Il dibattito nella critica postcoloniale sulla costituzione
della soggettività antagonista e della parola ai subalterni (1a parte)
Ania Loomba
- Colonialismo/Postcolonialismo
I subalterni
possono parlare?
Secondo il
punto di vista di Homi Bhabha, sottolineare la formazione delle soggettività
postcoloniali come un processo che non è mai completamente o perfettamente
terminato, ci aiuta a correggere l'enfasi posta da Said sulla dominazione e a
concentrarci sulla soggettività dei colonizzati. Fondandosi tanto su nozioni
psicoanalitiche che poststrutturaliste della soggettività e del linguaggio,
Homi Bhabha sostiene che i discorsi coloniali non "funzionano" così
facilmente come Orientalismo
sembrerebbe suggerire. Nel corso del processo stesso con cui vengono diffusi,
vengono anche ibridati, così che le identità fisse che il colonialismo cerca di
imporre sia sui padroni che sugli schiavi diventano instabili. Al livello del
discorso non c'è quindi nessuna chiara opposizione binaria fra colonizzatore e
colonizzato, dal momento che entrambi sono coinvolti in una complessa
reciprocità e i soggetti coloniali possono negoziare un proprio spazio nelle
fratture dei discorsi coloniali in modi molto diversi. Altri critici, però,
sostengono che sono proprio gli orientamenti poststrutturalisti, psicoanalitici
e decostruzionisti dell'opera di Said e dei critici postcoloniali che a lui si
rifanno, a cui deve essere imputata l'incapacità di questi autori di rendere
conto delle voci antagoniste. Mentre Bhabha considera il processo della
formazione del soggetto centrale per la caratterizzazione di un agente, Arif
Dirlik lamenta che "la critica postcoloniale si è concentrata sui soggetti
coloniali escludendo il mondo al di fuori del soggetto" (1994, p. 336). +1
Si tratta di
una formulazione discutibile da diversi punti di vista, dal momento che la
maggior parte dei marxisti e dei poststrutturalisti converrebbe sul fatto che
"il soggetto" e il "mondo al di fuori del soggetto" non
possono essere facilmente separati. Le vere differenze fra di loro dipendono
dalle diverse concezioni del soggetto-agente coloniale e postcoloniale e dal
modo in cui il mondo determina il soggetto. Come abbiamo già detto, per i
pensatori poststrutturalisti il soggetto non è un'essenza fissa, ma viene
costituito dal discorso. Le identità e le soggettività degli uomini sono in movimento e sono frammentate. Mentre alcuni critici e
storici trovano che queste letture della formazione del soggetto facilitino la
nostra comprensione delle possibili relazioni di reciprocità, delle
negoziazioni e delle dinamiche del potere e della resistenza nelle relazioni coloniali,
per altri la teorizzazione di un'identità frammentata ed instabile non ci
permette di pensare a soggetti-agenti, capaci di costruire la propria storia.
Una critica molto diffusa alla teoria postcoloniale è quella di essere troppo
pessimistica in quanto figlia del post-moderno, questione sulla quale torneremo
fra breve. Per il momento torniamo al fondamentale saggio di Gayatri
Chakravorty Spivak, con il cui titolo abbiamo intitolato questo paragrafo. In
"Can the Subaltern Speak?" (1985b), +2
Spivak
sostiene che è impossibile per noi recuperare le voci dei soggetti "subalterni"
ed oppressi. Anche un critico radicale come Foucault, scrive Spivak, che
decentra totalmente il soggetto, tende a credere che i soggetti oppressi
possano parlare per se stessi; questo avviene perché il filosofo francese non
tiene in nessuna considerazione il potere repressivo del colonialismo e
specialmente il modo in cui si è alleato con il patriarcato. Spivak affronta
poi i dibattiti coloniali sull'immolazione delle vedove in India per illustrare
la sua tesi che gli effetti combinati del colonialismo e del patriarcato hanno
reso molto difficile per i subalterni (in questo caso la vedova indiana
bruciata sulla pira del marito) articolare il proprio punto di vista. Studiose
come Lata Mani hanno mostrato che nei prolungati dibattiti e nelle discussioni
che hanno accompagnato le legislazioni del governo britannico contro la pratica
del sati, le donne non erano presenti
come soggetti del dibattito. Spivak legge questa assenza come emblematica della
difficoltà di recuperare la voce del soggetto oppresso e come prova del fatto
che: "non c'è uno spazio da cui i soggetti subalterni [sessuati] possono
parlare”. Così Spivak contesta la divisione semplicistica fra colonizzatori e
colonizzati inserendo la "donna di colore” come categoria oppressa da
entrambi. Gli uomini che appartengono all'élite indigena possono aver trovato,
secondo Spivak, un modo per parlare, ma per quelli che appartengono a strati
più bassi della gerarchia, l’autorappresentazione non è possibile. L'intenzione
di Spivak è anche quella di contestare la convinzione semplicistica che gli
storici postcoloniali siano in grado di recuperare il punto di vista dei
subalterni. Allo stesso tempo Spivak prende sul serio il desiderio degli
intellettuali postcoloniali di mettere in luce l’oppressione e di fornire la
prospettiva degli oppressi. Per questo suggerisce che gli intellettuali
adattino la massima gramsciana "pessimismo della ragione e ottimismo della
volontà"- combinando uno scetticismo filosofico sulla possibilità di
recuperare la soggettività subalterna con l'impegno politico di rendere
visibile la posizione dei marginalizzati. Sono quindi gli intellettuali che
devono "rappresentare" i subalterni:
- I
subalterni non possono parlare. Non c'è alcuna virtù nel comporre liste della
spesa in cui per bontà d'animo si facciano figurare le donne - Il modo di
rappresentare le donne non è cambiato. Per questo le donne intellettuali hanno
un compito a cui non possono venir meno con facilità (1996, p. 308).- +3
Note
+1 Dirlik,A.,1994, The Postcolonial Aura:
Third World Criticism in the Age of Global Capitalism, "Critical Inquiry", nr.20,2, pp.328-356.
+2 Spivak,G.C.,
1985b, Can the Subaltern Speak?
Speculations on Widow-Sacrifice, "Wedge", pp.120-130.
+3 Spivak,G.C.,
1996, Post-structuralism, Marginality, Postcoloniality and Value, in Contemporary Postcolonial Theory: A Reader, a cura
di P.Mongia, London, Arnold.
Ania Loomba (Delhi, 1955) è una studiosa di letteratura indiana che lavora come professoressa all'Università della Pennsylvania. Il suo lavoro si concentra sul colonialismo e sugli studi postcoloniali, sulla teoria razziale e femminista, sulla letteratura e cultura indiana contemporanea e sulla prima letteratura moderna.
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