Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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lunedì 8 ottobre 2018

Intervista a Carol Ann Tomlinson, pedagogista e scrittrice americana


CONTRO LA SCUOLA “QUANTITATIVA” DEI TEST E DELLE MISURAZIONI

l’intervista all’autrice de The Differentiated classroom: Responding to the Needs of All Learners, 
testo non ancora tradotto in italiano, ma la cui lettura sarebbe vivamente consigliata agli esponenti ministeriali dell’antipedagogia nostrana, è a cura di Arianna Di Genova ed è apparsa su Il Manifesto del 5/10/2018.
«Ascoltiamo i ragazzi» è il titolo della sua relazione al simposio di Rimini. Come crede che una comunità di adulti possa seguire questa sollecitazione?
Nella mia esperienza di quasi cinquant’anni di insegnamento, ho potuto constatare che i giovani desiderano sempre un confronto con gli adulti purché li ritengano affidabili, interessati e solidali. Le nostre parole non passano mai inosservate. Bambini e adolescenti controllano come li salutiamo, come rispondiamo ai loro momenti positivi e negativi, se mostriamo fiducia o no. Quando trasmettiamo un senso di cura in modo chiaro e positivo, si mostrano disponibili a condividere con noi le loro storie. Così facendo, diventano i nostri insegnanti. Quando accade, oltre all’ascolto attento, è necessario riflettere sul significato di ciò che raccontano, elaborare quel che ascoltiamo in modo ponderato e, infine, agire sul messaggio che ci stanno consegnando. L’azione dovrebbe essere un supporto per la stima di quel particolare individuo.


Carol Ann Tomlinson

Lei ritiene che la scuola non debba essere solo una palestra per il lavoro futuro o un luogo dove sperimentare la competizione…
La competizione fa parte della vita, naturalmente, ma è preferibile che la scuola aiuti i giovani a diventare competenti e fiduciosi – sia accademicamente che personalmente. È fondamentale che ognuno di loro comprenda che è artefice del proprio destino, solo così sarà costruttivo e felice. Questo deve rimanere vero anche nei periodi più bui.
A cosa risponde, dunque, la sua idea di «educazione differenziata»?
È qualcosa che accade quando i dirigenti scolastici e insegnanti immaginano il loro lavoro come un ausilio nello sviluppo di tutti gli aspetti degli studenti, stimolando bambini e ragazzi a diventare «completi». Lavorando per assicurarsi che le esperienze in classe (e le altre opportunità) enfatizzino cose come trovare la propria voce, fissare gli obiettivi, prendersi cura gli uni degli altri, collaborare in modo efficace, riconsegnare il conflitto in modo proficuo, ascoltare e apprendere da varie prospettive, esprimere empatia, oltre a formarsi proprie idee e testare abilità. Gli studenti che imparano meglio sono quelli che vivono in forti comunità scolastiche.
Cosa manca principalmente alla scuola americana per poter rispondere meglio alle esigenze di una società in rapido cambiamento?
La società americana ha bisogno di capire quanto sia incredibilmente complesso il lavoro di un docente. A volte, è più facile incolpare che sostenere. Quando non si riesce ad apprezzare una risorsa essenziale come l’insegnamento, quel lavoro si traduce in una perdita, per la comunità tutta. Negli Stati Uniti ci siamo consacrati al sistema dei punteggi in test standardizzati. È qualcosa di de-professionalizzante per chi insegna e danneggia il senso di soddisfazione degli studenti, che invece dovrebbe essere il fulcro delle classi. Oltretutto, abbiamo ormai abbondanti prove che la ricerca dei voti con i test non porta nessun grande risultato.

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