella crisi di decidibilità strategica e nel delirio da spaesamento - che può essere trovato il bandolo della matassa che possa, ancora una volta, piegare la deriva della crisi verso una qualche direzione di riscatto e reintegrazione.

#SubalternStudiesItalia in collaborazione con #ArchivioStoricoIlManifesto




Marco Revelli