martedì 11 ottobre 2016
IL "MERCATO" IN FABBRICA È MERCATO DI VITE OPERAIE
Domenica 9 ottobre celebrata in Italia la Giornata delle vittime sul lavoro
un intervento di Giancarlo Girardi, della federazione del PCI di Taranto
La crescente solitudine dei lavoratori, sempre più ingranaggi del "mercato". Precari oggi, nella dignità, nella salute, nella vita.
L’indifferenza diffusa ancora a Taranto e nella società italiana, la formalità delle Istituzioni nell’affrontare tale drammatica emergenza, la debolezza e l'incapacità di chi deve difendere sul campo i lavoratori, le lungaggini procedurali per rendere giustizia ai familiari delle vittime, il continuo rischio delle prescrizioni per i colpevoli nei tribunali. In questo anno la morte di un altro giovane operaio in Ilva, lo scorso anno un giovane operaio martinese, accanto a loro il ricordo e l’impegno anche verso le tante morti professionali ed ambientali per una fabbrica ed il territorio della nostra città, accomunate in una comune tragedia. “Lavoro è vita, dignità dell’uomo e della sua famiglia, giusta remunerazione” ha ribadito il 12 giugno l’arcivescovo di Taranto nella funzione religiosa a Martina Franca. Gli ultimi eventi tragici nonostante la crisi che da anni rallenta le produzioni. “Io so perché è avvenuto…lo so perché ci sono stato!”, qunti potrebbero dire ciò. Vale per Taranto ma anche per le altre realtà industriali a prescindere dagli sviluppi della vicenda che ci riguarda, perché si continuerà inesorabilmente a morire. Dopo venti, trenta e più anni trascorsi in fabbrica, all’ombra degli alto-forni e delle acciaierie, a contatto con quei problemi e quei rischi, molti di noi potrebbe fare ancora qualcosa. Siamo la città che ha il primato nazionale di prepensionati siderurgici, il reddito cittadino più consistente oggi viene da loro…abbiamo il dovere di esserci ancora. Di affermare, come tanti anni fa, un concetto ed una pratica tanto elementare quanto vera: se si fosse affermato sui luoghi di lavoro, lì dove si crea la grande “questione ambientale”, il diritto alla vita ed alla salute dei lavoratori si sarebbe risolto anche quella di tutti i cittadini che vivono addossati alla fabbrica. Sappiamo che niente è stato mai concesso ma sempre conquistato, il cuore del problema resta, ieri come oggi, l’organizzazione del lavoro, l’articolazione del potere nella fabbrica, la regola con cui si realizza il modo di lavorare, i tempi, la qualità e le quantità delle produzioni., i costi dei prodotti, la loro consegna. Sono queste le questioni che non si trattano più, da troppo tempo sono prerogative delle proprietà, vengono imposte sempre più unilateralmente.La multinazionale che acquisterà tale fabbrica non risolverà alcun problema. I lavoratori vivono in crescente solitudine il momento di operare e di scegliere di rischiare. Per questa ragione si muore allo stesso modo in Cina, India e nella “civile” Italia, perché mercato globale e concorrenza regolano tutto al livello più basso nel modo di lavorare e nei costi dei prodotti. In molti di questi “moderni impianti produttivi” la sicurezza non significa ancora più manutenzione reale ed efficacia degli impianti, fermata e sostituzioni di interi settori delle produzioni, interventi radicali. Molte aziende concepiscono in modo sempre più flessibile il sistema di produrre tralasciando di rendere sicure parti obsolete ma ancora funzionanti e necessarie in attesa che sia il mercato, la convenienza, a deciderne le dismissioni. Investire sulla sicurezza è divenuta così sempre più, nella maggioranza dei casi una semplice enunciazione, comunque un peso economico, il rispetto dei tempi e dei costi un’ossessione. Il lavoratore viene velatamente considerato, in tali situazioni, uno sprovveduto, mentre diviene anch’egli espressione di una logica della produzione del “costi quel che costi”. E’ la cultura aziendale indotta oggi, di cui si è impregnata la coscienza e la volontà dei nostri ragazzi che rende queste fabbriche, oramai tutte multinazionali, sempre più somiglianti ad una grande catena di montaggio in cui il lavoratore, oggi più che mai,rappresenta solo un pezzo dell’ingranaggio generale. Per di più s’insinua sistematicamente il sospetto della affidabilità individuale e della incapacità professionale, dello scaricare le responsabilità di chi nei fatti organizza e decide. Troppo facile! Perciò ognuno di noi in coscienza, perché c’è passato, deve sentire dolore e deve considerare come propri figli questi ragazzi. Sentire di avere un debito generazionale da pagare, una coscienza sporca sempre più difficile da lavare. Si parla di un’emergenza anche culturale, è vero, ma è quella dei diritti che vanno riconquistati prima ancora che difesi, dall’applicazione efficace delle leggi esistenti, dal rigore e dall’efficacia delle sanzioni penali. Oggi la classe operaia, vecchia e sempre attuale definizione del mondo del lavoro, ma di essa si tratta, è praticamente sola con le sue difficoltà sindacali, con il continuo ed antico ricatto occupazionale, non ha oggi alcuna rappresentanza politica. Si è precari,oggi, nella dignità nella salute e nella vita, anche nelle più grandi fabbriche italiane ed al riparo, apparente, di un contratto a tempo indeterminato, un esercito di “invisibili”, sempre più vulnerabile.I nostri ragazzi sono lì soli perché così noi li abbiamo lasciati e.. trascurati! Altro che egoismi generazionali il nostro è stato semplicemente un colpevole disimpegno. Dobbiamo recuperare, assolutamente, quel rapporto interrotto e solo in questo modo si darà loro la possibilità di emanciparsi, di liberarsi e liberarci da quei problemi drammatici. Occorre ricominciare, rimettersi in discussione….tutti.
Giancarlo Girardi, Taranto, 11/10/2016
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