di Ferdinando Dubla
Credeva nel lavoro,
nonno Pietro, credeva che il lavoro fosse l’elemento determinante per
l’emancipazione delle classi subalterne e credeva che la fabbrica fosse lo
strumento principale di quell’emancipazione. Aveva una fiducia smisurata nella
classe operaia ed era orgoglioso di averne fatto parte; sosteneva che, un
giorno, prima o poi, la classe operaia sarebbe riuscita finalmente a cambiare
il Paese, a cambiare il mondo addirittura. Non avrebbe avuto nulla in contrario
se io, suo nipote, in futuro avessi raccolto la sua eredità di operaio:
«Deciderà lui…» diceva. «Deciderà lui, in base alle sue capacità e alle sue
aspirazioni.», Fabio Boccuni, “La settimana decisiva - Memorie dall’ultima
fabbrica”, bookabook, 2024, digit. § corrispondenti
Nel 1989 l’editore
Piero Lacaita di Manduria, con quell’intuizione culturale straordinaria che lo
contraddistingueva, mandava alle stampe “Il metalmezzadro - Gli anni della
crisi e dello sviluppo dell’area jonico salentina” di Antonio Romeo. Quando
scrive questo saggio, Romeo, uomo dalle forti radici nella sua terra,
Castellaneta, aveva concluso il suo mandato politico da Senatore della
Repubblica per il Partito Comunista Italiano dal 1983 e si era dedicato a
quella che oggi definiremmo inchiesta storica, contornata dalla stessa memoria dell’autore,
documento di prima mano e testimonianza diretta di attivo dirigente provinciale
comunista negli anni dell’Italsider di Stato (1960-1989). Gli anni successivi
saranno gli anni della privatizzazione dell’asset suderurgico considerato
strategico per le sorti produttive dell’intero paese. Ebbene, Romeo, in quel
saggio divenuto abbastanza famoso, riprende da Walter Tobagi la categoria di
‘metalmezzadro’, per indicare non solo la composizione del nuovo operaio-massa
di ‘ferro’ addetto alla produzione d’acciaio nell’inferno delle siviere, ma
anche per indicarne la bidirezionalità della sua provenienza e del suo
ascendente: la terra. Dunque anche il suo rapporto (finanche psicologico) con
la fabbrica e il territorio. Di vocazione contadina mezzadrile e marinara,
proprio come Castellaneta e la sua marina, quella Castellaneta che ora dava
giovani terroni alle officine di fuoco sulla terra degli ulivi. “Non c’è pace
tra gli ulivi” aveva titolato il suo film, capolavoro del neorealismo, il
regista Giuseppe De Santis nel 1950. E dieci anni anni dopo, proprio tra gli
ulivi e gli schiamazzi di entusiasmo proprio di tutti, era nato il IV Centro
siderurgico, nella distesa di ulivi tra il territorio della placida e bizantina
Massafra e la salubre (per l’aria) collinetta che torreggia dopo il declivio
della valle d’Itria. Il metalmezzadro non proveniva solo dalla terra, ma
ritornava alla terra. Nelle ore libere e liberate dal fardello della produzione
strategica degli altiforni e anche dalle lotte sindacali, le vertenze, i
conflitti con la direzione statale, per i propri diritti, per i troppi
infortuni, per le morti e la sicurezza, per i fumi e l’inquinamento. Che
avevano portato il terrone a conquistare progressivamente una coscienza
politica. Anzi, più propriamente di classe, in quanto componente ne era anche
l’orgoglio di appartenenza.
Il libro di Fabio
Boccuni, La settimana decisiva - Memorie dall’ultima fabbrica, bookabook 2024,
è un diario composto negli anni dell’Ilva privata, un diario personale di una
storia collettiva. Del metalmezzadro in fabbrica ora c’è poca traccia, se non
nelle memorie di chi la fabbrica la ha materialmente costruita. La memoria
operaia, che pure l’attività sindacale che Luca Russo, il protagonista
autobiografico di Fabio, conduce, dovrebbe tramandare, come quella di nonno
Pietro, è fioca, sottotraccia, troppo silenziosa. E il nuovo operaio non è nè
massa nè sociale, per riprendere le categorie del primo e secondo ‘operaismo’,
nè il metalmezzadro di Tobagi e di Romeo. È il giovane piuttosto della ‘società
liquida’ di Bauman, alla ricerca del ‘posto’ per poter vivere la sua vita di
consumatore. E anche il sindacato non è più lo stesso.
Non è all’offensiva, è
sulla difensiva. E la città? Alla ricerca dell’antico spirito guerriero
spartano, cancellato dalla storia ma ripreso per ‘brand’ turistico mercatista,
prende sempre più coscienza che l’industria del progressivo cammino
emancipatorio, il progresso lineare della civiltà, non dà il lavoro e basta (e
lo dà sempre di meno) ma dà morte, tumori, intossicazioni, distruzione di
antiche vocazioni, produttive e culturali, quelle vere, non la guerra degli
spartani, ma molto di più la Taranto ricostruita dalle sue fondamenta distrutte
dai Saraceni nel caldo agosto del 927 e ricostruita, forse cinquant’anni dopo,
da Niceforo II Foca.
⁃ È che questo
‘paradigma di civiltà’, come argutamente avvertiva Pasolini, produce una
‘mutazione antropologica’. Da qui anche la scomparsa del ‘metalmezzadro’. La
distruzione del retroterra socio-culturale non è specifico della città dei due
mari, ma dell’intero sistema del profitto capitalista della in-civiltà
industriale su cui basa l’intera sua impalcatura finanziaria e speculativa. Non
si tratta di nostalgia passatista fuori tempo, ma la constatazione che questa
in-civiltà, così ben analizzata da Marx, ha come conseguenza una mutazione
antropologica degli esseri umani. Nel caso specifico, da operai-contadini o
legati alla terra, a operai-consumatori del proprio tempo storico indifferenti
al riscatto dei subalterni. Quali subalterni, poi? se Gramsci spende pagine nel
Quaderno 25 per avvertire della necessità di ricompattare un esercito
‘disgregato’, frantumato anche dall’egemonia del senso comune, l’apparenza
dell’integrazione ai valori capitalisti è forte e depotenzia la volontà del
riscatto. Si è cioè subalterni due volte: per posizione e ruolo sociale e per
mentalità. Ma anche questo si può rovesciare: il vuoto del presente di Luca è
nel passato della memoria e l’inevitabile speranza del futuro, inevitabile
perchè la speranza non è illusione, come vogliono far credere, ma istinto e
passione. E con quella i conti si devono fare.
LA
SCRITTURA DEV’ESSERE OPERAIA
Chi
parlerà di voi uomini rossi senza età senza bestemmie? Chi parlerà dei vostri
Natali accanto alla ghisa lontano dai canneti ove vivono gli ultimi gabbiani?
Pasquale Pinto, poeta-operaio, (1940/2004)
da «La terra
di ferro e altre poesie (1971 – 1992)», a cura di Stefano Modeo, Marcos y
Marcos, 2023
LA
CLASSE NON C’È PIÙ: IL “COSTO DEL LAVORO” ALL’ILVA DI TARANTO
dal romanzo di Fabio Boccuni “La
settimana decisiva - Memorie dall’ultima fabbrica”, bookabook, 2024
- Gianluigi aveva
appena ventitré anni, era morto colpito alla testa da una pesante trave di
ferro staccatasi a seguito di uno scontro tra due carriponte.
Era morto per una
casualità, nella zona parcheggio della campata, alla fine del suo turno di
lavoro, dopo aver fatto il suo dovere. Negli anni ne morirono molti altri:
Domenico, di ventisei anni, schiacciato tra due tubi di acciaio al reparto
tubificio due; Andrea, di diciannove anni, operaio di una ditta dell’appalto,
colpito alla testa da un grosso martello mentre faceva la manutenzione
all’altoforno numero quattro; Silvio, di trentotto anni, al quale crollò un
ponteggio sotto i piedi, facendolo precipitare al suolo; Valerio, di trentatré
anni, schiacciato da un tubo nel reparto tubificio longitudinale; Luca, di
cinquantacinque anni, rimasto incastrato in uno dei nastri trasportatori;
Claudio, di ventinove anni, morto schiacciato da un locomotore; Ciro, di
quarantadue anni, precipitato da una pensilina nell’area cokerie; Antonio, di
quarantacinque anni, colpito da un gancio di una gru al reparto acciaieria uno;
Giacomo, di ventitré anni, operaio di una ditta di appalto con contratto a
termine, morto schiacciato da un rullo che stava manutenendo; Alessandro, di
trentacinque anni, colpito da un getto di ghisa incandescente al reparto
altoforno numero due; Francesco, di ventinove anni, spazzato via da un tornado
insieme alla gru sulla quale stava lavorando nel reparto portuale. Morti a cui
nessuno avrebbe più dato la parola. Ricordati appena, talvolta usati,
all’occorrenza. Quanti ce n’erano stati dalla nascita della fabbrica? Non si
sa, nessuno lo sapeva con certezza, nessuno era mai riuscito a contarli con
precisione. Come se morire in fabbrica fosse un rischio da calcolare, come se
fosse una cosa normale, un prezzo da pagare.
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