di Luca Cangemi
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Dall’appassionata ricerca storiografica del collettivo dei subalternist, tra
documenti e testimonianze, come petizioni, costituzioni di delegazioni,
dichiarazioni e richieste scritte che precedevano molteplici insurrezioni
contadine e operaie, differenti tra loro sia per il contesto che per le
caratteristiche dei partecipanti -dal dining+1 di Rangpur verso Deby Sinha, al
bidroha+2 di Barasat, dallo hooligan+3 dei Santal, alla “rivolta blu“ dei
coltivatori che estraevano il colore indaco - emerge una presa di coscienza
consapevole e motivata. Tutte le forme di lotta venivano “inaugurate da lunghe
e intense consultazioni tra le rappresentanze delle masse contadine locali” +4,
a riprova del fatto che non si trattava di “una sorta di riflesso automatico,
ossia una risposta istintiva e sconsiderata a sofferenze fisiche di vario tipo”
+5, come la fame, le torture o il lavoro forzato: l’insurrezione era
un’iniziativa politica.
L’accento
sulla parola <politica> evidenzia la tensione creativa degli storici
subalternist tra analisi marxista e critica della modernità indiana, coloniale
e postcoloniale; respingere lo storicismo e la categoria di
<pre-politico>, sotto cui anche la storiografia marxista aveva classificato
le ribellioni contadine, è un atto di denuncia verso ogni narrazione
universalista. L’utilizzo delle categorie analitiche eurocentriche ha, dunque,
impedito di ri/scrivere la storia indiana: “come ha potuto la storiografia
inoltrarsi in questo vicolo cieco senza mai riuscire a trovare una via
d’uscita? Per articolare una risposta bisognerebbe iniziare analizzandone nello
specifico gli elementi costitutivi, esaminando le sue cesure, giunture e
cuciture, quelle che potremmo definire le sue cicatrici, che ci indicano la
materia di cui la storiografia dell’India coloniale è fatta e le modalità con
cui essa è stata assorbita nella fabbrica della scrittura.” +6.
+1Dhing:
rivolta.
+2Bidroha:
sollevazione.
+3Hool:
ribellione
+4 R.GUHA,
La prosa della contro-insurrezione, in Id.e Spivak, Subaltern Studies,
Modernità e (post) colonialismo, Ombre Corte, 2002
+5Ibidem.
+6Ibidem.
cit. in Luca
Cangemi, L’elefante e la metropoli - L'India tra storia e globalizzazione,
Dedalo, 2012, pag.55
SAID, L'ORIENTALISMO e LA PROSA di GUHA
Dov’è
l’altrove?
La
filologia, per usare il lessico gramsciano, è espressione metodologica
dell'inconfondibile «individualità» dei fatti; come Gramsci trasforma
l'astrazione della filologia, isolata dalle dinamiche della realtà, in
«filologia vivente», come adesione empatica alla vita della collettività, così
Said costruisce, attraverso una metodologia filologica, una critica radicale di
ogni fondamentalismo, dall'orientalismo costruito dalla modernità europea, fino
al pensiero unico del capitale globale. Una definizione volutamente politica,
proprio perché di attività e forze di natura politica è frutto l'orientalismo,
scuola di interpretazione il cui oggetto «per caso» l'oriente, le sue civiltà e
i suoi popoli, vera e propria «dottrina politica», imposta dal farsi della
modernità occidentale, per cancellare ogni irriducibilità di «altri» mondi e
culture. Luca Cangemi
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