lunedì 7 novembre 2016
La caduta dell'URSS e le sfide della transizione socialista
a 99 anni dalla rivoluzione dell'ottobre sovietico, una riflessione marxista sulle cause della dissoluzione dell'URSS. Secondo Catone, direttore della rivista MARX XXI, bisogna rilanciare una lotta ideale che riproponga i temi della trasformazione sociale che, nel solco dei classici e soprattutto di Gramsci, sappia analizzare la "transizione" al socialismo e opporsi al falso universalismo dell'ideologia capitalista. (fe.d.)
di Andrea Catone
Intervento al Forum “La Via Cinese e il contesto internazionale”, Roma. 15 ottobre 2016
Uno dei temi del VII Forum del socialismo mondiale, organizzato a Pechino dalla CASS, riguarda – anche in vista del prossimo centenario della rivoluzione d’Ottobre – è l’analisi delle cause della dissoluzione dell’Urss.
Da alcuni anni questa questione è studiata in Cina con particolare attenzione alle lezioni che si possono trarre per il ruolo dirigente del partito comunista cinese. L’amara esperienza sovietica dimostra che il potere socialista conquistato con la rivoluzione può essere rovesciato anche dopo molti decenni, e anche quando le vecchie classi sfruttatrici sono state eliminate. Per di più, non è stato rovesciato dall’intervento militare diretto delle potenze imperialiste, ma è caduto dall’interno. Un generale russo disse: abbiamo perso la guerra fredda senza sparare un colpo.
Nel 2011, a 20 anni dalla fine dell’Urss, organizzati dalla CASS, si sono tenuti importanti convegni su questo tema di studiosi cinesi e russi, i cui atti sono stati pubblicati anche in russo (e che come edizioni MarxVentuno pubblicheremo nel 2017).
Tra le diverse e articolate analisi, la tesi che appare prevalente si può riassumere così:
La fine dell’Urss è dovuta al concatenarsi e confluire di molteplici fattori:
- accentuata pressione dell’imperialismo Usa-Nato, che costringe l’Urss a investire grandi risorse nella corsa agli armamenti;
- azione sovversiva del soft power dell’Occidente;
- rallentamento nella crescita economica e nell’applicazione di nuove tecnologie;
- strozzature nella distribuzione dei beni di consumo e nel meccanismo della pianificazione;
- acuirsi del separatismo nazionalistico antisovietico e antirusso.
Ma il fattore politico-ideologico è stato determinante. Come prova a contrario, a Cuba, che ha certo una base economica più debole di quella sovietica e subisce la fortissima pressione dell’imperialismo USA, il partito comunista si mantiene al potere.
Si pone però la questione: È corretto sostenere dal punto di vista dell’analisi marxista che nella controrivoluzione in Urss e nei paesi socialisti europei il fattore principale è stato politico-ideologico? Non si attribuisce così un peso eccessivo alla sovrastruttura invece che alla struttura?
Bisogna qui fare una precisazione sulla rivoluzione socialista.
Il socialismo non si instaura per decreto nello spazio di una notte, ma richiede un lungo e complesso processo di transizione, che può impegnare diverse generazioni, in cui lottano vecchio e nuovo e si costruisce la nuova società. Ciò richiede anche la formazione di una nuova cultura e una nuova civiltà, la formazione di un nuovo tipo umano, istruito ed educato alla gestione collettiva dei mezzi di produzione e alla direzione dello stato (Lenin diceva: nel socialismo anche la cuoca deve poter dirigere lo stato). In Europa occorsero diversi secoli perché si passasse dalla società feudale alla società borghese. Non si può pensare che la transizione dalla società borghese alla società socialista possa realizzarsi in un breve lasso di tempo, all’indomani della conquista del potere politico.
Quando analizziamo i processi interni ad una società di transizione dal capitalismo al socialismo, non possiamo trasporre meccanicamente nell’analisi la stessa impostazione del rapporto struttura/sovrastruttura che vediamo operare nella transizione dal feudalesimo al capitalismo. Vi sono alcune differenze fondamentali tra le due transizioni:
La classe borghese europea nasce nella società feudale e si afferma nel corso di un lungo processo come classe economicamente dirigente, dinamica, aggressiva. La rivoluzione borghese “classica” (Inghilterra 1640, Francia 1789) deve adeguare la sovrastruttura politica – che era lo stato assolutistico – ai nuovi rapporti di produzione borghesi.
Il proletariato, invece, non è assolutamente e non potrà mai essere nella società borghese la classe economicamente egemone, tantomeno nei paesi capitalisticamente arretrati o semicoloniali come erano la Russia e la Cina dei primi anni del ventesimo secolo. Solo con la conquista del potere politico il proletariato avvia la lunga transizione al socialismo. La conquista del potere politico è una premessa, un presupposto perché si avvii la trasformazione socialista, è l’inizio e non la conclusione del percorso.
La proprietà sociale richiede un governo e una regolamentazione politica della stessa, richiede istituti politici che la governino e la rendano effettivamente sociale nella direzione e gestione collettiva. Lo stesso vale per la pianificazione, che sottrae la produzione all’anarchia e spontaneità e la regolamenta in funzione della soddisfazione dei bisogni crescenti della società.
Se la transizione al socialismo può realizzarsi solo attraverso il controllo e la direzione dello stato da parte del proletariato (diversamente dalla transizione borghese, che maturò economicamente all’interno dello stato feudale-assolutistico), ciò implica che la direzione e l’organizzazione politica, la sua qualità, correttezza, accortezza, sapienza, assumono un ruolo fondamentale nella transizione dal capitalismo al socialismo. Dalla direzione politica dipende il destino della transizione al socialismo, del suo progredire e consolidarsi, oppure arrestarsi o rovesciarsi in una società dominata da rapporti capitalistici.
L’amara esperienza delle controrivoluzioni del 1989-91 dimostra che la vittoria della rivoluzione non è irreversibile e che anche un potere che sembra stabile e consolidato può essere facilmente rovesciato.
Le rivoluzioni proletarie del XX secolo si sono svolte in un contesto mondiale in cui l’imperialismo è rimasto dominante e continua ad essere aggressivo ed estremamente pericoloso. Nelle società di transizione al socialismo si svolge la lotta di classe, che coinvolge forze interne e internazionali. Le classi sfruttatrici scacciate dal potere e rovesciate, anche se numericamente ridotte o addirittura eliminate all’interno del paese dove la rivoluzione ha vinto, hanno il sostegno dell’imperialismo internazionale. Ciò non va mai dimenticato. (Del resto, anche la classica rivoluzione francese del 1789 conobbe chiaramente questo fenomeno: l’aristocrazia assolutistica di tutta Europa intervenne apertamente contro la rivoluzione).
La lotta di classe internazionale e interna si svolge su diversi terreni: mentre l’intervento militare esterno è immediatamente riconoscibile (negli anni ’50 o ’60 contro la Corea o il Vietnam, ad esempio) il ricorso al soft power lo è meno, è mascherato ed è più insidioso. Si vedano le rivoluzioni colorate.
Poiché la lotta per il socialismo non è un percorso spontaneo, naturale, ma richiede un’organizzazione cosciente, la lotta di classe sul terreno ideologico assume un’importanza fondamentale. Per questo i grandi maestri marxisti, da Marx ed Engels a Lenin, da Gramsci a Mao, hanno condotto una lotta incessante contro il revisionismo, contro la deviazione empiristica, contro il dogmatismo. Per questo Gramsci dedicò enormi energie alla battaglia sul terreno delle ideologie e della cultura e si pose con chiarezza l’obiettivo di dotare il proletariato di una propria visione del mondo autonoma dall’ideologia borghese.
Ed è qui la responsabilità storica dei dirigenti comunisti.
Stalin diceva che, una volta individuata la linea, i quadri decidono tutto. Il partito comunista non può basarsi su quadri che siano solo esecutori di direttive dall’alto. La disciplina è necessaria, come in ogni esercito in guerra, ma è necessaria al contempo piena consapevolezza e capacità di elaborazione autonoma, di comprendere correttamente il movimento della società, soprattutto perché la transizione implica una continua trasformazione sociale.
La vitalità o la sclerosi di un partito comunista – soprattutto quando è al potere – dipendono dalla partecipazione attiva e consapevole dei suoi quadri e di tutti i militanti. Il che significa che occorre dedicare energie e lavoro alla formazione culturale e ideologica. I comunisti non possono permettersi l’ignoranza. Nella lotta epocale intrapresa contro l’imperialismo e per creare l’ordine nuovo socialista hanno bisogno di tutta l’intelligenza, responsabilità, coraggio, spirito del collettivo.
Nella transizione al socialismo, soprattutto se essa si attua in paesi come Russia e Cina, che devono compiere contemporaneamente il passaggio dall’arretratezza alla modernità e sviluppare le forze produttive, la direzione culturale e ideologica è essenziale. Se, per sviluppare le forze produttive e uscire dall’arretratezza, è necessario importare sistemi e metodi industriali dell’Occidente capitalistico, bisogna evitare, però, di importare o scimmiottare acriticamente i modelli culturali occidentali: qui la lotta ideologica, il ricorso alle armi critiche del marxismo è fondamentale. È necessario che i lavoratori, le masse popolari si dotino di una propria autonoma visione del mondo innestando i valori socialisti sulla propria storia e cultura nazionale. Ciò è particolarmente importante per la formazione delle nuove generazioni, che non hanno vissuto i tempi eroici della lotta rivoluzionaria o quelli della prima fase di costruzione di un’economia socialista.
Costruire insomma un’autonoma cultura e civiltà per la transizione al socialismo, capace di innestare la critica marxista nella storia peculiare del proprio paese, rigettando il falso universalismo dell’ideologia neoliberista, è una delle sfide più importanti per la leadership cinese.
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