di Bernardo Michael, Messiah University
INTRODUZIONE
Fra il nome
di Ranajit Guha e il Subaltern Studies Collective sussiste un indissolubile
legame: non solo allo storico bengalese è infatti attribuita la
fondazione formale del gruppo, ma il suo saggio “On some aspect of the
historiography of colonial India” (1) è giunto ad essere riconosciuto come vero e proprio
manifesto teorico, oltreché metodologico, del collettivo. Questo testo permette
di comprendere lo spirito che anima la
ricerca promossa dai Subaltern Studies, di coglierne l'originalità e, soprattutto, di rintracciarne le
origini all'interno del contesto politico e culturale indiano. In esso Guha si dimostra ben consapevole
della natura rivoluzionaria che caratterizza l'approccio dei Subaltern Studies alla storiografia indiana: egli propone l'apertura
di nuovi spazi per la ricerca storica, fuori da quegli
schemi tradizionali, ereditati dal dominio coloniale, che ancora impediscono all'India di «sviluppare un discorso alternativo» (2) sul proprio passato.
In generale
si può dire che la critica di Guha sia rivolta alla classe politica che si era
andata a sostituire all'impero inglese alla
guida del paese, incapace di elaborare un nuovo sistema di valori su cui impostare la propria azione e perseguire
l'obiettivo di costruzione della nazione.
Volendo
assumere un punto di vista più ravvicinato, tuttavia, e soprattutto tenendo in considerazione la biografia dell'autore, riesce
difficile non riconoscere come principale destinatario del severo rimprovero l'intero ambito della sinistra
organizzata. Sebbene il Partito del Congresso svolgesse un ruolo pressoché egemone sul palcoscenico politico indiano,
nell'ambito di una lotta per l'indipendenza
che aveva individuato nella mobilitazione di massa uno strumento fondamentale, il Partito Comunista dell'India aveva comunque avuto modo di ritagliarsi un
ruolo piuttosto rilevante.
Forte della
propria tradizione, in un clima politico scevro da seri conflitti e improntato
piuttosto alla solidarietà reciproca tra le diverse
forze nell'ottica della costruzione nazionale, il CPI si sarebbe infatti dovuto impegnare per una nuova elaborazione
della dottrina marxista al fine di fornire una propria alternativa alle strutture imposte dal dominio coloniale. Le
attenzioni del partito risultarono invece evidentemente rivolte altrove, tanto che nel 1964 esso giunse
addirittura alla scissione.
Messa di
fronte alla sfida di costruire per la neonata Repubblica un nuovo assetto
culturale prima ancora che politico, la nuova classe
dirigente finì insomma per dimostrarsi sempre più restia al cambiamento, rifiutando di lasciarsi definitivamente
alle spalle la vecchia configurazione
elitaria di derivazione coloniale. Il sistema di potere che stava emergendo finiva
insomma per proseguire quel «dominio senza egemonia» (3) che aveva
caratterizzato lo stato coloniale. L'attenzione di Guha si focalizza pertanto
su quelle manifestazioni che attestano questa crisi strutturale, mettendo in
luce la delusione che percorreva ampi strati della popolazione, frustrati nelle
proprie aspettative di cambiamento. La rivolta contadina di Naxalbari
(1968-1971) viene assunta come simbolo di quella ormai incontenibile
insofferenza.
La forza di questo movimento nacque dalla delusione di due generazioni nei
confronti della classe di governo e degli elementi dominanti della società,
vale a dire l'autorità a tutti i livelli.
La generazione più anziana era delusa perché i governanti non avevano mantenuto
le promesse di un futuro migliore che, quando erano a capo del movimento
nazionalista, avevano usato per mobilitare le masse a combattere per l'indipendenza.
La generazione più giovane era delusa perché i partiti, il governo (...) non
avevano saputo assicurare loro un futuro meno cupo del passato in cui avevano
trascorso l'infanzia. (4)
Vediamo pertanto come Guha legga in questo tipo di insurrezione un atto di
rivolta contro l'intero sistema, contro “l'autorità in generale”, dentro cui
non viene fatta distinzione tra le diverse coalizioni politiche. Tali
riflessioni sulle modalità e motivazioni del dissenso popolare, con le quali concludiamo
questo breve quadro del contesto storico in cui viene concepito il progetto dei
Subaltern Studies, ci offrono la possibilità di collegarci ad un altro elemento
essenziale per definire e comprendere a pieno il lavoro del collettivo.
In un certo senso, prima ancora del saggio di Guha, una chiara impostazione
progettuale può essere riconosciuta nella stessa denominazione che il gruppo
sceglie di adottare. La scelta di designare il proprio approccio alla storia
dal basso col termine subaltern è
un'evidente dichiarazione dell'appropriazione che questi studiosi realizzano
nei confronti delle lezioni di Antonio Gramsci.
Tra i primi
marxisti occidentali a manifestare un interesse autentico per la cultura
popolare, il pensiero di Gramsci offriva infatti
un ampio quanto prolifico repertorio concettuale su cui era possibile fondare un serio tentativo di superare quei
confini, tracciati dalla cultura coloniale e ancora difesi dalla tradizione nazionalista, entro cui si continuava a
limitare l'interpretazione della realtà.
La ricezione
di Gramsci in India è legata alla prima traduzione dei suoi scritti in inglese
per opera Louis Marks del 1957 (5), sebbene l'accoglienza riservatagli dalla maggior
parte degli ambienti di sinistra si rivelò in questo primo
momento piuttosto tiepida. La presenza di Gramsci nel dibattito intellettuale indiano si consolida solo quasi un
decennio più tardi grazie a Susobhan Sarkar (6), direttore
del dipartimento di storia della Jadavpur University di Calcutta presso il
quale, negli stessi anni, svolgeva la propria attività
accademica lo stesso Ranajit Guha. Quest'ultimo, nel concepire e promuovere l'attività del Subaltern Studies
Collective, dimostra pertanto di raccogliere molto positivamente la lezione, oltreché la vera e propria
sfida lanciata dal proprio maestro di un profondo rinnovamento della storiografia indiana, per fronteggiare il “fallimento
della borghesia indiana di parlare per
la nazione” (7).
Il gruppo
dei Subaltern Studies diventa così luogo di incontro e collaborazione per
diverse generazioni di studiosi, di varia
estrazione sociale ed accademica, che nel 1982 concretizza il proprio lavoro con la pubblicazione del primo volume
di “Subaltern Studies: writings on South Asian history and society”.
NOTE INTRODUZIONE
1 Ranajit
Guha, On Some Aspect of the Historiography of Colonial India, in «Subaltern
Studies I: writings on South Asian
history and society», 1982, pp. 1-8.
2 Ibidem
3 Ranajit
Guha, Dominance without Hegemony. History and Power in Colonial India, Cambridge,
Harvard University Press, 1997.
4 Ranajit
Guha, Omaggio a un maestro, in Gramsci, le culture e il mondo, a cura di
Giancarlo Schirru, Roma, Viella, 2009.
5 Antonio Gramsci, The Modern Prince and Other Writings, Londra, 1957.
6 Susobhan Sarkar, Thought of Gramsci, in «Mainstream», 2 novembre 1968.
7 Ranajit
Guha, On Some Aspect of the Historiography of Colonial India, in «Subaltern
Studies I: writings on South Asian
history and society», 1982, pp. 1-8.
RECENSIONE
di Bernardo Michael, su Journal of World History vol. 15, n. 4, dicembre 2004
RANAJIT GUHA, LA STORIA AI CONFINI DELLA STORIA DEL MONDO, MILANO, SANSONI, 2003
- Edito nel
2002, “La Storia ai Confini della Storia del mondo” raccoglie i testi di tre
conferenze che Ranajit Guha tiene nel 2000
all'Italian Academy for Advanced Studies presso la Columbia University. Un breve intervento introduttivo e
l'epilogo forniscono la cornice entro cui i diversi interventi sono accorpati per comporre una profonda
riflessione sui limiti della storiografia indiana moderna, dominata da un approccio elitario di indiscutibile retaggio
colonialista, e sulla possibilità di sviluppare una valida alternativa ad essa.
Il dominio
coloniale si era infatti appropriato del passato indiano ed era riuscito a
tradurlo in un potente strumento di legittimazione,
sopprimendo gli schemi entro cui gli indiani tradizionalmente intendevano la propria storicità e andandoli a
sostituire con strutture moderne ed occidentali.
I modi in
cui queste ultime influivano sulla produzione storiografica, attraverso la
produzione di una vera e propria epistemologia,
costituivano già una delle tematiche principali del lavoro di Guha, il quale tuttavia intende ora conferire una maggiore
profondità alla propria riflessione, concentrandosi su un'inedita critica della tradizione filosofica cui tali
strutture sono da ricondurre.
Secondo Guha
è infatti quando mai evidente come il filtro attraverso cui il dominio
coloniale osservava e interagiva con il contesto
politico-culturale indiano aderisse significativamente a quella concezione teleologica della storia concepita da
Hegel.
Un'idea di
storia intesa come progresso dello Spirito, in cui lo Stato rappresenta il
punto in cui esso realizza al massimo grado la propria
libertà, non poteva fornire all'espansione coloniale una migliore legittimazione teorica. I popoli senza storia
venivano sottratti all'oblio, integrati nella Weltgeschichte e resi partecipi del trionfo dello Spirito. Come detto in
apertura, una tale impostazione
comporta ovvie ripercussioni negative sul rapporto che essi avevano impostato
con la propria storicità prima
dell'instaurazione del potere coloniale. La loro visione del mondo viene infatti tradotta in termini estranei alla propria cultura,
ed inseriti in un sistema che colloca il proprio punto di partenza, e potremmo dire anche di arrivo, in Europa: al suo
interno non vi è spazio per riconoscere
le specificità del diversi gradi che il progresso della storia attraversa sulla
strada verso il proprio apogeo. Pertanto la
storiografia, ovvero il luogo in cui quel percorso viene razionalizzato e descritto in relazione al proprio fine, finisce non
soltanto per escludere dalla propria trattazione
interi
passaggi, ma addirittura attua una vera e propria esenzione morale nei
confronti della storia del mondo in nome di quell'ethos
superiore che la governa.
Guha sembra
volerci dire che l'indipendenza politica non è stata sufficiente per obliterare
l'idea secondo cui l'India è entrata nella
storia grazie alla dominazione inglese e che, nonostante tutto, essa rimane
ancora relegata ai confini della storia del mondo. La sua critica si propone
pertanto come stimolo per l'elaborazione di una
nuova visione del proprio passato che permetta finalmente la stesura di una storiografia puramente indiana, scritta
da indiani e scevra da contaminazioni aliene.
Un chiaro
invito insomma ad «espropriare gli espropriatori» (8) e tornare in pieno possesso della propria storia, che tuttavia racchiude la
consapevolezza dell'impossibilità di poter avere successo semplicemente invertendo il segno dei codici in cui si
esprime la storiografia (9). Per questo motivo si rende necessario, secondo l'autore, rivolgersi a campi
limitrofi a quello del sapere storico, in primis la letteratura, dai quali può derivare una nozione di storicità totalmente
inedita sulla quale basare la propria
riflessione. Si tratta insomma di valicare i limiti della disciplina per
individuare un nuovo sentiero lungo il quale sia
possibile raccordare l'idea di Weltgeschichte di derivazione hegeliana con la
storia di un altro mondo, che racconta la realizzazione di un altro spirito, di
un'altra coscienza.
Il complesso
dialogo che Guha instaura con la filosofia della storia di Hegel, come abbiamo
già in parte accennato, attesta un
approccio inedito alla problematica della storiografia postcoloniale: “La Storia ai Limiti della Storia del Mondo” si configura
infatti come opera complessa non soltanto nella forma, ma anche, anzi, soprattutto, nei suoi contenuti e nelle sue
conclusioni.
Da un certo
punto di vista, nell'ambito degli studi postcoloniali, questo testo potrebbe
essere letto come simbolo di una vera e propria
svolta. È lo stesso autore che pare volercelo suggerire: «Questo testo (...)
affronta una tematica che ho trattato per la prima volta circa vent'anni fa.
Pur occupandomene da molto tempo, però,
finora non ero mai arrivato a esplorarla tanto in profondità» (10).
Il breve passaggio citato ci comunica due concetti fondamentali: il primis che
la critica nei confronti della storiografia coloniale, punto
cardinale del progetto dei Subaltern Studies, sta facendo un passo avanti, innalzando il proprio tono e cimentandosi in
ragionamenti squisitamente filosofici – o meglio potremmo chiamarlo teorici, per evidenziare lo scarto da uno stadio
precedente in cui
l'attenzione
era rivolta maggiormente alla sfera della prassi.
In secondo
luogo, e forse si tratta del punto più importante, tradurre il proprio ragionamento
su un piano filosofico, e confrontarsi
dunque niente meno che con la filosofia hegeliana, significa per Guha dimostrare come ad un progetto di studio e di
ricerca come i Subaltern Studies, ma allargare la considerazione all'intero settore degli studi postcoloniali, non si
possa imputare un totale e aprioristico
rifiuto delle categorie del pensiero occidentale. Cerchiamo di essere più
chiari:
nell'introduzione
si era fatto riferimento alla critica mossa nei confronti dell'immobile
immobile Partito Comunista Indiamo sottesa
all'ideazione del Subaltern Studies Collective. Non potremmo tuttavia cogliere quell'implicito quanto essenziale
biasimo se non ricordassimo come è proprio negli stadi iniziali di organizzazione della sinistra che noi possiamo trovare i
primi tentativi di tradurre ed adattare al
contesto indiano impianti concettuali europei – in questo caso il marxismo –
ritenuti altrimenti inservibili in un
contesto tanto diverso da quello d'origine. Pertanto, sebbene i lavori prodotti dal Subaltern Studies Collective non siano da
considerare testi militanti, è decisamente significativo
notare come lo sforzo di elaborare sistemi di valori e concetti adatti al
contesto indiano partendo dall'analisi dei
corrispettivi europei non rappresenti un'assoluta novità, ma anzi derivi da una tradizione, quella comunista, che da quel
confronto ha tratto i suoi migliori spunti.
“La Storia
ai Limiti della Storia del Mondo” è pertanto il frutto dell'applicazione di un
metodo già noto all'ambito politico indiano ad
un nuovo contesto, che potremmo in generale definire filosofico, ma che nello specifico riguarda il rapporto dell'uomo
con la propria storicità. La singolarità che ne deriva, e
che caratterizza indubbiamente il libro di Guha, sta pertanto nel fatto che se
da una parte l'India aveva necessità di
evidenziare le proprie peculiarità per evitare una troppo facile assimilazione nel paradigma marxista, dall'altro il
confronto con l'Europa sul tema della storicità significa la vera e propria rivendicazione di una dignità, di una concreta
esistenza da sempre negata sotto
l'etichetta di popolo senza storia.
Un'opera che
potremmo dunque definire carica di un forte valore simbolico, ma alla quale,
forse proprio a causa del suo tentativo di
affrontare un tema tipico degli studi postcoloniali, il rinnovamento della storiografia, in maniera del tutto
originale, non è stato conferito unanime giudizio favorevole.
Per avanzare
delle precise considerazioni sulla ricezione de “La Storia ai Limiti della
Storia del Mondo”, può tuttavia essere utile
fare un passo indietro e riportare qualche dato riguardo la diffusione più generale delle opere di Ranajit Guha.
Innanzitutto
non si registrano traduzioni dall'inglese in alcuna lingua, fatta eccezione per
l'italiano, in cui è comunque disponibile solo
il testo che abbiamo preso in esame (11). In secondo luogo troviamo piuttosto significativi i
risultati ottenuti cercando le recensioni dei libri di Guha sull'archivio online JSTOR (12): mentre per “A Rule of Property for Bengal”(13) e “Dominance Without Hegemony” (14) otteniamo infatti rispettivamente 5 e 6 recensioni, per altri testi il
numero si riduce drasticamente a una sola. In questi
ultimi casi, ovvero per quanto riguarda “An Indian Historiography of India” (15), il nostro “History at the Limit of World History”(16) e il più recente “The Small Voice of History”(17), i risultati della ricerca ci offrono piuttosto una serie di saggi in cui i suddetti
testi vengono inscritti in riflessioni
più ampie sulla natura, gli scopi e i progressi della ricerca storiografica
postcoloniale, o ancora sulla relazione tra questo
campo e il paradigma postmoderno.
Le
conclusioni, come abbiamo già accennato, possono divergere sensibilmente.
Prendiamo come esempi due fra i saggi che JSTOR
offre come risultato alla nostra ricerca per il titolo “History at the limit of world-history”.
Nel suo
“Beyond the Postmodern Moment?” (18), Patrick Finney mette in luce l'influenza che il postmodernismo ha esercitato sul modo di intendere la
storia, e si interroga sulla possibilità o meno di considerare esaurita la sua energia innovatrice in ambito storiografico.
Con una nutrita rassegna di opere esemplari di questo
rinnovamento, l'autore intende dimostrare come esso non possa in alcun modo
dirsi pienamente compiuto, in quanto è del tutto evidente, e il libro di Guha
ne è la prova, che esistono ancora ampie
possibilità di sviluppo e arricchimento per la pratica storica.
Di segno
contrario è invece “Expanding Worlds of Word History”19 di Raymond Grew, il quale punta piuttosto a criticare la pretesa della world
history di demolire, o perlomeno superare i tradizionali schemi concettuali della disciplina storica senza tuttavia
fornirne valide alternative. In questo caso
“History at the Limit of World-History” viene chiamato in causa proprio come dimostrazione
di come da “tutta la saggezza e tutte le connessioni ad un passato rilevante”
che possono essere riscontrati in testi
simili non riesca tuttavia ad emergere una chiara concezione della storia, né tantomeno un preciso metodo storiografico.
In generale
si può concordare con Finney nel sostenere che in ambito storiografico sussista
ancora oggi un intenso dibattito, ma
certamente non solo riguardo al possibile potenziale residuo del paradigma postmoderno. Se da un lato al lavoro dei
Subatern Studies viene riconosciuto un importante valore per il rinnovamento della storiografia indiana –
ricordiamo quanto la ricezione dei due
testi di Guha incentrati su questioni strettamente locali sia stata diffusa –
dall'altro si può senz'altro sostenere che nel momento
in cui si tratta di instaurare un dibattito teorico di più ampia portata l'entusiasmo della storiografia occidentale si
modera fortemente. Sembrerebbe insomma che lo snodo
essenziale da risolvere oggi nel campo storiografico non riguardi unicamente
una mera questione
di metodo, bensì un ben più ampio quesito riguardo il rapporto dell'uomo con la
propria storicità in un mondo reso sempre più piccolo dalla
globalizzazione, ma nel quale rivendicano il proprio spazio un numero sempre
crescente di individualità.
“La Storia ai Limiti della Storia del Mondo” diventa dunque un testo alquanto significativo nel momento in cui lo si legge come tentativo da parte di una di quelle nuove individualità di partecipare attivamente ad un rinnovamento non soltanto pratico, ma anche teorico della storiografia del ventunesimo secolo.
NOTE
8 Ranajit Guha, La storia ai limiti della storia del
mondo, Milano, Sansoni, 2003, p.18.
9 Cfr. Ranajit Guha, The Prose of Counter-Insurgency, in «Subaltern Studies
II: writings on South Asian history and society», 1983, pp. 1-42.
10 Ranajit
Guha, La storia ai limiti della storia del mondo, Milano, Sansoni, 2003, p.17.
11 Si fa
riferimento ai testi in cui Guha compare come unico autore: non sono stati
dunque presi in considerazione i volumi
collettanei o le raccolte di saggi.
12 http://www.jstor.org/
13 Ranajit Guha, A rule of Property for Bengal: an essay on
the idea of permanent settlement, Mounton & Co, 1963
14 Ranajit Guha, Dominance without Hegemony. History and Power in Colonial
India, Cambridge, Harvard University Press, 1997.
15 Ranajit Guha, An Indian Historiography of India: A Nineteenth Century Agenda & Its Implications. Calcutta, K.P. Bagchi
& Company. 1988.
16 Ranajit Guha, History at the Limit of World-History, New York, Columbia
University Press, 2002.
17 Ranajit Guha, The Small Voice of History, Permanent Black, 2009.
18 Patrick Finney, Beyond the Postmodern Moment?, in «Journal of
Contemporary History», Vol.40 n.1 (Jan, 2005), pp.149-165.
19 Raymond Grew, Expanding Worlds of Word History, in «The Journal of
Modern History», Vol.78 n.4 (Dec. 2006), pp. 878-898.
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