Rocco e i
suoi fratelli, ragazzi del Sud d’oggi
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di OSCAR IARUSSI __ su GdM, 9
agosto 2013
«Venga il mattino per i giovani del 1953 / e sulle bocche arse rispunti il sorriso». L’anno potrebbe benissimo essere questo 2013 e i versi non perderebbero di forza, di ostinata speranza per la gioventù del Sud che continua a sognare riscatti, risvegliandosi puntualmente delusa e amareggiata. Rocco Scotellaro muore di infarto il 15 dicembre 1953, trentenne, a Portici (Napoli). A Matera nel magnifico museo di palazzo Lanfranchi lo «si ritrova» ritratto nel grande dipinto Lucania 61 di Carlo Levi, che ne restituisce il vigore e la luce, l’aspetto arcaico e una paradossale modernità postuma. «Rosso di capelli», come lo ricorda l’ex compagno di collegio potentino Giovannino Russo, oltre che di fede politica. A Portici si era trasferito tre anni prima per collaborare con l’Osservatorio di economia agraria diretto da Manlio Rossi-Doria, concependo lì l’ambiziosa ricerca antropologica Contadini del Sud, che, in stadio embrionale, sarebbe apparsa nei «Libri del Tempo» di Vito Laterza nel 1954. Portici fu un «esilio» dalla politica, donde in seguito si sarebbe allontanato lo stesso Rossi-Doria, l’autore del cruciale discorso su «la polpa e l’osso» nell’agricoltura meridionale come opportunità di rinascita nazionale, riferendosi alle zone fertili costiere e a quelle interne da soccorrere. Ex comunista e poi senatore socialista, Rossi-Doria prese a definire «pidocchi» i politici del Sud. Scotellaro, nato a Tricarico (Matera) nel 1923, votò tutte le sue energie ai contadini lucani in un momento storico decisivo: la guerra, la liberazione, le lotte per la riforma agraria, e, non da ultimo, la pubblicazione di Cristo s’è fermato a Eboli di Carlo Levi (1945). Pagine folgoranti per il giovane Rocco, figlio di un calzolaio e di una sarta-scrivana, Francesca Armento, anche lei ritratta in Lucania 61. Un secolare silenzio s’infrangeva e il Cristo del medico torinese che era stato confinato dal fascismo in Basilicata offriva voce a un mondo obliterato da tutti. Ciò avveniva, tragicamente, quando quel mondo era ormai prossimo a finire: una nuova massiccia ondata emigratoria dettata dalla fame l’avrebbe presto spopolato e talora desertificato. E l’omologazione «televisiva» ne avrebbe edulcorato i costumi in un innocuo folklore e quindi fagocitato lo spirito (ieri e oggi si celebrano in molti Comuni del Mezzogiorno le giornate dell’emigrante). «Lungo il perire dei tempi / l’alba è nuova, è nuova». L’orizzonte crepuscolare iscrive l’opera di Scotellaro come un oscuro presagio, cui però egli si ribella. Iscritto dal 1943 al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nel 1946 fu eletto sindaco di Tricarico e nel 1950 una disavventura giudiziaria gli costò quaranta giorni di carcere a Matera, prima che fosse riconosciuto estraneo all’episodio di concussione, e, anzi, vittima di «una vendetta politica» secondo l’atto di proscioglimento. Nei quattro anni da amministratore, il «sindaco discolo» o «Pelo rosso» - come lo chiamavano alla Rabata, l’ancestrale quartiere tricaricese - si spese per migliorare in concreto le condizioni di vita del paese e ispirò la sua azione a criteri che oggi verrebbero ascritti alla «cittadinanza attiva»:
«Abitudine alla collaborazione;
apprendimento della vita: i nostri maestri sono i contadini; la ribellione e
il perdono; la pace e il lavoro».
Colpisce l’inserimento del
«perdono » nell’agenda politica locale, un tema alto della riflessione
filosofica europea (Hannah Arendt) ben oltre l’amnistia togliattiana
riservata a quanti s’erano compromessi col fascismo.
Contemporaneamente, Rocco Scotellaro scriveva. Poesie, racconti, interventi, memoriali, sceneggiature, l’abbozzo del romanzo autobiografico il cui titolo avrebbe eternato una metafora di generosa incompiutezza, L’uva puttanella (Laterza, 1956). La sua breve, febbrile stagione politica e letteraria è per intero compresa nell’Italia ibernata nelle certezze ideologiche della «guerra fredda». La critica marxista di Alicata e compagni lo contrastò per gli stessi motivi che in seguito avrebbero spinto lo storico delle tradizioni popolari Giovanni Battista Bronzini ad apparentare Scotellaro a Kafka: «C’è in comune l’assunzione, sul proprio non-essere, di tutto il negativo della civiltà».
Ma già a metà anni Cinquanta
Eugenio Montale riconobbe in lui un originale impasto di «popolare» e
«internazionale», prossimo d’idee ad Alvaro o Pavese. Invero, soprattutto a
Pier Paolo Pasolini. Le prime liriche pasoliniane furono pubblicate nel 1946
sulle colonne de «La strada», la rivista di Antonio Russi che scoprì anche
Scotellaro.
Sull’orlo del «Dopostoria» che l’intellettuale lucano non fece in tempo a saggiare, Pasolini non lo riconobbe tra i fratelli - «Quella dello Scotellaro è una prosetta leggera capricciosa e divertita» -, tranne poi cercare nelle terre argillose di Rocco l’empatia con il mondo di ieri di cui era orfano per girare Il vangelo secondo Matteo (1964). Pasolini fu il cantore – lucido nella nostalgia – del traumatico inurbamento di massa, laddove in Scotellaro è ricorrente l’invettiva , la resistenza a una migrazione che dal Sud s’annunciava emorragica, quattro milioni di meridionali nei vent’anni dal 1950 al ’70. Sono passati sessant’anni dalla morte e novanta dalla nascita di Rocco e presto sarà il cinquantenario del Vangelo pasoliniano. Matera e la Basilicata li ricorderanno sicuramente con varie iniziative e sarà bene che nulla di nostalgico o di elegiaco vi risuoni. D’altronde, è appena stata pubblicata una versione a fumetti di Uno si distrae al bivio. La crudele scalmana di Rocco Scotellaro di Giuseppe Palumbo (Lavieri ed.). I versi del giovane Rocco sono echi di una rapsodia prossima a estinguersi eppure orgogliosa della propria identità terragna. «Spiriti pellegrini della notte», essi non prendono la parola, la rubano. Ben oltre il «santino proletario» cui s’è costretta l’immagine di Scotellaro, sarebbe importante riconoscergli un tormento, un’indecisione, un’utopia nel passo doppio della sua vita fra politica e scrittura, la prima amarissima fino all’onta del carcere subito per le calunnie sulla condotta di pubblico amministratore, la seconda celebrata solamente post-mortem. Per non parlare dei dilemmi in amore, che trovano eco nelle liriche struggenti dedicategli da Amelia Rosselli. Questa lacerante «debolezza» è in realtà una forza in grado di proiettare Rocco fino a noi: polifonico nella scrittura, a caccia dei talenti, cioè delle voci del suo mondo, perché parimenti a caccia del proprio talento, di un’America interiore, di un’anelata lontananza non meno cogente dell’appartenenza meridionale. Condannato dalla fine prematura a essere fratello minore o figlio adottivo delle generazioni di Levi e Rossi-Doria, così Rocco potrebbe oggi divenire un fratello maggiore di chi va scoprendo che la polpa è l’osso, ovvero che la ricchezza sta nel riuso, in una nuova sobrietà, nelle prassi comunitarie e fantasiose contro la crisi. «Non siamo acini maturi, ma piccoli in un grappolo di uva puttanella». La lotta per la sopravvivenza, per la salvezza, per il domani è oggi più dura che ieri per Rocco e i suoi fratelli (come il celebre film di Visconti), cioè i ragazzi del 2013: «siamo entrati in giuoco anche noi / con i panni e le scarpe e le facce che avevamo» . |
sabato 10 agosto 2013
Lo Scotellaro di Iarussi (Gazzetta del Mezzogiorno)
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