Se ieri Pasolini lamentava che il Pci fosse un centro di potere, che direbbe oggi – lui comunista – di una sedicente «sinistra» insediata nelle stanze più ambite del Palazzo e febbrilmente impegnata in una guerra senza quartiere non solo contro la verità (la politica ridotta a trasmissione di spot a reti unificate) ma anche contro il lavoro, per radicalizzarne la subordinazione? Difatti sussistono, per contro, anche elementi di inattualità di quella denuncia, che proprio da qui discendono.
Intanto: dove scriverebbe oggi Pier Paolo Pasolini? Allora poteva sferrare attacchi ad alzo zero contro i potenti dalla prima pagina del principale quotidiano italiano che già da due anni ospitava le sue inaudite provocazioni. Lì poteva dirsi orgogliosamente comunista. E praticare la libertà dell’intellettuale senza riguardi per diplomazie e opportunità.
La sua scandalosa presenza rifletteva e approfondiva contraddizioni irrisolte in un sistema di potere che si sarebbe blindato solo nel corso degli anni Ottanta, al tempo della strutturale crisi di espansività del capitalismo maturo. Oggi sarebbe forse immaginabile un Pasolini editorialista del Corriere della sera o di Repubblica? Ciascuno conosce la risposta, se appena ha contezza del desolante paesaggio dell’informazione italiana. Che non è un ambito distinto e separato, ma lo specchio fedele della decadenza intellettuale e morale del paese e della corruzione di tutta una classe dirigente.
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