venerdì 7 settembre 2012
Il lavoro come riscatto e non come ricatto
Il caso dell’Ilva di Taranto dimostra come dentro il conflitto
capitale/lavoro viva la contraddizione epocale tra ambiente e capitalismo
L'editoriale di Ferdinando Dubla sul numero di settembre di Lavoro Politico
“(..) un puzzo che da solo basterebbe a rendere intollerabile a ogni
uomo appena civile la vita in questo quartiere (..) L’anidride carbonica
prodotta dalla respirazione e dalla combustione grazie al suo peso specifico
permane nelle strade (..) questi gas, non trovando via libera devono necessariamente
ammorbare l’atmosfera”
F.Engels, La situazione della
classe operaia in Inghilterra, Editori Riuniti, 1978
La prima scena del film di De
Robilant, “Mar Piccolo” (2010) ambientato a Taranto, è quella di una carcassa
di pecora che galleggia sul mare di quella che oggi viene chiamata “città
dell’acciaio”, una volta “perla dello Jonio”. Una scena che, all’uscita del film,
fece molto discutere, per una presunta immagine negativa che si dava delle
condizioni ambientali di questo splendido pezzo di Puglia. Che si sono rivelate
ben peggiori della simbologia adottata dal regista: nelle conclusioni dei
periti della magistratura, che è intervenuta nel luglio scorso per fermare gli
impianti del IV Centro siderurgico, il più grande in Europa, con 12.000 unità
lavorative dirette e indirette, la seconda fabbrica d’Italia dopo la FIAT e la prima nel Mezzogiorno come maestranze
occupate, si parla di un disastro ambientale che si configurerebbe come un vero
e proprio crimine contro l’umanità. I
tarantini, nella perizia, hanno trovato scritto che la media molto più alta di
quella nazionale dell’incidenza tumorale alle vie respiratorie che colpisce
soprattutto i bambini e in particolare al quartiere Tamburi, a ridosso dello
stabilimento; che la maggiore incidenza anche delle patologie allergiche e
cardiovascolari, non è dovuta al destino cinico e baro, a un fato ineluttabile,
ma a una politica consapevole e dunque ad un comportamento omicida della
proprietà che fa capo ad Emilio Riva ed alla sua famiglia.
Ed effettivamente Taranto, che
non era acciaio, ma pesca e coltivazione dei mitili, ha visto distrutta,
insieme alla salute, tonnellate e tonnellate di prodotto che era il vanto dei
mitilicoltori. E interi allevamenti di ovini distrutti, perché producevano il
latte alla diossina (da qui la scena del film di cui si è scritto). La
situazione, insomma, non sarebbe molto
dissimile dalla descrizione dell’immaginaria Coketown del Dickens di Tempi difficili (1854), né molto
dissimile dalla Manchester di Engels del 1843: un ‘capolavoro’ capitalistico,
quindi, lungo più di un secolo e mezzo!
Nel cosiddetto mondo occidentale
dove più forti e radicati sono i movimenti eco-pacifisti, che rappresentano
istanze di rinnovamento e trasformazione
radicale della società e del modello economico liberista, si annovera
una letteratura sterminata sull’ambientalismo e su filosofie che hanno come
oggetto l’uomo e il suo rapporto con la natura e le risorse materiali, e non
mancano contributi di una certa rilevanza, come quelli di Barry Commoner, Murray
Bookckin, G. Bateson, l’economista Georgescu Roegen. Un limite esiste, però, e
da parte marxista va rilevato: è sufficiente supporre una trasformazione di
modelli culturali senza contestuale modificazione dei rapporti di produzione ed
è adeguata una mera rivendicazione della propria coerenza di avanguardie che,
ritagliandosi un pezzo “di cielo” incontaminato su questa terra, ricordano un
po’ l’esperimento della “New Harmony” di Robert Owen? In realtà l’esigenza di
una nuova normativa etica che deve presiedere alle forme politiche del progetto
sociale è necessaria, ma pura petizione di principio. L’intervento umano
sull’oggettività fisico-naturale è avvenuta in un determinato quadro di rapporti produttivi, a partire dalla
rivoluzione industriale borghese del XIX secolo, in cui il rapporto
uomo/ambiente sovrintendeva allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Se non si
accetta che l’arcano delle merci subordina
una particolare produzione sociale, l’intera critica ambientalista rischia di
rimanere ancorata ad una indispensabile ma impropabile trasformazione della
coscienza collettiva, senza intaccare i prodotti reali di quei miti scientisti
(e neopositivistici) che pur si vogliono destrutturare.
-
La vicenda dell’Ilva di Taranto è effettivamente emblematica di come il modello (non più di sviluppo)
economico del capitalismo a egemonia finanziaria, possa ostacolare la soluzione
della contraddizione ambiente-salute/lavoro e tentare di scaricare la stessa
addosso ai lavoratori e ai cittadini. Sono inutili tutti gli altri esercizi di
compatibilità: non saranno i protocolli d’intesa né politiche concertative a
dare risposte adeguate, con buona pace di Vendola e, purtroppo, della maggior
parte dei sindacati. Per evitare contrapposizioni come negli anni ’80 all’Acna
di Cengio, sarebbe bene che l’unico soggetto realmente antagonista e nel
contempo responsabile, la FIOM , stabilisca qual è l’interesse collettivo
primario nella vicenda che ha portato alla chiusura per via giudiziaria
dell’area a caldo dell’Ilva di Taranto. Lo può e lo deve fare, perché è la più
coerente organizzazione che in tutti questi anni ha denunciato uno sfruttamento
indiscriminato della forza lavoro (soprattutto nell’appalto e nel subappalto),
la sistematica violazione delle normative sulla composizione della busta paga,
i metodi di reclutamento, l’orario e le condizioni di lavoro. L’interesse
primario è la tutela della salute dei cittadini e dei lavoratori, senza che
questo significhi la perdita anche di un solo posto di lavoro: è
compatibile il raggiungimento di questo obiettivo con una pur radicale
ristrutturazione in chiave di ambientalizzazione dell’impianto siderurgico più
grande, ma anche più obsoleto, d’Europa? Con l’attuale modello economico, volto
al massimo profitto e all’utile commerciale immediato, noi crediamo di no.
Il punto che a
noi sembra decisivo, infatti, è l’apparente scissione che il dominio
capitalista pone in essere: quella tra lavoro/sviluppo delle forze produttive
ed equilibri eco-sistemici. L’apparenza consiste nel fatto che rimane immutato,
sempre, il quadro delle relazioni industriali e dei rapporti di classe: se si
rimane all’interno dei processi di accumulazione e dei cicli della riproduzione
di capitale, ogni trasformazione del prodotto subordinerà la sostenibilità
ambientale alla dinamica del profitto; la classe operaia non solo produrrà, ma accetterà l’inquinamento come prezzo,
pur doloroso, da pagare, per mantenere i livelli occupazionali.[1]
Ma non si può
chiedere ad una popolazione stremata di accettare la calamità di un 30% in più
di neoplasie polmonari e di leucemie infantili perché la famiglia Riva continui
a incrementare i propri lauti profitti e considerare l’attuale ‘asset’
siderurgico come strategico per le sorti di una politica industriale che ha
svenduto ai privati (l’Ilva era l’Italsider pubblica delle partecipazioni
statali prima dell’ubriacatura privatizzatrice e liberista del 1995) le realtà
produttive fondamentali di medie-grandi proporzioni dell’intero paese.
Il 13 aprile 1972, Antonio
Cederna sul Corriere della Sera
denunciava l’inizio del declino di Taranto descrivendola come: “Una città disastrata, una Manhattan del
sottosviluppo e dell’abuso edilizio, tale appare Taranto allo sbalordito
visitatore. Stretta nella morsa della speculazione privata e di un processo di
industrializzazione che si realizza al di fuori di qualsiasi piano di interesse
generale, essa può ben essere presa a simbolo degli errori della politica sin
qui seguita per il Mezzogiorno. Il quarto centro siderurgico Italsider (a cui
si aggiungono il cementificio e la raffineria Shell) calò dall’alto intorno al
1960 ed occupa un’area di circa mille ettari, superiore a quella di tutta
quanta la città. A parte ogni considerazione sui criteri adottati
(concentrazione della sola industria di base, principio dei ‘poli di sviluppo’
che oggi si è rivelato un elemento di accentuazione degli squilibri piuttosto
che del loro superamento), ciò che va contestato alla radice è il modo con cui
l’Italsider, grazie a quel docile strumento che è il consorzio per l’area
industriale, tende ad imporre il proprio interesse aziendale, considerando la
città e i suoi duecentomila abitanti come un semplice serbatoio di mano
d’opera, trascurando ogni altra esigenza dello sviluppo civile e del progresso
sociale.”
Per rendere l’Ilva di Taranto
un’azienda ‘eco-compatibile’ è necessario un investimento talmente cospicuo che
rafforza i dubbi che la proprietà sia disposta ad un esborso talmente rilevante
da abbassare il saggio del profitto in un impianto vecchio quasi cinquant’anni.
Dalla perizia del gip Patrizia Todisco, che nel luglio scorso ha messo sotto
sequestro gli impianti, si evince chiaramente che in tutti questi anni
l’industria siderurgica più grande d’Europa non si è dotata delle migliori
tecnologie (le Best Available Technologies – BAT), presentando i punti critici
produttori di inquinamento ambientale nell’area a caldo:
-
Impianti di agglomerazione: il sistema di filtraggio
delle polveri è talmente obsoleto da essere causa della volatizzazione
massiccia di diossina e furani. E’ dunque necessario passare dai filtri
elettrostatici a quelli a tessuto di ultima generazione.
-
Parchi minerali: sono a ridosso della città,
un’aberrazione voluta per economicizzare il processo produttivo e all’origine
della diffusione di polveri letali che ammantano l’intero abitato e ancor più
il limitrofo quartiere Tamburi, un tempo celebre per la salubrità dell’aria e
la limpidezza delle acque del Mar Piccolo, habitat naturale della famosa ‘cozza
tarantina’. E’ necessaria dunque la copertura integrale dei parchi.
-
Le cockerie, cuore dell’area a caldo, a causa dei
problemi dei forni, producono benzo(a)pirene, il 92% delle emissioni di
Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA), così come stabilito dall’Agenzia
regionale per l’ambiente (ARPA) nella relazione del 4 giugno 2010; il valore
obiettivo del benzo(a)pirene, mortale cancerogeno, è di 1 nanogrammo per metro
cubo nelle centraline dell’ARPA presenti al rione Tamburi negli anni 2009,
2010, 2011.
-
Gli altoforni: le emissioni dai camini non è arginata
da filtri adeguati. Da oltre dieci anni nei paesi emergenti nella produzione
dell’acciaio (Cina, Corea del Sud, India, Brasile, Sud Africa), sono in uso
tecniche di produzione alternative al processo d’altoforno. Tra queste, in
particolare, la riduzione durante la fusione del minerale di ferro (Smelting
Reduction) può essere considerata la vera alternativa all’altoforno.
-
Le acciaierie: il sistema di ossigenazione della ghisa
provoca dispersione dei fumi (in gergo tecnico: slopping). Il contenimento dello slopping è possibile solo con il ricorso alle BAT.
Nonostante l’obsolescenza
impiantistica dello stabilimento sul fronte dell’inquinamento ambientale, i
profitti ricavati dalla famiglia Riva, beneficata dalle privatizzazioni del
governo Dini nel 1995, sono stati enormi grazie alle dimensioni e al movimento
della struttura: l’Ilva di Taranto ha un’estensione di 15 milioni di metri
quadri; ogni anno sui moli del Mar Grande sbarcano 20 milioni di tonnellate di
minerali, fossili e coke, accumulati nei parchi a cielo aperto, per una
capacità produttiva di circa 10 milioni di tonnellate annue di acciaio.
Ma se si astraesse dalle
strabilianti quote di profitto, sarebbe “importante
anche iniziare a discutere sulla necessità di ridurre il carico produttivo
dell’Ilva di Taranto, troppo gravoso per il territorio che deve sopportarne le
conseguenze disastrose sull’ambiente e sulla salute. Già oggi lo stabilimento
produce meno della sua capacità (7 milioni circa di tonnellate annue) e
cionostante il gruppo Riva continua ad essere al decimo posto nella produzione
mondiale dell’acciaio.”[2]
LE DATE DI TARANTO
dicembre 1957: varo della legge nr.634, che stabiliva che il 40%
degli investimenti deliberati per le Partecipazioni Statali doveva essere
riservato al Mezzogiorno con la creazione di un importante complesso
metallurgico.
20 giugno 1959 – Il Comitato dei Ministri per le Partecipazioni
Statali, accogliendo in pieno le conclusioni del Comitato tecnico consultivo
dell’IRI per la siderurgia, delibera la costruzione di un nuovo grande centro siderurgico – da affiancare agli altri
tre già esistenti a Cornigliano, Piombino e Bagnoli – avendone accertata la
convenienza sia nel quadro generale dello sviluppo economico, sia sotto il
profilo dell’economicità di esercizio. La località prescelta è Taranto, che
vince la concorrenza di altre aree del paese, sospinte dai parlamentari dei
territori, proprio per la sua ridente posizione geografica (due mari e un porto
già parzialmente attrezzato), nonché con l’accordo delle principali forze
politiche, la DC, che ne intravede un ricco potenziale clientelare e il PCI
che, con l’attuale Presidente della Repubblica Napolitano, all’epoca
responsabile delle politiche per il Mezzogiorno, auspica un polo di sviluppo
meridionale che radichi una cosciente classe operaia.
9 luglio 1960 – Posa della prima pietra del centro siderurgico di
Taranto
15 ottobre 1961 – Inaugurazione del tubificio, prima unità del
centro siderurgico Italsider di Taranto.
10 aprile 1965 – Inaugurazione ufficiale dello Stabilimento
siderurgico tarantino (con i due primi altiforni e l’Acciaieria LD già entrati
in funzione nell’ottobre 1964) da parte dell’allora Presidente della Repubblica
Giuseppe Saragat.
1974 – Termina la costruzione (“raddoppio”) di nuovi grandi impianti
produttivi Italsider, ma si viene a creare una forte ondata di disoccupazione
di ritorno. Le organizzazioni sindacali lanciano la ‘vertenza Taranto’,
giungendo, dopo una lunga serie di forti battaglie dei lavoratori, all’accordo
di mobilità del giugno 1977. Il
“raddoppio” e l’ammodernamento erano costati un investimento di 1.326 miliardi
di lire, destinato ad accrescere la capacità produttiva annua a 10,5 milioni di
tonnellate di acciaio; l’Ilva sarà (s)venduta, a metà degli anni ’90, sotto
l’ombrello ideologico ubriacante delle ‘privatizzazioni’ teorizzate a
‘sinistra’ da D’Alema, per una cifra intorno ai 700 miliardi di lire.
Anni 80 – La ‘vertenza Taranto’, nonostante la sbandierata
centralità nazionale della produzione di acciaio, non ferma il declino della
siderurgia pubblica: più di 23.000 dipendenti nel 1979, senza contare gli 8.000
dell’indotto, ridotti a neanche 12.000 dieci anni dopo, con all’esterno una
desertificazione provocata soprattutto dalla crisi dell’Arsenale della Marina
Militare e dalla dismissione della cantieristica navale, impiantate
storicamente nella città bimare dalla fine del 1800 e gli inizi del XX secolo.
1 agosto 1990 – con uno specifico decreto del governo approvato
dalla Commissione ambiente, Taranto viene ufficialmente riconosciuta “area a
rischio ambientale”.
14 marzo 1995 – per l’Italsider di Stato arriva l’ora della
liquidazione, dopo l’approvazione da parte dell’IRI di un nuovo piano
siderurgico: a prezzi di svendita e saldi (governo Dini) viene ceduta
all’industriale lombardo Emilio Riva tutta l’ILVA Laminati Piani, compreso
appunto il gigantesco IV Centro Siderurgico di Taranto.
3 marzo 2007 – l’associazione ambientalista tarantina ‘Peacelink’
rilancia l’allarme diossina a Taranto e le vicine aree urbane attraverso un
dossier che utilizza dati disponibili a livello nazionale ed europeo: la città
sarebbe passata dai 71,4 grammi/anno di diossina del 2002 ai 93 grammi/anno del
2005, il 90,3% rispetto al totale nazionale delle emissioni.
novembre 2007 – il comitato ‘Taranto futura’ lancia la proposta di
un referendum cittadino teso alla chiusura dell’Ilva.
16 dicembre 2008 – il Consiglio regionale della Puglia approva il
DDL della giunta Vendola che fissa limiti più severi per le emissioni
industriali inquinanti. E’ la cosiddetta “Legge anti-diossina”, che prevede che
tutti gli impianti in esercizio a partire dal 1 aprile 2009 (poi 30 giugno) non
possano superare la soglia di 2,5 nanogrammi di policloro-dibenzodiossina e
policloro-dibenzofurani per metro cubo d’aria.
(dati ricavati da Roberto A.
Raschillà, Il Siderurgico-Cinquant’anni
di acciaio in una città alla ricerca di se stessa, Scorpione ed., 2010)
I MODELLI DI SOLUZIONE PER TARANTO
Non è vero che in tutti questi
anni siano mancati investimenti in innovazione e ricerca per l’Ilva di Taranto:
il problema è che, sul mercato capitalistico, le quote di profitto reinvestite
non hanno riguardato né la salute dei lavoratori né l’ambientalizzazione.
L’Italsider di Stato ha consegnato ai privati un acciaio speciale di grande
qualità, con caratteristiche particolari ed in alcuni casi uniche e coperte da
segreto industriale. Il rovello è sempre stato il miglioramento dei risultati
operativi, dunque innanzitutto ritmi di lavoro più intensi e misure di
sicurezza ridotte, specie per le giovani maestranze assunte con contratti
precari. Prebende e corruttela per la propaganda in città attraverso organi di
informazione compiacenti, vere e proprie ‘voci del padrone’, (anche su questo
indaga la magistratura), sindacalizzazione cosciente intimorita con i reparti-confino
(il caso della palazzina-LAF). Tutto questo ha consentito di integrare e
sfruttare al meglio la fabbrica in ogni sua componente (organizzazione,
logistica, informatica, elettronica ed elettromeccanica, impiantistica), dando
maggiore flessibilità al ciclo produttivo. Nonostante l’avvio di questi
processi, però, la caduta tendenziale dei saggi di profitto della siderurgia a
livello mondiale avviene per eccesso di produzione e a causa dell’ingresso sul
mercato di nuovi prodotti sostitutivi dell’acciaio. Lo scopo di gran parte degli investimenti nei
processi e nei prodotti, l’utilizzo di sistemi avanzati di gestione e di
controllo della produzione., in questo quadro, è di assicurare competitività
internazionale, ricerca di commesse con più servizi al cliente. Altro che
salubrità dell’aria! Innovazione e investimenti sono stati finora finalizzati
al miglioramento del prodotto, alla sua maggiore quantità in tempi ridotti, al
minor prezzo sul mercato in rapporto alla sua qualità. Non certo in
ammodernamento degli impianti in chiave di ambientalizzazione.
Eppure, quanto dista Dangjin da
Taranto? Dangjin è una città della Corea del Sud a oltre 100 Km dalla capitale
Seul, sulla costa sudoccidentale. A Dangjin c’è l’acciaieria della Hyundai
Steel. Secondo il “Comitato dei cittadini liberi e pensanti” (il movimento con
simbolo l’ape-car, per intenderci), nella cittadina coreana vi è un modello di
soluzione per Taranto. Gli hangar che contengono i materiali ferrosi (i parchi
minerali, che a Taranto sono all’aperto, a ridosso della città) sono
rigorosamente chiusi: “Entriamo in un
enorme hangar in cui sono stipate due montagne di materiale grezzo, totalmente
importato e da cui dipende per il 60/70% il costo finale dell’acciaio. (..) Tutto
è rigorosamente coperto: se piove o c’è cattivo tempo, così non c’è nessuna
dispersione nell’ambiente e la qualità del materiale viene preservata. (..) C’è
poi un controllo dei fumi dei forni, filtrati con sistemi sofisticati per
evitare che le polveri inquinanti ricadano su chi lavora e sull’area
circostante.”[3]
Naturalmente per perseguire
questo modello sono necessari investimenti veri, una politica industriale e
tempi certi. Politiche lontane dalle volontà di questo governo “tecnico”, così
come dalla proprietà dei Riva, che dovrebbero sottrarre quote consistenti di
profitto all’ambientalizzazione. L’unico vero protagonista del risanamento
possibile è il soggetto operaio, che con la lotta può costringere le parti
(compresa la regione Puglia del governatore Vendola), pena la chiusura
dell’area a caldo, a intraprendere la strada unica possibile della
compatibilizzazione tra la salute, l’ambiente e il lavoro. Il lavoro come
strada di riscatto e non come ricatto.
ferdinando dubla, settembre 2012
[1]
F.Engels, già nel 1843, negli scritti raccolti ne La situazione della classe operaia in Inghilterra, visitando
Manchester, denunciava la vera ‘ratio’
dell’accumulazione capitalista e nello sfruttamento operaio e nell’inquinamento
espilicitava la vera essenza di un modello di civiltà caratterizzante
l’industrialismo legato al massimo profitto dei pochi e allo sfruttamento dei
molti. D’altra parte, anche il giovane Marx, nei Manoscritti parigini degli
stessi anni, descriveva, grazie al concetto-chiave di alienazione, la soppressione, in regime di proprietà privata, dello
spazio vitale degli uomini, così come sottolineava il carattere del lavoro alienato; concetti che saranno
ripresi in particolare nel I libro de Il
Capitale, ma legati anche a una più compiuta concezione materialistica
della storia, alle categorie di divisione del lavoro, critica dell’economia
politica e più in generale al conflitto capitale/lavoro. Non si possono
naturalmente ricavare dai fondatori del marxismo tutti gli elementi
indispensabili alla comprensione delle società del nostro secolo e della crisi
delle relazioni uomo/natura/scienza, ma sicuramente, ponendosi dal loro stesso
osservatorio interpretativo, è possibile annotare la genesi di un atteggiamento
irresponsabile fra una determinata organizzazione di relazioni umane e sociali
e le risorse naturali da cui quella stessa organizzazione dipende.
[2]
Antonella De Palma, La “cattedrale di
metallo e vetro” dove si lavora come 50 anni fa, Il Manifesto, 15/08/2012,
che conclude: “Bisogna anche dire che,
dei 42 impianti produttivi di proprietà Riva sparsi nel mondo, Taranto è
l’unico che utilizzi ancora il processo d’altoforno. Negli altri siti di proprietà del gruppo,
tutti di dimensioni molto minori, sono in uso forni ad arco elettrico, che
hanno un impatto ridottissimo sull’ambiente e sono ormai, in Italia, la
principale modalità di produzione di acciaio, in aziende che raramente superano
i due milioni di tonnellate di produzione annua.”
[3] “Alla Hyundai Steel, dove i materiali sono
chiusi negli hangar”, Il Manifesto, 19/08/2012, senza firma.
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