infatti si parlava di populismo in riferimento a realtà politiche marginali dell’America Latina o dell’Africa, in un modo che lasciasse intendere che fosse una prerogativa delle società premoderne o comunque poco evolute». Questo brano è tratto dal saggio di Manuel Anselmi, che si legge in apertura del bel libro scritto a sei mani da Stefano Anastasia, Manuel Anselmi e Daniela Falcinelli, Populismo penale: una prospettiva italiana (Cedam). Negli ultimi decenni del secolo scorso, su scala globale quasi tutti i Paesi, anche quelli meno sospettabili di derive autoritarie, sono stati attraversati da questo virus contagioso e mortale. Scrive Anastasia a conclusione del suo saggio e a chiusura dell’intero volume: «Nello sgretolamento del modello sociale protettivo, che era stato del welfare europeo della seconda metà del Novecento, il linguaggio della colpa e della pena, le istituzioni penitenziarie e quelle del controllo sociale coattivo sono tornate in auge a compensare il disorientamento della civiltà post-moderna e la fragilità delle sue istituzioni».
Il libro mette in ordine tutti i grandi campi semantici e tutte le complicazioni teoriche che il populismo porta con sé. Non da nulla per scontato e parte dalla questione politica complessa del
populismo, come viene giustamente definita, per giungere, attraverso una disamina concettuale
degli aspetti generali del populismo penale, a raccontare la deriva emozionale ed etica del diritto
penale, i rischi connessi in termini di riduzione degli spazi di welfare e la compressione dei diritti di
coloro che sfortunatamente incrociano la macchina infernale della giustizia criminale. Massimo
Pavarini, di recente scomparso, in modo plastico raffigurava quello che era il populismo penale: se
tutte le persone incarcerate in giro per il mondo si tenessero per mano riuscirebbero a circondare il
pianeta all’altezza dell’equatore. «Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità» scriveva
Montesquieu «è tirannica». Nel libro di Stefano Anastasia, Manuel Anselmi e Daniela Falcinelli, con attenzione profonda ai cambiamenti di piano, viene elaborata una mappa concettuale e storica del populismo, come teoria e strategia politica, all’interno della quale viene identificato lo spazio del populismo penale.
diversi ma che rimandano allo stesso campo semantico) trova terreno fertile. «Sotto la coltre del
conflitto politica-giustizia – scrive Anastasia nel saggio conclusivo del volume – messo in scena ai
piani alti del sistema istituzionale, si consumava quindi uno spostamento di fuoco delle politiche
penali e di sicurezza verso il controllo e la repressione della marginalità sociale». Si pensi alle leggi
su droga, immigrazione e recidiva che sono universalmente note con i nomi dei proponenti: Fini,
Giovanardi, Bossi, ancora Fini, Cirielli.
legge significa volerne capitalizzare i frutti. «Il diritto penale è diritto simbolico per eccellenza»
(sempre Anastasia), anche quando decide di non intervenire e lasciare impunite talune pratiche.
L’assenza del crimine di tortura nel codice penale italiano, nonostante gli obblighi di natura
costituzionale (articolo 13), è da leggersi come una lacuna evidentemente voluta e simbolica. Tale
assenza è il simbolo dei limiti imposti al potere punitivo dello Stato che non deve dirigersi contro
i custodi della sovranità e della sicurezza. Lo Stato sovrano moribondo ha bisogno di quel residuo di sovranità che il diritto penale gli concede.
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