La reazione di molti cittadini di Taranto alla visione del film “Marpiccolo” del regista Alessandro Di Robilant è un misto di sgomento e indignazione: ma come, noi siamo quelli là? Una reazione ingenua e nello stesso tempo riflesso condizionato di chi scambia un’opera artistica (quale è un film e il suo specifico linguaggio, il suo stile particolare) con un documentario turistico. Molti non verranno più a Taranto, la lamentazione, si sottolineano solo gli aspetti negativi, si occultano i positivi, e via di questo passo. Eppure, le riprese della camera cinematografica che fanno da sfondo alla storia di Tiziano (un eccellente Giulio Berenek, figlio di giostrai trapiantati a Taranto, al suo esordio in un ruolo in cui gli si chiedeva di recitare in buona parte se stesso) sono un atto d’amore. Le alte ciminiere dell’Ilva che eruttano i veleni che ammorbano un’aria altrimenti limpida e baciata costantemente da un sole grande, instancabile, un mare azzurro e meraviglioso che restituisce la carcassa di una pecora ammazzata dalla diossina dello stabilimento siderurgico (la scena iniziale) vogliono restituire un’immagine di città violentata, stuprata, cinicamente devastata nelle forme e nell’intimo, anche nella dignità dei suoi abitanti. E la lotta delle mamme del Paolo VI per impedire l’installazione di un’antenna per telefonia cellulare davanti a plessi scolastici frequentati dai loro bambini, è il grido di disperazione di cui è comunque capace un corpo sano che rifiuta la malattia, frutto di una patologia più grande, quella sociale. L’atto d’amore va di pari passo con l’atto d’accusa: lo sviluppo malato produce organizzazione criminale, violenza diffusa, emarginazione nei quartieri popolari, prepotenza, odio che si incanala in comportamenti devianti piuttosto che in consapevole ribellione allo Stato e alle sue istituzioni (in questo senso, il gesto più dignitoso e liberatorio è quello della mamma di Tiziano all’autorità giunta a “sedare gli animi” minacciando ritorsioni violente alla pacifica manifestazione). Il padre del protagonista non è figura marginale, semmai altamente simbolica: il male sociale è un lavoro che non c’è e uccide l’anima (la perdita al gioco come psicologica coazione a ripetere) e quando c’è uccide o mutila il corpo: il lavoro come ricatto lo impone l’Ilva così come la delinquenza organizzata.
Anche in terra jonica, dunque, c’è un pezzo della Gomorra raccontata da Saviano e dal film di Garrone: ma se lì la condanna sociale non vede (ed è un limite) possibilità di riscatto, qui la fuga in moto dei nostri due figli verso altre città, altre terre, è la voglia di un possibile riscatto, se solo i nostri territori sfigurati e la nostra popolazione ferita si lanciassero anche loro verso una prospettiva diversa, altra rispetto al presente, riappropriandosi di un destino che li appartiene.
giovedì 19 novembre 2009
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