domenica 8 maggio 2016
Tina Tomasi: I convitti della Rinascita
I
convitti della Rinascita
Avanzata pedagogia dell’autogoverno, "collettivo", uno dei maggiori promotori fu Antonio Banfi,
ma le forze reazionarie ne provocarono la fine prematura (1945-1956)
Il Convitto si presenta come "scuola del popolo" aperta
anche ai reduci, ai perseguitati dal
regime, agli ex internati, carcerati ed esiliati ed intende offrire a quanti
hanno capacità e volontà di riprendere studi interrotti o di iniziarli ex novo
una guida sicura ed un aiuto ben più consistente della solita borsa di studio
che lascia il beneficiario abbandonato a se stesso alle prese con difficoltà
spesso insormontabili. Organizzazione interna, contenuti culturali, attività
didattiche sono strutturati in base alla pedagogia più avanzata ed in stretto
rapporto con la viva realtà politica e sociale, tenendo ben presente che gli
alunni sono uomini maturi o precocemente maturati da dure ed abnormi
esperienze. La direzione non è in mano di un’autorità insindacabile investita
dall’alto e dotata di ampi poteri discrezionali ma di un comitato elettivo che
cura l’esecuzione delle deliberazioni prese settimanalmente dall’assemblea
generale degli alunni; ed il collegio dei professori, tutti di sicure idee
democratiche, ha funzione di guida, ossia “ispiratrice e suscitatrice di
energie“. Nella vita interna ha un ruolo importante il giornale murale che
accoglie riflessione e proposte frutto di ricerca e discussione comune al fine
di elaborare una “cultura collettiva“ e di migliorare il “codice del convitto“,
documento la cui consultazione è obbligatoria quando si deve prendere qualsiasi
decisione.
Gli aspiranti all’iscrizione italiani e stranieri sostengono una
prova scritta atta a rivelarne la maturità e poi frequentano “un corso
orientatore, rivelatore, selettivo“ al termine del quale sono oggetto di un
doppio giudizio tecnico da parte di esperti e psicologico (riguardante il
carattere, la moralità, le attitudini) da parte dei compagni. La vita interna
si regge sull’autogoverno; gli ospiti hanno piena responsabilità anche per
quanto riguarda lo studio; la valutazionne del profitto e del comportamento,
demandata al “collettivo“ degli insegnanti e degli alunni è trascritto su una
scheda “sanitaria, sociale e psicologica“ continuamente aggiornata.
Il piano di studi rifiuta il sapere “libresco“ per raccogliere una
cultura il più possibile attuale, scevra da provincialismi, aperta ai
problemi politici sociali economici, in primo luogo a quelli del
lavoro che occupa una parte non marginale della giornata. Il convitto dispone
di una biblioteca, una sezione della quale raccoglie documenti della storia
recente, in particolare della guerra partigiana.[3]Sul piano pratico la maggiore
difficoltà è fin dall’inizio di ordine finanziario,provvisoriamente e solo
parzialmente risolta da un decreto del
Clnai emanato il 23 Aprile 1945 che a somiglianza di quanto avviene negli Stati
Uniti pone a carico dello Stato la spesa occorrente per dare ai reduci la
possibilità di riprendere e portare a termine gli studi. Nel gennaio 1946
l’Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani) riesce a stipulare con il
ministero del’assistenza postbellica un accordo in base al quale ottiene un
contributo per ogni ospite, previo controllo sull’attività organizzativa e
didattica. Il provvedimento favorisce la nascita di nove convitti (Roma,
Torino, Genova, Bologna, Venezia, Reggio Emilia, Novara, Sanremo, Cremona) che
assumono il carattere di scuole professionali specializzate ad eccezione del
veneziano che si configura come orfanotrofio: tutti dunque più o meno
forzatamente devianti dal modello milanese e destinati dalla mancanza di mezzi
a breve e precaria esistenza. Infatti il finanziamento governativo avviene col contagocce
ed in costante ritardo e si assottiglia ulteriormente quando dopo il 18 aprile
1948 le competenze del soppresso ministero dell’assistenza postbellica passano
a quello degli interni, retto da Scelba, e le modeste sovvenzioni locali non
bastano ad assicurarne la sopravvivenza.
Inutilmente Banfi, il più prestigioso tra i promotori, denuncia in
Parlamento un vero e proprio sabotaggio.[4] L‘irrobustita stampa
conservatrice sferra attacchi sempre più violenti contro i convitti; titoli
vistosi informano i benpensanti che ai partigiani o sedicenti tali, gente tutta
poco raccomandabile, s’insegna una nuova “mistica“ non meno pericolosa della
fascista; che agli esami di ammissione si fanno domande di sapore sovversivo o
quanto meno antinazionale ed antireligioso. Qualcuno definisce il convitto “strumento
di rosso attivismo mimetizzato“, in parole povere centrale di addestramento al
terrorismo, e non manca chi insinua l’uso illegale di radio ricetrasmittenti
per finalità eversive; e tutti insieme, di sperpero di pubblico denaro. Queste
e simili accuse gratuite trovano credito anche a causa di alcuni sbagli od
imprudenze del comitato direttivo. Riesce perciò facile, nel
mutato clima politico, provocare nel giro di pochi anni la morte o la riduzione
alla normalità dei convitti, dei quali soltanto il milanese, appoggiato
fortemente dal PCI riesce a sopravvivere ma attraverso molte traversie e
trasformazioni.[5]
Nonostante alcuni aspetti discutibili, dovuti in parte alle
circostanze, i convitti costituiscono nella grigia monotona burocratica storia
della nostra scuola un’esperienza di rilievo, anche se condizionata da un
particolare momento storico e non tanto per la novità dei programmi e dei
metodi quanto per la forte carica democratica presente anche nell’organizzazione
interna, dove lo studente, retribuito come qualsiasi altro lavoratore,
partecipa attivamente alla gestione di una scuola di precisa impostazione
ideologica, in contrasto con la comune ipocrita neutralità: aspetti
appassionatamente difesi da Antonio Banfi in Senato: “Questi convitti […]
possono commettere molti errori, ma […] tentano una esperienza nuova, una
esperienza democratica della scuola, una esperienza che porta i figli del
popolo a partecipare attivamente della cultura. […] Il loro valore positivo
supera di gran lunga le eventuali manchevolezze; e, quando parlo di valori, mi
riferisco soprattutto alla reale capacità di formare cittadini tecnicamente e socialmente preparati, alla fiduciosa
cooperazione tra docenti e discenti, alla attuazione più completa dell’art. 34
della Costituzione“.[6]
da Tina Tomasi, La scuola italiana dalla dittatura alla repubblica
(1943-1948), Ed.Riuniti, 1976, pp. 248-252
altre
risorse:
A scuola di democrazia e responsabilità. I
Convitti-Scuola della Rinascita (Nunzia Augeri)
[1] Angelo
Peroni, Genesi, finalità, primo funzionamento e sviluppo di uno dei più
interessanti esperimenti di scuola di questo dopoguerra, in Patria
indipendente,11 luglio 1965, p. 7. Attualmente sopravvive soltanto il
Convitto di Milano,ma completamente svuotato dalla funzione originaria.
[2]Q.
Casadio, Gli ideali pedagogici della resistenza, Bologna, Alfa, 1967, p.
161 Alessandro Netta, Scuola e resistenza nei "convitti della
Rinascita". Discorso in Parlamento sul bilancio della pubblica
istruzione, Roma, ed. Anpi, 1950.
[3] Luisa Socci, (C’è una scuola a Milano, in Il Politecnico, 12 marzo 1946) racconta
una visita al convitto di Milano, scuola sognata e progettata in montagna dai
partigiani non come fabbrica di diplomi sia pure concessi per meriti militari
ma come strumento per rinnovare lo studio e liberarlo dal privilegio economico.
Nonostante la modestia degli inizi, la sede provvisoria, le scarse
disponibilità finanziarie ha molte domande d’iscrizione. I promotori a chi
s’informa sul possibile sviluppo dell’iniziativa rispondono: “Ora, accanto a
tutti i progetti, a tutte le polemiche e le discussioni teoriche che si stanno
facendo sull’argomento, noi almeno manderemo alla Costituente un’esperienza
concreta di riforma scolastica: la prima esperienza di scuola democratica che
sia stata fatta in Italia”.
[4] Antonio Banfi nel discorso
al Senato del 27 aprile 1950 (Scuola e
società, Roma, Editori Riuniti, 1958, p.105) denuncia le vessazioni a cui
il convitto Rinascita è sottoposto, proprio per aver cercato di rinnovare la
scuola nello spirito della resistenza ed aggiunge alludendo alla mancata
riforma della scuola italiana: “E’ una battaglia perduta, onorevoli colleghi,
questa, per la democrazia italiana. È la battaglia perduta della ricostruzione
di queste forze vive e sane del paese. E v’è un’ altra battaglia perduta,
onorevole ministro, volontariamente perduta: è quella per cui i convitti Rinascita
dei partigiani e dei reduci sono stati privati dei loro sussidi. Scuole nate
nel primo momento della liberazione, col fondo raccolto dai partigiani stessi,
scuola nascente col sacrificio di questi giorni, scuola in cui essi avevano
sperato di educarsi civilmente e tecnicamente e di preparare future grandi
scuole di lavoratori. Questa funzione dei convitti non è stata compresa; o, se
è’ stata compresa, è stata temuta; grave colpa e grave danno della scuola
democratica”.
[5] Riforma della scuola (Operazione Andreotti, 1956, n.2)
racconta che alle due del mattino del 1 dicembre 1955, per ordine del ministro
delle finanze Giulio Andreotti, il convitto di Milano è stato sfrattato dai
locali di via Zecca Vecchia, già sede del Partito nazionale fascista, e che ha
trovato provvisoria e dispersiva ospitalità nei locali della camera del lavoro,
dell’Anpi, della Umanitaria. In seguito si stabilisce in via Giambellino 115;
e, nonostante le crescenti difficoltà, si sforza di mantenersi fedele ai
principi per cui è sorto ed in stretto contatto con la realtà contemporanea.
Dal 1956, anno in cui ottiene il riconoscimento legale, assume l’onere di una
scuola media a pieno tempo per ragazzi di famiglia economicamente e
culturalmente depressa; il che fa si che sia ormai considerato come un istituto
per ragazzi difficili, una specie di ghetto per esclusi: posizione che invece
energicamente rifiuta.
[6] A. Banfi, Per la riforma della scuola, Collana
Discorsi parlamentari, Stab. tip.
Uesisa, Roma , 1948, pp. 18-19. E più
tardi Angelo Peroni (Genesi, finalità,
ecc., cit): “Nonostante che l’Italia abbia camminato, i problemi sociali ed
umani che giustificarono il sorgere dei convitti-scuola sono sempre più che mai
attuali ed irrisolti […] Per questo io
credo che la storia dei convitti non sia finita, che il convitto di
Milano abbia il significato di un vivo ed operante auspicio di quella
liberazione della cultura che sottrarrà il nostro popolo alla schiavitù
dell’arretratezza e dell’ignoranza, che ci permetterà di utilizzare tanti
cervelli tuttora ignobilmente sprecati”. Vedi anche A. Raimondi e A. Pancaldi ,
Storia delle origini e delle attività del
convitto Rinascita, in Rinascita,
settembre 1955,p. 554; e Luciano Biancatelli, Una scuola ispirata alla resistenza, in Riforma della scuola, aprile 1966.
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