Continua il feroce attacco anche di questo governo, agli insegnanti e alla scuola pubblica: dopo l'estorsione del non pagamento delle ferie non godute, ecco il rimborso degli scatti con meccanismo retroattivo. Bisogna fermarli con tutti i mezzi. Ecco la riflessione di Aragno sul 'Il Manifesto' di oggi.
Fonte: Il Manifesto | Autore: Giuseppe Aragno
Insegnare il mondo senza capirlo
E’un tiro al piccione e non è questione di colore politico. Come si parla di scuola e di insegnanti, tutti hanno un colpo da sparare, anche chi a scuola ci vive. Persino in una riflessione sensata ti puoi imbattere in un attacco generico e superficiale. La scuola, sostiene Giuseppe Montesano, scrittore e docente, «deve dire […]chi è Platone, non può non dirlo, e non solo perché sta scritto nel misero programma ministeriale, ma perché è il suo unico compito, la sua unica chance, deve spiegare la geografia astronomica, i terremoti, i pianeti, le cose elementari e importanti della cultura. Però si tratta di un punto di partenza, quando invece è considerato il punto di arrivo, diventando così una stupida gabbia, e non un grimaldello per aprire la gabbia. Questo non succede solo perché molti insegnanti sono pigri, ripetitivi, figli di questa società e quindi uguali agli alunni, ma anche perché gli alunni adolescenti hanno sì una grande potenzialità, che gli insegnanti, adulti, in genere non hanno più, ma questa energia spesso non sanno nemmeno di averla e non sanno che possono usarla per sapere e capire il mondo: tutto gli insegna, dalla scuola alla famiglia alla società, che il mondo devono solo accettarlo senza capirlo».
Gli insegnanti sono figli di questa società, scrive Montesano. E’ proprio così o si tratta di una banale generalizzazione? Si insegna per quaranta anni; in servizio ci sono, quindi, docenti nati negli anni Cinquanta, che si sono formati quando la repubblica era giovanissima: anni Sessanta-Settanta. C’è chi è nato invece quando altri docenti completavano gli studi o iniziavano la carriera e ha cominciato a insegnare negli anni Novanta. L’Italia era profondamente cambiata. E c’è anche una terza generazione, i più giovani, quelli entrati da pochissimi anni. Anche qui le differenze sono enormi e non sono figli di società uguali tra loro. Se poi società sta per epoca della storia e indica in senso lato un mondo, un «tempo» con le sue caratteristiche generali e la sua cultura, beh, questo è accaduto e accadrà sempre e nessuno potrà evitarlo, ma le differenza esistono ugualmente.
Gli storici del Novecento non hanno interpretato i fatti della storia tutti allo stesso modo e nessuno si azzarderebbe a sostenere che gli artisti, diventati «adulti», perdono la creatività. Non si capisce perché, invece, i docenti peggiorano con gli anni e lavorano tutti allo stesso modo. Si tratta di un’affermazione che non è solo generica e superficiale, ma decisamente deformante, perché induce a riflettere su uno stereotipo di docente, un insegnante che non esiste, non sui docenti in carne ed ossa. Stesso discorso per la scuola, che, secondo Montesano, insegnerebbe ad accettare il mondo senza capirlo. E’ un’affermazione molto parzialmente vera e somiglia maledettamente a un luogo comune. Che la scuola sia figlia di un «tempo della storia» è vero. Vero è anche, però, che in una società chiusa e repressiva come quella russa della seconda metà dell’Ottocento, quando una riforma di carattere democratico aprì le porte della formazione a tutti, anche ai figli dei contadini, i docenti «progressisti» tirarono su la generazione di rivoluzionari che scardinò l’impero.
Nel Sud borbonico, dopo il 1848, le scuole private libere, come quella di De Sanctis, furono tutte chiuse: erano una minaccia per l’ordine costituito e la formazione fu affidata al clero. Per non dire dell’Italia risorgimentale, che non fu mai larga di maniche con la scuola — troppo alfabeto fa male alla salute — ma si ritrovò coi maestri socialisti che facevano guerra all’analfabetismo nonostante gli stipendi da fame.
Non c’è dubbio, la scuola è figlia di un tempo storico, ma davvero è pensabile che quotidianamente tutti gli insegnanti si mettano all’opera per convincere gli studenti che il mondo migliore è quello che hanno e devono accettarlo? E’ credibile che essi vadano a scuola per fare dei nostri ragazzi degli utili idioti, rassegnati, imbottiti di nozioni e incapaci di capire? Tutti gli insegnanti, in tutte le nostre scuole? Le cose non stanno così. Ogni scuola, in realtà, è una sorta di repubblica a sé, una collettività con caratteri distinti, con insegnanti pigri, insegnanti attivi, lavoratori solerti, menti aperte e gente chiusa e ottusa. All’interno di ognuna delle nostre istituzioni scolastiche ci sono manipoli di docenti che hanno un’idea emancipatrice della formazione. Bisogna stare attenti alle semplificazioni. Esse hanno una valenza divulgativa, un impatto molto condizionante e spesso sono dannose. Generalizzare vuol dire cogliere i caratteri generali e perdere quelli particolari. I dettagli, però, non sempre sono dati secondari e spesso sono decisivi per disegnare un profilo. Quando si dice totalitarismo, per esempio, si riesce a mettere agevolmente assieme fascismo, nazismo e bolscevismo. Chiunque si metta a guardar bene, però, si accorge che è un imbroglio. Tre dittature, certo, ma l’Italia fascista non è la Germania nazista e soprattutto nazismo, fascismo e bolscevismo sono tre pianeti lontani e profondamente diversi tra loro.
E’ vero, un insegnante deve dire chi era Platone, ma è vero anche che non può farlo senza passare per Socrate, senza indurre cioè a rifiutare un mondo che non si è capito.
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