Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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domenica 8 maggio 2016

Tina Tomasi: I convitti della Rinascita


 
 
I convitti della Rinascita

 
Avanzata pedagogia dell’autogoverno, "collettivo", uno dei maggiori promotori fu Antonio Banfi, ma le forze reazionarie ne provocarono la fine prematura (1945-1956)
 
di Tina Tomasi

 
Il primo è fondato a Milano da un gruppo di ex resistenti secondo un progetto elaborato nel vivo della lotta partigiana e con una precisa connotazione politica, causa non ultima di travagliata vita.[1] L'iniziativa che si pone come modelo di una scuola veramente nuova nel clima d'entusiasmo seguito alla liberazione non incontra da principio aperte ostilità, benchè promossa e sostenuta da forze di sinistra ed in particolare dal partito comunista. All'inaugurazione del Convitto-scuola per i partigiani che ha luogo a Milano il 14 agosto 1945 sono presenti autorità nostre ed alleate; il provveditore agli studi per la Lombardia li definisce "la scuola della nuova Italia" ed il colonnello americano Charles Poletti dice agli alunni:"questi banchi sono le vostre nuove trincee". Un manifesto illustrativo avverte: "I partigiani, che furono all'avanguardia nella lotta per la liberazione, hanno inteso, con la creazione di questo convitto, porsi tra i primi nel lavoro per la ricostruzione materiale e morale della patria".[2] 

Il Convitto si presenta come "scuola del popolo" aperta anche ai reduci, ai perseguitati  dal regime, agli ex internati, carcerati ed esiliati ed intende offrire a quanti hanno capacità e volontà di riprendere studi interrotti o di iniziarli ex novo una guida sicura ed un aiuto ben più consistente della solita borsa di studio che lascia il beneficiario abbandonato a se stesso alle prese con difficoltà spesso insormontabili. Organizzazione interna, contenuti culturali, attività didattiche sono strutturati in base alla pedagogia più avanzata ed in stretto rapporto con la viva realtà politica e sociale, tenendo ben presente che gli alunni sono uomini maturi o precocemente maturati da dure ed abnormi esperienze. La direzione non è in mano di un’autorità insindacabile investita dall’alto e dotata di ampi poteri discrezionali ma di un comitato elettivo che cura l’esecuzione delle deliberazioni prese settimanalmente dall’assemblea generale degli alunni; ed il collegio dei professori, tutti di sicure idee democratiche, ha funzione di guida, ossia “ispiratrice e suscitatrice di energie“. Nella vita interna ha un ruolo importante il giornale murale che accoglie riflessione e proposte frutto di ricerca e discussione comune al fine di elaborare una “cultura collettiva“ e di migliorare il “codice del convitto“, documento la cui consultazione è obbligatoria quando si deve prendere qualsiasi decisione.

Gli aspiranti all’iscrizione italiani e stranieri sostengono una prova scritta atta a rivelarne la maturità e poi frequentano “un corso orientatore, rivelatore, selettivo“ al termine del quale sono oggetto di un doppio giudizio tecnico da parte di esperti e psicologico (riguardante il carattere, la moralità, le attitudini) da parte dei compagni. La vita interna si regge sull’autogoverno; gli ospiti hanno piena responsabilità anche per quanto riguarda lo studio; la valutazionne del profitto e del comportamento, demandata al “collettivo“ degli insegnanti e degli alunni è trascritto su una scheda “sanitaria, sociale e psicologica“ continuamente aggiornata.

Il piano di studi rifiuta il sapere “libresco“ per raccogliere una cultura il più possibile attuale, scevra da provincialismi, aperta ai problemi politici sociali economici, in primo luogo a quelli del lavoro che occupa una parte non marginale della giornata. Il convitto dispone di una biblioteca, una sezione della quale raccoglie documenti della storia recente, in particolare della guerra partigiana.[3]Sul piano pratico la maggiore difficoltà è fin dall’inizio di ordine finanziario,provvisoriamente e solo parzialmente risolta da un  decreto del Clnai emanato il 23 Aprile 1945 che a somiglianza di quanto avviene negli Stati Uniti pone a carico dello Stato la spesa occorrente per dare ai reduci la possibilità di riprendere e portare a termine gli studi. Nel gennaio 1946 l’Anpi (Associazione nazionale partigiani italiani) riesce a stipulare con il ministero del’assistenza postbellica un accordo in base al quale ottiene un contributo per ogni ospite, previo controllo sull’attività organizzativa e didattica. Il provvedimento favorisce la nascita di nove convitti (Roma, Torino, Genova, Bologna, Venezia, Reggio Emilia, Novara, Sanremo, Cremona) che assumono il carattere di scuole professionali specializzate ad eccezione del veneziano che si configura come orfanotrofio: tutti dunque più o meno forzatamente devianti dal modello milanese e destinati dalla mancanza di mezzi a breve e precaria esistenza. Infatti il finanziamento governativo avviene col contagocce ed in costante ritardo e si assottiglia ulteriormente quando dopo il 18 aprile 1948 le competenze del soppresso ministero dell’assistenza postbellica passano a quello degli interni, retto da Scelba, e le modeste sovvenzioni locali non bastano ad assicurarne la sopravvivenza.

Inutilmente Banfi, il più prestigioso tra i promotori, denuncia in Parlamento un vero e proprio sabotaggio.[4] L‘irrobustita stampa conservatrice sferra attacchi sempre più violenti contro i convitti; titoli vistosi informano i benpensanti che ai partigiani o sedicenti tali, gente tutta poco raccomandabile, s’insegna una nuova “mistica“ non meno pericolosa della fascista; che agli esami di ammissione si fanno domande di sapore sovversivo o quanto meno antinazionale ed antireligioso. Qualcuno definisce il convitto “strumento di rosso attivismo mimetizzato“, in parole povere centrale di addestramento al terrorismo, e non manca chi insinua l’uso illegale di radio ricetrasmittenti per finalità eversive; e tutti insieme, di sperpero di pubblico denaro. Queste e simili accuse gratuite trovano credito anche a causa di alcuni sbagli od

imprudenze del comitato direttivo. Riesce perciò facile, nel mutato clima politico, provocare nel giro di pochi anni la morte o la riduzione alla normalità dei convitti, dei quali soltanto il milanese, appoggiato fortemente dal PCI riesce a sopravvivere ma attraverso molte traversie e trasformazioni.[5]

Nonostante alcuni aspetti discutibili, dovuti in parte alle circostanze, i convitti costituiscono nella grigia monotona burocratica storia della nostra scuola un’esperienza di rilievo, anche se condizionata da un particolare momento storico e non tanto per la novità dei programmi e dei metodi quanto per la forte carica democratica presente anche nell’organizzazione interna, dove lo studente, retribuito come qualsiasi altro lavoratore, partecipa attivamente alla gestione di una scuola di precisa impostazione ideologica, in contrasto con la comune ipocrita neutralità: aspetti appassionatamente difesi da Antonio Banfi in Senato: “Questi convitti […] possono commettere molti errori, ma […] tentano una esperienza nuova, una esperienza democratica della scuola, una esperienza che porta i figli del popolo a partecipare attivamente della cultura. […] Il loro valore positivo supera di gran lunga le eventuali manchevolezze; e, quando parlo di valori, mi riferisco soprattutto alla reale capacità di formare cittadini tecnicamente   e socialmente preparati, alla fiduciosa cooperazione tra docenti e discenti, alla attuazione più completa dell’art. 34 della Costituzione“.[6]

 

da Tina Tomasi, La scuola italiana dalla dittatura alla repubblica (1943-1948), Ed.Riuniti, 1976, pp. 248-252

 


altre risorse:


 


 

A scuola di democrazia e responsabilità. I Convitti-Scuola della Rinascita (Nunzia Augeri)


 


 



[1] Angelo Peroni, Genesi, finalità, primo funzionamento e sviluppo di uno dei più interessanti esperimenti di scuola di questo dopoguerra, in Patria indipendente,11 luglio 1965, p. 7. Attualmente sopravvive soltanto il Convitto di Milano,ma completamente svuotato dalla funzione originaria.
[2]Q. Casadio, Gli ideali pedagogici della resistenza, Bologna, Alfa, 1967, p. 161 Alessandro Netta, Scuola e resistenza nei "convitti della Rinascita". Discorso in Parlamento sul bilancio della pubblica istruzione, Roma, ed. Anpi, 1950.
[3] Luisa Socci, (C’è una scuola a Milano, in Il Politecnico, 12 marzo 1946) racconta una visita al convitto di Milano, scuola sognata e progettata in montagna dai partigiani non come fabbrica di diplomi sia pure concessi per meriti militari ma come strumento per rinnovare lo studio e liberarlo dal privilegio economico. Nonostante la modestia degli inizi, la sede provvisoria, le scarse disponibilità finanziarie ha molte domande d’iscrizione. I promotori a chi s’informa sul possibile sviluppo dell’iniziativa rispondono: “Ora, accanto a tutti i progetti, a tutte le polemiche e le discussioni teoriche che si stanno facendo sull’argomento, noi almeno manderemo alla Costituente un’esperienza concreta di riforma scolastica: la prima esperienza di scuola democratica che sia stata fatta in Italia”.
[4] Antonio Banfi nel discorso al Senato del 27 aprile 1950 (Scuola e società, Roma, Editori Riuniti, 1958, p.105) denuncia le vessazioni a cui il convitto Rinascita è sottoposto, proprio per aver cercato di rinnovare la scuola nello spirito della resistenza ed aggiunge alludendo alla mancata riforma della scuola italiana: “E’ una battaglia perduta, onorevoli colleghi, questa, per la democrazia italiana. È la battaglia perduta della ricostruzione di queste forze vive e sane del paese. E v’è un’ altra battaglia perduta, onorevole ministro, volontariamente perduta: è quella per cui i convitti Rinascita dei partigiani e dei reduci sono stati privati dei loro sussidi. Scuole nate nel primo momento della liberazione, col fondo raccolto dai partigiani stessi, scuola nascente col sacrificio di questi giorni, scuola in cui essi avevano sperato di educarsi civilmente e tecnicamente e di preparare future grandi scuole di lavoratori. Questa funzione dei convitti non è stata compresa; o, se è’ stata compresa, è stata temuta; grave colpa e grave danno della scuola democratica”.
[5] Riforma della scuola (Operazione Andreotti, 1956, n.2) racconta che alle due del mattino del 1 dicembre 1955, per ordine del ministro delle finanze Giulio Andreotti, il convitto di Milano è stato sfrattato dai locali di via Zecca Vecchia, già sede del Partito nazionale fascista, e che ha trovato provvisoria e dispersiva ospitalità nei locali della camera del lavoro, dell’Anpi, della Umanitaria. In seguito si stabilisce in via Giambellino 115; e, nonostante le crescenti difficoltà, si sforza di mantenersi fedele ai principi per cui è sorto ed in stretto contatto con la realtà contemporanea. Dal 1956, anno in cui ottiene il riconoscimento legale, assume l’onere di una scuola media a pieno tempo per ragazzi di famiglia economicamente e culturalmente depressa; il che fa si che sia ormai considerato come un istituto per ragazzi difficili, una specie di ghetto per esclusi: posizione che invece energicamente rifiuta.
[6] A. Banfi, Per la riforma della scuola, Collana Discorsi  parlamentari, Stab. tip. Uesisa, Roma , 1948, pp. 18-19. E  più tardi Angelo Peroni (Genesi, finalità, ecc., cit): “Nonostante che l’Italia abbia camminato, i problemi sociali ed umani che giustificarono il sorgere dei convitti-scuola sono sempre più che mai attuali ed irrisolti […] Per questo io  credo che la storia dei convitti non sia finita, che il convitto di Milano abbia il significato di un vivo ed operante auspicio di quella liberazione della cultura che sottrarrà il nostro popolo alla schiavitù dell’arretratezza e dell’ignoranza, che ci permetterà di utilizzare tanti cervelli tuttora ignobilmente sprecati”. Vedi anche A. Raimondi e A. Pancaldi , Storia delle origini e delle attività del convitto Rinascita, in Rinascita, settembre 1955,p. 554; e Luciano Biancatelli, Una scuola ispirata alla resistenza, in Riforma della scuola, aprile 1966.
 
 

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