Ferdinando Dubla - Francesco Morello, PERDERSI PER
SALVARSI. NELLA STORIA / soggettivazione ed ‘escatologia’ dei subalterni in
Walter Benjamin ed Ernesto De Martino (parte 2)
http://ferdinandodubla.blogspot.com/2025/02/perdersi-per-salvarsi-nella-storia.html
Storicismo/antistoricismo
e la dialettica della storia
Se si pone la lotta di
classe come motrice della storia, i marxisti non possono non dirsi storicisti.
Il materialismo di Marx è storico in quanto levatrice della storia è la
trasformazione rivoluzionaria in senso e prospettiva storica. La storia si pone
come ponte tra la natura e la cultura. E la natura è sia quella esterna
dell’ambiente, sia quella interna dell’essere umano, non riducibile ad un’unica
ratio pre-figurata.
Dunque tutto ciò che è
nella natura, è nella storia. E la cultura, prodotta dagli esseri umani,
diventa parte integrante della loro storia.
Ma se per storicismo
intendiamo l’idea della storia, e non la dialettica rivoluzionaria nel
conflitto delle classi, oppressi/oppressori, subalterni e dominanti, esso si
configura allora come l’”astuzia della ragione” hegeliana, come filosofia
presupposta alla storia, come disegno vichiano provvidenziale, che razionalizza
l’imponderabile; che pensa i concetti di ‘progresso’, ‘regresso’, ‘civiltà’ o
‘barbarie’, ‘sviluppo’ e ‘sottosviluppo’, secondo una linea del tempo
inesorabile che determina il fluire degli eventi; allora i marxisti non possono
non dirsi antistoricisti. Perchè le braghe del pensiero idealista non si
calzano alla storia. La dialettica tra natura e cultura è nella storia. Dunque,
o lo ‘storicismo’ è dialettico, oppure non è.
Comparazioni
triangolari
* Lo storicismo autodefinito ‘assoluto’ di Antonio Gramsci è un umanesimo integrale, una filosofia della prassi storica. L’antistoricismo di Benjamin è lo sguardo della storia all’essere umano che trascende se stesso. Lo storicismo antropologico di Ernesto de Martino è il riscatto collettivo della presenza tra natura e cultura, è umanesimo etnografico, è etnocentrismo critico. In tutti è presente la dialettica della storia. / Convergenze parallele nel ‘riscatto-redenzione-escatòn‘. Un marxismo critico dialettico nel nome della storia.
Storia
e redenzione nelle Tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin
Francesco Morello
Una certa tradizione
critica ritiene indiscernibile la sfera della storia, in cui si svolge la lotta
politica dei gruppi subalterni, dall’idea di redenzione e dalla dimensione
dell’eschaton. Per citare solo i nomi più noti, basti pensare a Ernst Bloch,
Jacob Taubes, Giorgio Agamben. D’altro canto, una linea più sotterranea,
trasversale e ancora da esplorare resta quella dell’antropologo Ernesto De
Martino che, con il suo concetto di “ethos del trascendimento” coniugato alla
ricerca sulla cultura dei gruppi subalterni, offre spunti inediti alla
riflessione su questo tema[1].
Uno dei testi fondanti
di questa tradizione sono le Tesi sul Concetto di Storia di Walter Benjamin.
Testo arduo, a tratti impervio, ma dall’indubbio fascino stilistico, questo
scritto in forma di diciotto brevi tesi assume un significato tragico alla luce
del contesto in cui è stato scritto e ritrovato. Si tratta di pochi fogli
ritrovati nella valigetta che Benjamin portava con sé quando, in fuga dalla
Francia ormai occupata dai nazisti, si tolse la vita a Portbou, in Catalogna,
il 26 settembre 1940, disperando di riuscire a sfuggire alle guardie franchiste
per salpare alla volta degli Stati Uniti. L’amara ironia della storia volle che
alcuni dei suoi amici e collaboratori intellettuali, tra cui Theodor Adorno,
Hannah Arendt e Bertold Brecht, riusciranno in seguito a raggiungere indenni la
loro destinazione d’oltreoceano.
In queste tesi Benjamin
offre una concezione della storia e della rivoluzione estremamente originale,
in grado di stimolare ancora oggi prospettive critiche e posture di lotta che
scuotono molte delle rassicuranti certezze del pensiero progressista. Vi
troviamo il caratteristico e “scandaloso” intreccio di materialismo storico e
messianismo ebraico che rappresenta la cifra della sua filosofia politica.
Alla definizione del
rapporto tra i due elementi, Benjamin dedica la prima, suggestiva tesi:
E’
noto che sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni
mossa di un giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la
vittoria. Un manichino vestito da turco, con un narghilè in bocca, sedeva
davanti alla scacchiera, posta su un ampio tavolo. Con un sistema di specchi
veniva data l'illusione che vi si potesse guardare attraverso da ogni lato. In
verità c'era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che
guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo
congegno si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il manichino
detto «materialismo storico». Esso può competere senz'altro con chiunque se
prende al suo servizio la teologia, che oggi, com'è a tutti noto, è piccola e
brutta, e tra l'altro non deve lasciarsi vedere.[2]
In una contemporaneità
contraddistinta dalla secolarizzazione, la teologia è piccola e brutta, ma
soltanto il suo motore segreto consente alla lotta di classe di riportare le
sue vittorie. Il materialismo storico non deve recidere il suo legame con la
dimensione messianica, con una sfera di pienezza di senso della storia, pena la
sconfitta delle classi subalterne. La teologia è il nucleo segreto che alimenta
un inaggirabile bisogno di riscatto delle classi oppresse.
Il tempo storico,
secondo Benjamin, è caratterizzato da un’intrinseca aspirazione alla redenzione
e da un indice messianico, radicati dialetticamente proprio nella sua
costitutiva caducità e incompiutezza. La storia è cosparsa di schegge
messianiche, frammenti incompiuti, possibilità inespresse, che devono
raccogliersi e salvarsi in una dimensione escatologica e di apocatastasi che
Benjamin pensa come atto rivoluzionario.
[…] l'immagine di felicità che custodiamo in noi
è del tutto intrisa del colore del tempo in cui ci ha oramai relegati il corso
della nostra esistenza. Felicità che potrebbe risvegliare in noi l'invidia c'è
solo nell'aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto
parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi.
A
conferire alla storia la sua apparente continuità è l’immedesimazione dello
storico con le classi dominanti, che nasce da una sua complice e viziosa forma
di accidia. Lo storico che si immedesima nel corso lineare della storia si
immedesima nel vincitore. A lui si contrappone il materialista storico, che
coglie nel passato i frammenti incompiuti che non sono stati assimilati dalla
tradizione dominante, i sentieri interrotti, le spinte abortite di un possibile
mondo alternativo. Così li fa suoi nel presente in cui scrive, mai neutrale,
sempre intento a “spazzolare la storia contropelo”.
[…] se ci si chiede con chi poi propriamente
s'immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta non può non essere:
con il vincitore. Quelli che di volta in volta dominano sono però gli eredi di
tutti coloro che hanno vinto sempre. L'immedesimazione con il vincitore torna
perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. Con ciò, per il materialista
storico, si è detto abbastanza. Chiunque abbia riportato sinora vittoria
partecipa al corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro che
oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene
trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale.
Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore
distaccato. Infatti tutto quanto egli coglie, con uno sguardo d'insieme, del
patrimonio culturale gli rivela una provenienza che non può considerare senza
orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni
che l'hanno fatto, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non
è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della
barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il
processo della trasmissione per cui è passato dall'uno all'altro.[7]
E’ interessante notare
a questo punto una sorprendente convergenza tra questo concetto benjaminiano di
una storia degli oppressi che, abbandonata alla discontinuità e alla
frammentazione, aspira alla reintegrazione messianica, e un passaggio chiave
del quaderno 25 di Gramsci, proprio dedicato alla costruzione di una lettura
della storia basata sulla categoria dei “subalterni”.
"§ Criteri
metodologici. La storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente
disgregata ed episodica. È indubbio che nell’attività storica di questi gruppi
c’è la tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma questa
tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti, e
pertanto può essere dimostrata solo a ciclo storico compiuto, se esso si conchiude
con un successo. I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi
dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria «permanente»
spezza, e non immediatamente, la subordinazione. In realtà, anche quando paiono
trionfanti, i gruppi subalterni sono solo in istato di difesa allarmata (questa
verità si può dimostrare con la storia della Rivoluzione francese fino al 1830
almeno). Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni
dovrebbe perciò essere di valore inestimabile per lo storico integrale; da ciò
risulta che una tale storia non può essere trattata che per monografie e che
ogni monografia domanda un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da
raccogliere." [8]
Senza voler appiattire
l’una sull’altra le riflessioni dei due autori, non si può fare a meno di
notarne la prossimità persino lessicale (quando si parla di “cumulo di […]
materiali difficili da raccogliere”). Anche in Gramsci la tradizione degli
oppressi è disgregata, e allo stesso tempo anela ad una sotterranea
unificazione storiografica e rivoluzionaria che la strappi dall’oblio
riscattandola.
Fare storia non
significa ricostruire oziosamente il passato, ma raccogliere da esso quelle
schegge messianiche nell’attimo del pericolo, rappresentato dal rischio che la
tradizione degli oppressi si dissolva o venga mistificata. «Neppure i morti
saranno al sicuro dal nemico, se vince»[9].
Ad una storia intesa
come ricostruzione di un’immagine eterna del passato, Benjamin contrappone la
costruzione di una costellazione di significato a partire da un’immagine del
passato che “guizza via”, e che spetta al materialista storico afferrare con
prontezza nel suo presente. Ogni determinato punto del passato attende di
essere raccolto da un determinato, specifico, presente. Salvare il passato,
riscattarlo, significa riconoscere il presente come “significato” da esso, come
destinatario del suo appello alla redenzione[10]. Bisogna recuperare l’”altro”
del passato, riaprendo in questo modo la storia al possibile, strappandola alla
sua reificazione. In questo modo il passato, lungi dal manifestarsi come un
passaggio necessario e transitorio per giungere al presente, appare come una
serie di momenti irripetibili che gridano il loro appello alla salvezza, in
attesa che qualcuno ne colga il lato nascosto, quello che non è stato
incorporato nella tradizione dominante.
La rivoluzione deve
essere pensata secondo la stessa struttura messianica di recupero
dell’inespresso e del suo compimento. L’attività dello storico materialista e
del rivoluzionario finiscono così con il convergere, anche se su piani
differenti. Ciò rende particolarmente originale e spiazzante il concetto
benjaminiano di rivoluzione. Invece di essere orientata verso il futuro, essa
guarda verso il passato; naturalmente non per restaurarlo, ma per raccogliere
in esso i frammenti sparsi della storia degli oppressi, e vendicare nell’attimo
rivoluzionario tutte le generazioni passate di subalterni. Egli ritiene di
poter ricondurre questa concezione della rivoluzione allo stesso Marx dei
Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Il soggetto della
conoscenza storica è di per sé la classe oppressa che lotta. In Marx essa
figura come l'ultima classe resa schiava, come la classe vendicatrice, che
porta a termine l'opera di liberazione in nome di generazioni di sconfitti.[11]
Tuttavia, nelle note
preparatorie alla stesura del testo, è lo stesso Benjamin a segnalare un
potenziale elemento di distanza dal pensatore di Treviri. La rivoluzione, a
differenza della nota espressione di Marx, non è la “locomotiva della storia”,
ma il suo “freno d’emergenza”[12].
La rivoluzione arreca
un arresto messianico al continuum della storia; è una frattura che sospende
nell’istante del kairos (l’attimo dell’opportunità) la sua precipitosa corsa
verso la catastrofe. Il gesto rivoluzionario si compie in quello che Benjamin
chiama Jetztzeit (tempo-ora, tempo dell’adesso), in cui i frammenti e le
possibilità irrisolte del passato entrano in una congiunzione diretta con il
presente, che li porta a compimento rovesciando l’esistente. Così come il
materialista storico non scrive la storia come se essa si svolgesse in un tempo
“omogeneo e vuoto”[13], allo stesso modo il rivoluzionario agisce in un adesso
carico di senso, e ricapitola in un’istante tutti i frammenti disparati della
storia, portandola a compimento. Robespierre strappava a forza l’antica Roma
dalla tradizione dominante per consegnarla ai rivoluzionari; durante la
rivoluzione di luglio c’è chi testimonia di aver visto i rivoluzionari sparare sugli
orologi dei campanili per scardinare il tempo[14]. La rivoluzione accade
nell’attimo in cui l’intera storia umana si cristallizza in una monade[15].
Con queste tesi
Benjamin lascia in eredità una prospettiva feconda e ricca di spunti per il
pensiero critico, deciso ad interrogarsi sul significato e sul senso della
storiografia e della lotta rivoluzionaria. Come ogni pensatore vitale e
storicamente decisivo, il terreno da lui dissodato lascia aperte diverse
questioni, interrogando il nostro presente e stimolandolo a cercare nuove
risposte.
Il progressismo
costituisce uno strumento adeguato alla lotta dei subalterni contro l’egemonia
delle classi dominanti? La dimensione teologica, per quanto secolarizzata, è
davvero inaggirabile per lasciar sprigionare la scintilla dell’anelito al
riscatto di popoli e classi oppresse? Gli sfruttati in conflitto organizzato
contro gli sfruttatori possono fare a meno di prospettive progettuali per il
futuro, nel loro tentativo di invertire il corso catastrofico della storia?
NOTE
[1]
Per una lettura originale del pensiero di Ernesto de Martino in chiave subalternista,
anche in rapporto all’ethos del trascendimento, si veda il saggio di Ferdinando
Dubla contenuto nel IV capitolo dei «Subaltern Studies Italia.1», Barbieri,
2024, pp. 31-37
[2]
W. Benjamin, Angelus Novus, tr. it. di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1995, p.
75, Tesi 1.
[3]
ivi, pp. 75-76, Tesi 2.
[4]
ivi, Tesi 13, 17. Sul conformismo e il determinismo economicistico della
socialdemocrazia, cfr. anche Tesi 11.
[5]
ivi, p. 79, Tesi 8.
[6]
ivi, p. 80, Tesi 9.
[7]
ivi, pp. 78-79, Tesi 7.
[8]
Antonio Gramsci, Q.25 (XXIII), §2, Ai margini della storia. Storia dei gruppi
sociali subalterni, Einaudi, 1975, p.2290
[9] W. Benjamin, Angelus
Novus, cit., p. 78, Tesi 6.
[10]
ivi, p. 77, Tesi 5.
[11]
ivi, p. 82, Tesi 12.
[12]
W. Benjamin, Sul concetto di storia. Scritti 1938-1940, in Opere complete. VII
, a cura di Hermann Schweppenhäuser, Rolf Tiedemann, Enrico Ganni, Einaudi,
Torino, 2006, p. 497.
[13] W. Benjamin, Angelus
Novus, cit., p. 83, Tesi 14.
[14]
ivi, p. 84, Tesi 15.
[15]
ivi, p. 85, Tesi 17.
Come nella scrittura
dei Subaltern studies a citazioni invertite, cioè la fonte autoriale è
primaria, l’ermeneutica secondaria, “adattamento” necessario del testo
all’interpretazione. *
WEB BLOG
- Walter Benjamin ed
Ernesto de Martino: due personalità filosofiche accomunate dall’analisi
‘emozionale’, potremmo dire, dei gruppi subalterni. Il doppio sguardo, se
partiamo dal Marx dell’onnilateralità dell’essere umano e la reintegrazione
dalla frammentarietà e disgregazione dei gruppi subalterni nel Gramsci del
Quaderno 25. Nonostante le ‘ermeneutiche’ in gran parte accademiche, sempre a
induzione di narrazioni dominanti di tipo metafisico e idealista, che
contorcono i testi, la comparazione è, non solo possibile, ma feconda di
suggestioni per il pensiero (e la prassi) rivoluzionari. I percorsi di
liberazione costituiscono, di per sè, atti rivoluzionari, perchè inducono a una
narrazione altra, eversiva, quella dei dominati che si costruiscono come
soggetto storico.
http://ferdinandodubla.blogspot.com/2021/07/ranajit-guha-ladattamento-di-gramsci.html
http://ferdinandodubla.blogspot.com/2021/08/la-questione-del-metodo-filologico.html
Cit. da Peter D.Thomas
sui ‘fraintendimenti creativi’ e i ‘laboratori dialettici’ riferiti a Gramsci e
gli studi internazionali. Quello di ‘far finta’ che non esista un soggetto
interpretante che utilizza il testo filologico degli autori [acribia
filologica] con una tesi dunque precostituita sul soggetto di studio, magari in
chiave di ‘interpretazione’ del presente [filologia vivente] è vizio di
storicismo idealistico, di carattere metafisico, subalterno alle narrazioni
dominanti, a cui i Subaltern studies diretti da Ranajit Guha,
metodologicamente, hanno contrapposto la dialettica soggetto/oggetto, la fonte,
il testo, l’adattamento e l’ermeneutica, per ricostruire una narrazione altrimenti
afasica.
http://ferdinandodubla.blogspot.com/2021/07/i-fraintendimenti-creativi-e-il.html
La storia non è
lineare, non è progressiva, non v’è nessuna ‘astuzia della ragione’. Il
‘progressismo’ è infatti deriva-azione dello storicismo idealistico. Lo storicismo
marxista è dialettico.
http://ferdinandodubla.blogspot.com/2020/06/storicismo-dialettico.html
*
a cura di Ferdinando Dubla e Francesco Morello - laboratorio di filosofia
politica - Filosofia Pop -Arci Calypso (Sava), anno antiaccademico 2024/2025,
anno filosofico 425 d.GB., (dopo Giordano Bruno)
Sava
(TA), 20 febbraio 2025