Dagli anni '90 a oggi un massacro bipartisan
mercoledì 5 novembre 2014
Ecco come il 'pensiero unico' distrugge scuola e Università
Dagli anni '90 a oggi un massacro bipartisan
Come l’istruzione sia concepita dal punto di vista di
un’ideologia di destra è comprensibile, e ben noto, al lettore
anche solo un po’ attento alla politica. Ma sull’università il discorso
è ancora più semplice e si potrebbe riassumere così: roba da ricchi.
E pazienza se qualcuno particolarmente geniale riesce a «bucare» il
blocco proveniendo dai ceti inferiori. Uno su mille ce la fa, cantiam pure
anche noi.
Del resto è la tesi palesemente
dichiarata da molti. Un solo esempio: in «Facoltà di scelta», di Ichino
e Terlizzese, si sostiene candidamente che l’istruzione superiore
è un lusso che deve essere pagato dagli utenti. Dunque è, appunto, roba
da ricchi.
Una visione di sinistra come
dovrebbe essere?
Anche qui, per ragioni di spazio,
ricorriamo a uno slogan: l’università come ascensore sociale. Manca la
canzonetta, ma speriamo che prima o poi qualche nostro cantore provveda.
Per sostenere questo assunto non c’è bisogno di fare riferimento
a posizioni di accentuata sinistra: è più o meno quanto si
dice nella pacata formulazione degli artt. 3, 33 e 34 della Costituzione.
Basta cioè un approccio, vogliamo dir così, illuminista?
Ora, come è messa la nostra
università pubblica?
La più recente analisi Ocse ci
descrive agli ultimi posti nell’investimento sull’istruzione superiore, nel
rapporto docenti/studenti, nel numero di atenei, e con una percentuale
di laureati che ci vede ultimi in Europa. La spesa per studente è sotto
la media, mentre sono in costante aumento i costi scaricati sulle famiglie.
Non ci meraviglia che l’Italia sia al terzultimo posto per percentuale di
giovani laureati. E la scuola? Peggio ancora. Ben al di sotto della
media Ocse in relazione a tutti gli indicatori, compresi gli indici di
inclusione sociale, tranne rare e disomogenee eccezioni: un sistema
scolastico fortemente polarizzato e con una situazione di reale
emergenza al Sud, maglia nera per i numeri della dispersione.
E intanto gravano gli ulteriori tagli previsti dalla legge di stabilità
per il 2015.
Se ne dovrebbe concludere che,
per arrivare a un simile disastro, ci siano voluti almeno vent’anni di
soli governi e ministri di destra. Ma la storia ci dice tutt’altro.
determinare la disarticolazione del sistema nazionale
dell’istruzione pubblica è la legge istitutiva dell’autonomia scolastica
(Bassanini, 1997) che istituisce tanti centri di istruzione separati
e in competizione tra loro quanti sono gli istituti scolastici. Con
l’autonomia il preside diventa manager e promuove la sua scuola sul mercato.
L’autonomia si nutre di vuoto didatticismo («saper essere»), di formule burocratico-pedagogiche
(«imparare ad imparare»). La rinuncia a una cultura complessa, profonda
e disinteressata, viene suggellata dai cantori dell’autonomia con
l’ideologia delle competenze.
La progressiva
diminuzione delle spese per l’istruzione inaugurata da Bassanini si accompagna,
con la legge Berlinguer sulla parità, a un costante aumento dei finanziamenti
alle scuole private, perlopiù cattoliche. A partire dal 2000, col
plauso del governo D’Alema I, Confindustria e Santa Sede, il dettato
costituzionale verrà sistematicamente eluso e gli oneri dello stato
nei confronti delle scuole private cosiddette paritarie aumenteranno
progressivamente.
Anche per
il 2015, a fronte dei tagli per scuola e università statali, 200
milioni di euro verranno loro generosamente elargiti. La riforma federativa
del Titolo V della Costituzione (governo D’Alema II) spazza via le
ultime incertezze in materia: regionalizza l’istruzione e permette
alle Regioni di istituire voucher per le scuole paritarie.
Insomma,
con Berlinguer e D’Alema chi manda i figli alla scuola cattolica
viene pagato, mentre nelle scuole statali i termosifoni non partono
e i soffitti crollano. Altro che carta igienica.
Irretito
dalla strategia del mosaico, nello stesso «anno d’oro delle riforme», Berlinguer
mette mano agli ordinamenti universitari: il 3 + 2, concepito
a Parigi e partorito a Bologna, lungi dal determinare le
magnifiche sorti e progressive dell’università italiana, produce
un’insopportabile proliferazione di corsi di laurea e sedi decentrate,
e una drammatica frammentazione e dequalificazione del percorso
formativo. Il tutto senza che diminuisca il numero di abbandoni dopo il
primo anno, o che cresca il numero dei laureati, ancora di 15 punti percentuali
al di sotto della media europea.
Pochi anni
e qualche «ministro per caso» dopo, ecco le déluge: Gelmini, strumento
cieco dell’occhiuto Tremonti, darà all’intero sistema il colpo di grazia,
riformando e depauperando (da centrodestra) scuola e università,
col plauso dell’illustre predecessore (di centrosinistra), da cui ha ben
appreso l’arte della descolarizzazione, della disarticolazione,
dell’aziendalizzazione, della governalizzazione.
Vaniloquio?
Chiunque abbia un figlio, un nipote o un vicino di casa a scuola
o all’università sa di cosa stiamo parlando.
Oggi Stefania
Giannini, che ha concepito il suo incarico di ministra come trampolino
per un’elezione europea miseramente fallita, lungi dal difendere ciò che
resta di scuola e università, fa il defilè per Renzi e tenta la quadratura
del cerchio, promuovendo la definitiva dismissione dell’istruzione pubblica,
consegnata al mercato senza neppure un briciolo di rammarico.
La consultazione
fasulla è già finita nelle maglie di una legge di stabilità che prefigura
per il 2015 una scuola privata della possibilità minima di sussistenza.
Una scuola, appunto, privata.
La ricetta
Renzi è perfettamente sovrapponibile alle 100 proposte di Confindustria:
arretramento dello stato, tanto volontariato, benevoli finanziamenti privati,
in nome di un malinteso richiamo al principio di sussidiarietà, certo non
applicabile a un’istituzione della Repubblica.
Et voilà, la scuola-azienda, stipendi da fame
e condizione di lavoro servile, è servita.
Gli studenti
nostalgici che ancora invocano il «diritto allo studio» imparino dai loro
docenti della scuola pubblica le competenze del terzo millennio: pensiero
unico, flessibilità, precarietà, delocalizzabilità, silenzio.
Ma sì, che
diavolo: come ci insegnano i cattoliberisti di Confindustria
o del Pd, istruzione e cultura son roba da ricchi.
Anna Angelucci, Maurizio Matteuzzi, Il Manifesto3.11.2014
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