Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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mercoledì 8 giugno 2016

Dubito dunque sono: la scienza anarchica di Paul Feyerabend


Libertà, tolleranza, dialettica nell'eredità del grande epistemologo

Riccardo Paradisi
 
La filosofia ama i paradossi e coltiva il dubbio. La fa anche la scienza quando è buona scienza. E come una filosofia che si presume definitiva scade a ideologia e smette di essere ricerca filosofica così una scienza che pretende l'ultima parola sulla verità cessa di essere scienza e scade a scientismo. Paul Feyerabend è stato un filosofo della scienza che più di altri ha portato avanti il discorso contro la pretesa autoritativa della scienza che ha finito col diventare la religione, il dogma del nostro tempo di cui nessuno ha osato mettere in discussione i fondamenti stabiliti, nemmeno i pensatori più spregiudicati ed eversivi. «Kropotkin voleva infrangere tutte le istituzioni esistenti – ricorda Feyerabend nell'ultimo capitolo di Contro il metodo - ma non toccò la scienza. Ibsen si spinse molto avanti nello smascheramento delle condizioni dell'umanità del suo tempo, ma conservò ancora la scienza come misura della verità. Evans-Pritchard, Lévi-Strauss e altri hanno riconosciuto che il "pensiero occidentale", lungi dall'essere un picco solitario dello sviluppo umano, è turbato da problemi che non si riscontrano in altre ideologie: ma escludono la scienza dalla loro relativizzazione di ogni forma di pensiero. Anche per loro la scienza è una struttura neutrale contenente una conoscenza positiva che è indipendente dalla cultura, dall'ideologia e dal pregiudizio».
Invece per Feyerabend la scienza come tutte le altre conoscenze, è una narrazione, un'opinione. Contro il metodo e più ancora La scienza in una società libera – di cui quest'anno ricorre il trentacinquesimo anniversario – sono saggi con cui Feyerabend ha dato scandalo nella comunità filosofica e scientifica ma hanno allenato una generazione di pensatori e di lettori a praticare il dubbio anche là dove sembravano doverci essere solo certezze acquisite. Fayerabend, per dire, non si ferma nemmeno di fronte alla vicenda di Galileo.
Il Galileo rivoluzionario, dice, è quello che guarda nel cannocchiale e scopre le nebulose mandando in soffitta la teoria deduttiva di Aristotele sulla differenza qualitativa tra corpi celesti e corpi terrestri. Ma il Galileo che di fronte al tribunale dell'Inquisizione si rifiuta di definire le sue scoperte scientifiche come ipotesi, insistendo sul loro statuto di certezze è per Feyerabend il Galileo dogmatico che ha smesso di coltivare il metodo del dubbio e che, processato dall'inquisizione, sta gettando i presupposti teorici per nuove inquisizioni anche se di segno scientista.
Feyarabend è un provocatore naturale, politicamente scorrettissimo: arriva ad affermare in buona sostanza che ad essere in difetto scientifico non è l'inquisitore che chiede a Galileo di rubricare a ipotesi le sue teorie ma Galileo che insiste nel volerle definire delle certezze. Del resto Galileo non fu affatto guidato nelle sue scoperte da un rigore metodologico inconfutabile: il passaggio dalla teoria tolemaica a quella copernicana, dimostra che lo scienziato pisano non rispettò nessun principio su cui si fonda la scienza moderna. Nemmeno il principio del falsificazionismo - cioè l'idea che la teoria tolemaica sia stata abbandonata perché smentita dai fatti - venne rispettato da Galileo, perché la teoria copernicana non spiegava il moto dei pianeti meglio della teoria tolemaica e perché non esisteva ancora una teoria ottica che dimostrasse l'attendibilità delle osservazioni fatte al cannocchiale.
A parte il "caso Galileo" Feyerabend attacca il principale caposaldo della concezione empirista della scienza, quello della supposta omogeneità di significato dei termini che utilizzano le diverse teorie. In realtà, fa notare l'epistemologo austriaco, i termini del linguaggio scientifico non sono ricavati direttamente dall'esperienza ma attingono il loro significato dalle teorie di cui fanno parte. Insomma tra chi fa l'esperienza e l'esperienza stessa si frappone sempre la soggettività dello sperimentatore, il suo know-how, da questo discende che non esiste un metodo che possa chiamarsi universale, valido ovunque e per tutti.
Di ogni metodo è dunque opportuno dubitare, dubitare sistematicamente. Il miglior metodo scientifico, dice con un paradosso Feyerabend è proprio quello che passa per l'abolizione di ogni metodo, al limite potendo valere un metodo dialettico-comparativistico, lo scontro cioè fra diversi e contrapposti punti di vista teorici. Al vaglio di questa critica del metodo il sapere scientifico ne esce spogliato di ogni pretesa di possedere una superiorità intrinseca rispetto ad altre forme di conoscenza, come ad esempio quella artistica o quella mitica, le quali nel campo della coesione sociale o della elargizione di senso esistenziale, funzionano molto meglio della presunta conoscenza scientifica. Ma Feyerabend va oltre e ancora in Contro il metodo (sottotitolo: "Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza") arriva a sostenere che la scienza è molto più vicina al mito di quanto comunemente si creda e di quanto in particolare credano gli scienziati.
La scienza è solo una forma di pensiero, di immaginazione tra le altre che sono state elaborate nel corso della storia umana, credere nella sua superiorità è una posizione ideologica, un atto di fede. Al vaglio del dubbio metodologico di Feyerabend infatti nessuna teoria scientifica resiste al criterio della verità che semplicemente non può darsi se non per convenzione. Piuttosto, dice l'epistemologo, il rischio è che la fede nella scienza, lo scientismo, diventi in Occidente quello che la religione è divenuta in molte parti del mondo islamico, un dogma costringente una verità di stato. La scienza, infatti non solo è la più recente istituzione religiosa, diffusa ormai a livello mondiale; ma è anche la più dogmatica e la più aggressiva fra quante ve ne sono oggi. «Esiste una separazione tra Stato e chiesa ma non esiste una separazione tra stato e scienza. Eppure la scienza non ha un'autorità maggiore di quanta ne abbia una qualsiasi altra forma di vita. I suoi obiettivi non sono certamente più importanti delle finalità che guidano la vita in una comunità religiosa o in una tribù unita da un mito. Ad ogni modo non è compito loro limitare la vita, il pensiero, l'educazione dei membri di una società libera, dove chiunque dovrebbe avere una possibilità di pensare quel che gli pare e di vivere in accordo con le convinzioni sociali che trova più accettabili. La separazione fra stato e chiesa dovrebbe essere perciò integrata dalla separazione fra stato e scienza».
Il discorso di Feyerabend è tutt'altro che rassicurante per la mentalità ordinata e ordinaria, è piuttosto una provocazione, un invito a lasciare il porto sicuro delle idee stabilite per navigare in «un oceano, sempre crescente, di alternative reciprocamente incompatibili», in nome di un anarchismo epistemologico il cui scopo è dimostrare che «la scienza non è l'unica via per acquisire la conoscenza, che ci sono alternative e che le alternative possono riuscire laddove la scienza ha fallito». Alternative come le concezioni irrazionali del mondo, il caos, gli stessi errori della scienza che aiutano questa a progredire: «la scienza è molto più "trascurata" e "irrazionale" della sua immagine metodologica e lo strumento di critica migliore è lo sviluppo di alternative». I critici di Feyarabend hanno contestato al filosofo austriaco di essere "un anarchico ingenuo", di limitarsi cioè nella sua critica alla pars destruens del suo obiettivo polemico, arrestandosi alla semplice destrutturazione del metodo. Ma il discorso di Feyerabend è tutt'altro che ingenuo: il filosofo di Contro il metodo mira a uno scopo eminentemente pratico e costruttivo: la sua raccomandazione è di non fare della teoria scientifica un'idea oggettiva, autoritativa e universale ma di tenere in considerazione le condizioni che si presentano volta per volta. «Le regole metodologiche devono essere adattate alle circostanze e reinventate sempre di nuovo. Ciò aumenta la libertà, la dignità e la speranza di successo». Insomma il metodo deve risultare semplicemente utile, come la zattera che serve ad attraversare il guado ma che poi, giunti alla riva opposta, non ci si carica indebitamente sulle spalle, perché altre saranno le sfide che ci opporrà la natura, a cui l'intelligenza dovrà rispondere nel merito contingente e specifico.
A Fayerabend, detto ancora altrimenti, interessa far capire che metodi e criteri sono utili, necessari e "veri" a seconda della circostanza in cui ci si trova immersi. «I criteri che usiamo e le regole che raccomandiamo – si legge ne La scienza in una società libera - hanno un solo senso solo se il mondo ha una certa struttura, mentre in ambiti dotati di una struttura diversa rimangono inapplicabili o funzionano a vuoto». In Dialogo sul metodo, saggio nato da una raccolta di appunti appunti scritti tra il 1979 e il 1989: il bersaglio polemico è l'ordine metodologico inaugurato dalla svolta cartesiana del Cogito ergo sum. La critica di questi scritti è particolarmente acuminata e arriva a cogliere la sottile questione della stessa percezione del fenomeno osservato nell'esperimento scientifico. La percezione, annota Feyerabend, è sempre subordinata ad una valutazione già culturale, a una precomprensione del mondo cioè che per essere tale è valida solo per un gruppo di uomini che la condividono. Lo stesso Io umano, sostiene il filosofo, non è mai stabile certezza dell'essere, come Cartesio credeva di aver scoperto deducendone la verità dal suo Cogito ergo sum. Dello stesso Io, dice Fyerabend, che varia in continuazione, è impossibile cogliere infatti il sostrato essenziale, fissarlo una volta per sempre.
Il tentativo di Feyerabend è quello di formulare una metodologia di indagine antimetodologica, che abbia dunque come motore anziché il cogito ergo sum cartesiano il dubito ergo sum. «Non c'è alcuna opinione, per quanto "assurda" o "immorale" che egli (il vero scienziato ndr) si rifiuti di prendere in considerazione o in conformità con la quale si rifiuti di agire, e nessun metodo è considerato indispensabile». La conoscenza così concepita «non è una serie di teorie in sé coerenti che convergono verso una concezione ideale, non è un approccio ideale, non è un approccio graduale alla verità: è piuttosto un oceano, sempre crescente, di alternative reciprocamente incompatibili». Leggere, rileggere Feyerabend – che ha lasciato questo mondo nel 1994 – è molto utile per chi come noi vive in un mondo sempre più percorso da neofondamentalismi: religiosi, scientisti, ideologici, persino relativisti. Feyerabend abitua a individuare il dogmatismo ovunque si annidi, a smascherarne le retoriche, a smontare i suoi presupposti; educa alla libertà e alla tolleranza ma anche alla dialettica; è un antidoto contro il potere, a cominciare dal potere che detengono le idee e soprattutto le idee dominanti. È un allenamento a diffidare anche delle proprie idee sedimentate a essere così spregiudicati da non ritenere mai superfluo un altro punto di vista, qualunque esso sia; a ritenere infine possibile che lo stato barbarico in cui l'umanità si trova ancora non sia esso stesso acquisito come un dogma, un dato definitivo.
Cosa possiamo fare in un periodo come il nostro che non ha ancora raggiunto l'equilibrio e un minimo di giustizia? si domanda Feyerabend nella sua strana e in certi passi struggente autobiografia Ammazzando il tempo. «Che possiamo fare con i nostri criminali, i loro giudici e giustizieri, quando i filosofi, i poeti, i profeti che provano a costringerci nei loro schemi, e quando noi stessi, collaboratori, vittime, o semplici spettatori, siamo ancora in uno stato barbarico? La risposta è ovvia: con poche eccezioni noi agiremo in modo barbarico, puniremo, uccideremo, opporremo guerra a guerra, professori a studenti, "leader intellettuali" al pubblico e ognuno di essi contro l'altro, parleremo di trasgressioni in termini morali altisonanti e domanderemo che violazioni della legge vengano proibite con la forza».
Ma mentre continuiamo le nostre vite in questa maniera «dovremmo almeno provare a dare una possibilità ai nostri figli. Dovremmo offrire loro amore e sicurezza, non principi, e in nessuna circostanza dovremmo gravarli del peso dei crimini del passato».
 
saggio pubblicato su Il dubbio, 8 giugno 2016
 
 

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