sabato 4 marzo 2017
GRAMSCI, DE MARTINO E L'ANALISI DELLE CLASSI SUBALTERNE MERIDIONALI
·
da Pompeo Giannantonio, "Rocco Scotellaro", Milano, Mursia,1986
ANTONIO
GRAMSCI
Antonio Gramsci parte da una critica al modo come si attuò l’unificazione italiana, che per Gobetti era stato un “Risorgimento senza eroi”, per Dorso, come s’è visto, una “conquista regia” e per lui una “mancata rivoluzione agraria”. In effetti l’alleanza tra borghesia settentrionale e i grandi proprietari terrieri consentì nel Mezzogiorno la permanenza di una struttura agraria arretrata, in cui il contadino subiva tutte le tristi conseguenze di una struttura feudale e reazionaria. Questa condizione, valutata e difesa dai ceti dominanti, permise lo sviluppo economico e l’industrializzazione del Nord, mentre l’immobilismo e l’emarginazione contrassegnavano di converso nel Mezzogiorno la grama vita delle sue popolazioni. Certamente il sacrificio del Mezzogiorno diede la possibilità al nostro Paese di uscire dallo stadio agricolo e inserirsi nel contesto delle nazioni industriali, ma la stagnazione sociale e l’inerzia fondiaria delle campagne meridionali distorsero lo sviluppo della nazione e ne accentuarono i mali antichi. In queste condizioni non fu possibile lo sviluppo omogeneo della società italiana, che viceversa marcò le sue differenziazioni e inasprì i suoi secolari contrasti. La depressione del Mezzogiorno risaliva, dunque, per Gramsci alla soluzione risorgimentale dell’organizzazione istituzionale e al privilegio allora concesso ad alcuni ceti a danno dei contadini affamati e indifesi. Si consolidò l’egemonia del capitale e si favorì l’industria a vantaggio esclusivo del Nord, per cui la restante Italia non avanzò sulla via del progresso, affondò sempre più nella sua arretratezza e si andò progressivamente disgregando. Gramsci, alla conclusione di questo complesso processo storico, osservava perciò che “il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale; i contadini che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione tra loro”. Occorreva, quindi mobilitare, il mondo rurale non solo per un’esigenza partitica e quindi di movimento politico, ma anche per rinnovare la coscienza nazionale e rendere i contadini protagonisti del proprio destino. In questa visione rivoluzionaria e civile s’inserisce il concetto dell’alleanza fra i contadini meridionali e gli operai settentrionali, che già Salvemini aveva teorizzato. Ma Gramsci, a differenza di Salvemini che mirava ad una democrazia agraria nel Sud e ad un’autonomia del ceto operaio nel Nord per una struttura più equilibrata e partecipativa della nazione, si proponeva con l’alleanza di abbattere il presente sistema per costruirne un altro, in cui la frattura fra Nord e Sud si potesse comporre su una convergenza di interessi e su una prospettiva di blocco sociale.
ERNESTO DE
MARTINO
Fu Ernesto De Martino con il mondo magico, edito nel 1948, a richiamare l’attenzione sull’etnologia, confutando da un lato le categorie storiografiche crociane, incapaci di comprendere l’universo primitivo, e valorizzando dall’altro i ceti popolari, esclusi fino ad allora da ogni seria indagine scientifica. L’esplorazione delle culture emarginate e l’interesse per le comunità contadine inducevano inevitabilmente il De Martino ad affrontare il problema meridionale, che per quelle genti primitive costituiva la secolare e sofferta storia di un’esistenza travagliata. Il volume del De Martino si veniva a collocare al centro di una sua ricerca antropologica, che, iniziata nel 1941 con Naturalismo e storicismo nell’etnologia si era consolidata, l’anno dopo la pubblicazione di Il mondo magico, con il saggio Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, suscitando polemiche e animando un ampio dibattito sui popoli primitivi. L’interesse dello studioso per il Mezzogiorno si andava sviluppando verso un’analisi del rapporto tra la politica e la cultura senza trascurare i complessi legami tra intellettuali e masse (..) alle condizioni delle classi subalterne e alle loro manifestazioni culturali. Con un percorso diverso da quello sociologico lo studio del De Martino si sofferma ad indagare nel tessuto delle tradizioni e delle costumanze della società meridionale, che diveniva laboratorio di un domestico lavoro di antropologia culturale. La selezione e la distinzione, che egli andava operando, tra cultura egemonica dei ceti dominanti e cultura subalterna dei ceti popolari coincidevano con la storicizzazione che egli auspicava della società contadina, perché occorreva “indagare nella sua propria sfera culturale, secondo un problema particolare, economico-sociale, religioso, artistico e così via”. La storicizzazione del primitivo non significava per il De Martino esaltazione del popolare, che conduceva all’ipostatizzazione di una statica civiltà contadina e quindi alla separazione tra intellettuali e popolo nella vicenda esistenziale, ma mirava a ricomporre le due componenti, dominatori e dominati, in un unico contesto storico. Il dissenso del De Martino con Levi era evidente e di questo disaccordo il primo individuava le ragioni intellettuali in quell’”irrazionalismo etnologizzante” tardo-romantico, che idoleggiava il primitivo come forza creativa delle origini umane e come valore assoluto nei confronti della civiltà moderna. Queste cognizioni, estranee alla tradizione culturale italiana, erano state teorizzate da Leo Frobenius e Luciano Lévy-Bruhl, erano state introdotte da noi nel secondo dopoguerra da Cesare Pavese e avevano esercitato una certa suggestione su Levi.
La magia, il tarantinismo, il pianto funebre, la jettatura, segnano il confine tra le due culture, la egemonica e la subalterna, e nel contempo rilevano le contraddizioni tra queste usanze arcaiche e le superiori conquiste del progresso, che tuttavia non riesce a sconfiggere o a soffocare le altre inferiori manifestazioni della società. Il graduale distacco del De Martino dal Croce, alla cui scuola si era formato, non coincise con l’adesione totale al marxismo, di cui in quegli anni andava pure scoprendo il valore, per cui anche la sua scelta politica non rappresentò una conversione ideologica. Le sue categorie intellettuali non saranno sostituite da quelle marxiane, né a queste chiederà strumenti euristici di analisi e di interpretazione. Nel Il mondo magico e nelle riflessioni successive la natura, secondo l’insegnamento hegeliano, è intesa come negatività e alienazione, quindi non si riconosce l’unità uomo-natura, anzi sull’antinomia fra cultura e natura si innesta il dramma del mondo primitivo. L’influsso marxiano su De Martino si può rilevare nella valutazione che egli diede della cultura in rapporto al folclore e ai ceti popolari subalterni, che gradualmente si andavano configurando nel suo pensiero come classe sociale per cui “il folklore rappresentava il riflesso, sul piano culturale, della dipendenza economica e politica di quelle classi, era cioè cultura servile di classi politicamente asservite”.* La sua analisi parte dunque dal rapporto tra situazione materiale e universo spirituale per approdare alla definizione dell’autonomia culturale nei riguardi dei processi economici. Occorre, perciò, prendere coscienza della realtà e delle esigenze dei diversi strati sociali senza isolarsi in visioni precostituite o chiudersi in formule dogmatiche per giungere di volta in volta a quella conoscenza dei fenomeni umani e delle loro manifestazioni. L’atteggiamento del De Martino dunque era di massima disponibilità e di estrema indipendenza nei riguardi del mondo subalterno, del quale voleva capire le ragioni e i sentimenti senza barriere ideologiche o parametri interpretativi. Questa ribadita autonomia intellettuale lo portava ad affermare che “la cultura tradizionale non può più contentarsi di una semplice scienza naturale del mondo popolare e della sua cultura. Queste masse irrompendo nella storia, portano con sé le loro abitudini culturali, il loro modo di comportarsi al mondo, e la loro ingenua fede millenaristica e il loro mitologismo, e persino certi atteggiamenti magici”.
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