Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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giovedì 12 luglio 2018

SOVRANISMO-SUPREMATISMO e la destra del “politicamente corretto “


L’igiene linguistica del “politicamente corretto” non prevede che tra i valori della sinistra vi possa essere il “sovranismo”, termine con cui la destra occulta o cerca di mistificare il nazionalismo razzista xenofobo parte integrante della propria tradizione. Si confonde “sovranismo” con “suprematismo” (‘prima gli italiani’). Peccato per quell’art.1 della nostra Costituzione che recita: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.“. Ancora una volta la destra si appropria di termini e linguaggio nati dai valori e dal grembo della sinistra popolare, quella, per intenderci, tipizzante il secondo dopoguerra italiano o le forme attuali di molte delle esperienze contemporanee della sinistra latinoamericana. L’accusa è pesante: quella di “rossobrunismo”, che ricorda l’ideologia nazista, che, sarebbe bene ricordarlo, è nata scippando, per diventare popolare, il termine allora amato da grandi masse, il socialismo. Se non vogliamo utilizzare quel termine, “sovranismo”, per indicare la necessità di rilegittimazione del ruolo degli Stati nazionali contro le oligarchie sovranazionali che concorrono all’egemonia imperialista, almeno demistifichiamo il suo uso strumentale da parte delle destre e del “politicamente corretto”. (fe.d.).

Crediamo utile la lettura di questo estratto da Francesco Valerio Dalla Croce, Che cos’è per noi la sovranità, in Rete dei Comunisti, http://www.retedeicomunisti.org/index.php/interventi/2073-cos-e-per-noi-la-sovranita


Sulla contrapposizione tra sovranità nazionale e popolare

Spesso, nel dibattito sulla sovranità si ritrovano argomenti e posizioni che pongano in contraddizione la rivendicazione della sovranità nazionale e quella popolare. La ragione di una tale distinta considerazione di questi due piani risiede nella contestazione della entità “nazione” od anche di quella “Stato” (anche perchè esse, a causa dell’abbandono di determinate categoria da parte della sinistra ed anche dei comunisti, rischiano di divenire monopolio del discorso pubblico della destra o di populismo vari). Le parole citate sopra dovrebbero aiutare a sgomberare il campo da interpretazioni più hegeliane che marxiste di questi termini (salvo non considerare Marx, Engels e Lenin rossobruni ante litteram). Ma una siffatta contrapposizione dovrebbe venire meno alla sola lettura della nostra Costituzione: la Carta, legge fondamentale dello Stato, così recita all’art. 1:

“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.“

Essa contiene la compresenza tanto dell’efficacia del potere dello Stato, innervato dal dettato della Costituzione che dispiega i suoi effetti entro i confini dello Stato nazionale, quanto l’esplicito fondamento popolare della sovranità. Il connubio tra queste dimensioni giustifica la definizione di “regime nuovo”, utilizzata da Palmiro Togliatti per definire il prodotto dell’incontro e del compromesso tra le forze popolari e antifasciste all’indomani della caduta del fascismo. Sono da respingere semplificazioni – che Lenin definirebbe “scolastiche” – di taluni sedicenti marxisti che rimuovono l’analisi delle forme di espressione del potere, anche nelle forme borghesi, bollandole – da mnemonici scolaretti – come mere “sovrastrutture”. Chi lo facesse, non solo si troverebbe in contrasto con le lezioni dei propri maestri, ma si troverebbero, più o meno consapevolmente, al capezzale di uno dei capi dei liberali italiani, Benedetto Croce, che etichettò lo Stato nuovo sorto dopo il secondo conflitto mondiale come un mero heri dicebamus rispetto all’assetto dell’Italia liberale precedente all’avvento del fascismo.

E del resto, la lotta per la difesa degli interessi nazionali, dopo il tradimento operato dal fascismo, da chi fu fatta propria nel secondo dopoguerra se non dal Partito Comunista Italiano guidato dal Migliore? In un rapporto ai quadri del PCI dal titolo eloquente (“La nostra politica nazionale”) dell’11 aprile del 1944, Togliatti testualmente afferma:

“Noi siamo il partito della classe operaia e non rinneghiamo, non rinnegheremo mai, questa nostra qualità. Ma, la classe operaia non è stata mai estranea agli interessi della nazione. Guardate al passato, ricordatevi come agli inizi del Risorgimento nazionale, quando esistevano soltanto piccoli gruppi di operai distaccati gli uni dagli altri e ancora privi di una profonda coscienza di classe e di una ricca esperienza politica, questi gruppi dettero i combattenti più eroici per le lotte di masse, che si svolsero nelle città e nelle campagne, per liberare il paese dal predominio straniero.

Operai e artigiani furono il nerbo dei combattenti delle Cinque giornate di Milano. Furono gli operai, insieme coi migliori rappresentanti dell’intellettualità, l’anima della resistenza degli ultimi baluardi della libertà italiana nell’anno successivo. Operai e artigiani troviamo nelle legioni di Garibaldi; li troviamo dappertutto dove ci si batte e si muore per la libertà e per l’indipendenza del paese. (…)La bandiera degli interessi nazionali, che il fascismo ha trascinato nel fango e tradito, noi la raccogliamo e la facciamo nostra; liquidando per sempre la ideologia da criminali del fascismo e i suoi piani funesti di brigantaggio imperialista, tagliando tutte le radici della tirannide mussoliniana noi daremo alla vita della nazione un contenuto nuovo, che corrisponda ai bisogni, agli interessi, alle aspirazioni delle masse del popolo.

Quando noi difendiamo gli interessi della nazione, quando ci mettiamo alla testa del combattimento per la liberazione d’Italia dall’invasione tedesca, noi siamo nella linea delle vere e grandi tradizioni del movimento proletario.

Siamo nella linea della dottrina e delle tradizioni di Marx e di Engels, i quali mai rinnegarono gli interessi della loro nazione, sempre li difesero, tanto contro l’aggressore e invasore straniero, quanto contro i gruppi reazionari che li calpestavano.

Siamo nella linea del grande Lenin, il quale affermava di sentire in sé l’orgoglio del russo, rivendicava al proprio partito di continuare tutte le tradizioni del pensiero liberale e democratico russo e fu il fondatore di quello Stato sovietico, che ha dato ai popoli della Russia una nuova, più elevata coscienza nazionale.

Noi siamo nella linea del compagno Dimitrov, il quale a Lipsia, davanti ai giudici fascisti, rivendicò con una fierezza che destò l’ammirazione di tutto il mondo la propria qualità di figlio del popolo bulgaro; rivendicò a sé le tradizioni e si presentò come il continuatore di tutte le lotte del popolo bulgaro contro i suoi oppressori.

Noi siamo nella linea del pensiero e dell’azione di Stalin, di quest’uomo il quale ha saputo sulla base delle conquiste della grande Rivoluzione socialista di Ottobre, sulla base delle realizzazioni di più di venti anni di edificazione socialista, realizzare l’unità di tutto il popolo, di tutte le nazioni che sono nel territorio dell’Unione Sovietica nella lotta sacra contro l’invasore, e per schiacciare definitivamente l’hitlerismo e il fascismo. Noi siamo sulla via che ci hanno tracciato questi nostri grandi maestri.”

Con queste parole, citate in estratto per esigenze di brevità da un rapporto che meriterebbe integrale riproduzione e rilettura, Togliatti: (1) pone il PCI nel solco della vicenda nazionale del Paese, ponendo radici nella storia e sul terreno nazionale (si vedano ancora le parole di Losurdo in apertura di questo testo); (2) attribuisce paternità al marxismo della questione della difesa degli interessi nazionali, nel solco della lezione di Marx ed Engels e del concreto operare del movimento comunista e degli Stati socialisti del suo tempo, in nome di una vocazione generale delle rivendicazioni della classe operaia; (3) infine, pone la classe operaia in Italia nella sua funzione dirigente generale del Paese, nel solco della più pura lezione di Lenin.

Insomma, nel PCI del secondo dopoguerra guidato da Togliatti, la centralità e la problematicità della questione nazionale, dell’indipendenza e sovranità del Paese sono assolutamente presenti e costanti, tanto nella elaborazione teorica, quanto nelle scelte politiche contingenti, che schierarono il PCI – ad esempio – contro la partecipazione dell’Italia alla NATO e ai primi trattati internazionali prototipi di integrazione europea.

Il valore della Costituzione e dell’operare dei comunisti nell’ambito nazionale determinato sono chiaramente presenti nell’analisi e nelle scelte dei comunisti che costruirono le fondamenta dello Stato democratico.

Da più parti, specie in un contesto storico in cui diviene sempre più aspro il conflitto tra il vincolo interno costituzionale e vincoli esterni imposti dai trattati europei, si evoca la parola d’ordine della sovranità costituzionale. Essa potrebbe essere un parola d’ordine opportuna, capace di superare la contrapposizione tra sovranità nazionale e popolare, e capace di portare su questo livello rivendicativo e di consapevolezza politica settori democratici rilevanti. Settori che, in particolare, hanno dimostrato la loro vitalità in occasione del referendum costituzionale del dicembre 2016.

La sovranità o patriottismo costituzionale, se intesi quali sinonimi della supremazia della Costituzione nazionale sulle regole UE, nel quadro di uno Stato permeabile alle istanze della classe lavoratrice, che trova il suo fondamento però in una Carta costituzionale assolutamente avanzata nella definizione del ruolo preponderante dello Stato nella regolamentazione della vita sociale ed economica del Paese (art. 3) e nel pieno riconoscimento di molteplici forme di proprietà (pubblica, privata e cooperativa) e limitazioni in capo a quella privata (artt. 41 e seguenti), possono divenire le parole d’ordine unitarie per una lotta per la sovranità del Paese, contro questo processo di integrazione europea, su basi avanzate, popolari e nel solco di una prospettiva strategica più generale per i comunisti.

Fare nostra la parola d’ordine della sovranità del Paese nel quadro di un mondo multipolare

Per quanto sopra esposto, ci sono valide motivazioni per fare propria dei comunisti in Italia, ancora più esplicitamente, la parola d’ordine della sovranità dello Stato. Da respingere e combattere, però, sono le false promesse dei “gattopardi”, coloro i quali, nascosti dietro la bandiera della sovranità, del “no euro”, ecc. mirano a conservare un sistema generale di sfruttamento del lavoro, in cui a fronte di aguzzini diversi, permangano i medesimi sfruttati: i lavoratori. Batterci per la sovranità del Paese significa, per i comunisti, battersi anche per un’Europa della cooperazione tra popoli e Stati, dall’Atlantico agli Urali (per usare le parole di Togliatti), rispettosa delle Costituzioni e dei diritti dei popoli, libera dal giogo della NATO. Sul piano mondiale, significa liberarsi da un atlantismo che, in una fase di declino inedita, mostra anche tutta la sua recrudescenza imperialista, in favore di un multipolarismo segnato dall’operato degli Stati socialisti (dai più importanti come la Cina, all’operato intelligente e tatticamente incisivo di più piccoli, come la Corea del Nord) e delle forze socialiste, che liberino il mondo dall’egemonia unipolare americana e riaprano la prospettiva della transizione del mondo verso scenari inediti e che, nel 1989, probabilmente apparivano addirittura insperabili.

Le note qui riprodotte si guardano bene dall’avere alcuna pretesa risolutiva di un dibattito che, anzi, è ora di affrontare e portare in profondità. Esse hanno solo un modesto fine chiarificatore, volto a inserire la questione della sovranità del Paese in un contesto di obiettivi strategici per i comunisti, da perseguire nel nostro tempo. Questa consapevolezza è pienamente presente nella stragrande maggioranza dei partiti che costituiscono oggi il movimento comunista internazionale. Un movimento internazionale che deve rafforzare la sua unità, nel nome dell’internazionalismo proletario, della sua storia gloriosa e della sua concreta incidenza nei processi politici del nostro tempo.

È importante, anzi, indispensabile che i comunisti italiani, che si trovano oggi ad operare in un contesto inedito, compiano un salto di qualità nella loro elaborazione e quindi, prioritariamente, nella loro discussione. È questo, dopotutto, il fine difficile ma essenziale del I Congresso del PCI.


F.V. Dalla Croce è segretario naz. della FGCI






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