da Il Manifesto edizione del 4 ottobre 2015
Colpisce in primo luogo il riferimento all’attenzione che il gruppo dirigente comunista e Ingrao in particolare sempre riservarono alla costruzione di strutture sindacali, politiche e culturali adeguate alle forme di vita che via via venivano affermandosi nell’esperienza della classe operaia e dei ceti subalterni. Si trattava dell’idea gramsciana del radicamento del partito nella vita reale del «soggetto». Ed era, forse più semplicemente, il riflesso della consapevolezza della necessità di trarre dal contatto diretto col mondo del lavoro gli elementi essenziali della lettura critica della società e, di qui, le direttrici della battaglia per l’emancipazione e la trasformazione.
Non è un passaggio trascurabile. Spesso e non senza unilateralità si parla di Ingrao come del dirigente comunista più attento alla fecondità dei movimenti e più interessato al dialogo con le forme emergenti della soggettività. E altrettanto spesso lo si ricorda come l’uomo del dubbio, insofferente al conformismo e alla disciplina imposta — non sempre per buoni motivi — nei partiti comunisti plasmati dall’esperienza della Terza Internazionale e della guerra antifascista. Una disciplina che Ingrao contrastava non in linea di principio, per assunti precostituiti. Ma perché vi ravvisava un pericolo di ripiegamento su sterili certezze, una clausola avversa alla ricerca fuori dagli schemi, all’ascolto spregiudicato della realtà. Nonché una modalità incompatibile con la libertà dei soggetti: al punto di scorgere proprio in quella rigidità ideologica e nella cifra autoritaria delle organizzazioni due tra le principali cause della sconfitta storica del movimento comunista nel secondo dopoguerra.
Quel che spesso tuttavia si dimentica è che quell’apertura e quella curiosità si coniugavano con la cura per la comunità del partito e con la coscienza della sua funzione indispensabile nell’elaborazione del soggetto e nella costruzione del conflitto di classe. Un’attitudine che si pone letteralmente agli antipodi dell’ideologia del partito leggero nel cui nome, dalla seconda metà degli anni Ottanta, si provvide a smantellare la struttura articolata del Pci, a sradicarlo dai territori e dalle maglie della relazione sociale, ad avviarne la trasformazione in partito d’opinione prima, in campo di concorrenza tra leader a fini elettorali poi e, finalmente, in uno strumento di comando politico scalabile dai più agguerriti portavoce dei poteri forti. Stavano a cuore a Ingrao l’apertura al confronto come la pratica del dubbio e la ricchezza della ricerca concreta. Ma non gli premevano di meno la saldezza dell’organizzazione come trama viva di relazioni umane, la sua compattezza e persino la salvaguardia delle sue ritualità tramandate e condivise nel corso del tempo.
Questo abito fu una delle ragioni della sua radicale estraneità alla metamorfosi imposta al Pci e poi alla sua liquidazione. Sulla scelta di Ingrao di «restare comunque nel gorgo» non si smetterà di discutere. Si trattò di una decisione pesante che molto influenzò le sorti del nascente movimento della rifondazione comunista e della sinistra di alternativa tutta nel lungo periodo. Ma quel dato di fatto, l’appartenenza culturale e antropologica alla storia delle grandi organizzazioni di massa del movimento comunista, resta. E getta sulla sua figura una luce forse, in qualche misura, tragica, se è vero che la decisione di stare nel Pds ne alimentò un non risolto travaglio.
C’è un secondo passaggio nell’orazione di Reichlin che merita un breve commento. A proposito della mondializzazione neoliberista egli ricorda come la sinistra italiana ne sia stata «travolta». Si trattò di una cesura epocale, che forse per questo Reichlin definisce «materia ormai degli storici». In effetti, così sulla profondità del mutamento, come su quel travolgimento non sussistono dubbi. Epperò ciò non può voler dire che il giudizio su quei processi e appunto su quel venirne travolti — quale che sia la lettura che si ritenga di darne — non sia anche squisitamente politico. Quindi urgente, qui e ora, per le responsabilità che coinvolge, rivela e pone in evidenza.
Ad ogni buon conto proprio su quel passaggio storico Ingrao insistette con forza a più riprese, invocando una revisione profonda dei quadri analitici ma al tempo stesso ribadendo l’esigenza di rilanciare la lotta per l’alternativa. La consapevolezza della portata della svolta conservatrice e della necessità di riaprire una ricerca lo indusse a respingere la proposta di restare alla presidenza della Camera alla fine degli anni Settanta, mentre già si avviava lo sfondamento neoliberista. E mai egli ebbe tentennamenti — questo oggi va ricordato, senza rifugiarsi in formule elusive o ecumeniche — nel valutare dove stessero le ragioni della modernità e del progresso, dove quelle della reazione e della violenza.
Questo è un nodo al quale a nessuno è concesso di sfuggire. Che va discusso senza reticenze. La vicenda dei gruppi dirigenti post-comunisti dagli anni Ottanta a oggi non si comprende senza riconoscere limpidamente che il giudizio da essi formulato sulla mondializzazione neoliberista fu clamorosamente sbagliato. E che esso non ha soltanto portato alla mutazione genetica delle maggiori organizzazioni politiche nate dallo smantellamento del Pci — al loro sradicamento dal terreno delle lotte del lavoro — ma ha anche, per ciò stesso, contribuito a stabilizzare l’egemonia della destra e a segnare, nella storia del paese, gravi regressi sul terreno delle conquiste sociali e delle garanzie democratiche. E del resto lo stesso Reichlin pare riconoscerlo là dove pensosamente ammette che chi ha diretto le forze maggiori della sinistra italiana non ha saputo custodire la storia del movimento operaio e di quella sinistra comunista di cui Ingrao è stato una delle guide più autorevoli e amate.
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