#Carla #Pasquinelli #antropologa, si confronta con la critica alle forme della modernità e del dominio coloniale nell’interiorizzazione che l’Occidente ne fa per riprodurre narrazioni di violenza senza giustizia. All’incrocio tra Subaltern studies (con la lezione demartiniana) e postcolonial studies (richiamandosi al rapporto potere/sapere in Foucault e alle dinamiche dell’egemonia di Gramsci, così come alla violenza discorsiva della narrazione dell’Altro per l’autorappresentazione occidentale dell’orientalismo nella critica di Edward Said, ma con molte implicite suggestioni decostruzioniste proprie della filosofia di J.Derrida e della G. Spivak) nell’introduzione alla raccolta di saggi da lei curata, Occidentalismi, cerca di legare i nessi che possono condurre a un nuovo itinerario culturale, quello della critica postcoloniale alla subalternità, in nome non solo di una necessaria rivoluzione di sistema (capitalistico, imperialistico, occidentale) ma di un intero paradigma di civiltà, a partire dalla logica discorsiva che ne rivela l’essenza: in questa va inquadrata l’accusa di ‘disciplinamento’ imputata alla costruzione degli Stati-nazione e allo stesso statuto epistemologico delle scienze sociali.
/ Subaltern studies Italia /
LO SGUARDO
DELL’OCCIDENTE
(..) lo
sguardo che l’Occidente ha rivolto per secoli sulle altre culture, per
rispecchiarsi nell’ immagine deformata del proprio dominio. Ma pochi si sono
soffermati su questo sguardo che é passato inosservato come le persone su cui
si era un tempo posato. A richiamare la nostra attenzione su di esso sono stati
i postcolonial studies - quell’insieme composito di testi e autori impegnati a
decostruire quei paradigmi della Modernitá che hanno fornito le strutture di accoglienza
e di sostegno al dominio coloniale.
Per loro
quello sguardo é diventato il simbolo stesso della violenza dell’Occidente, una
“violenza epistemologica” , su cui il colonialismo ha fondato parte del suo
dominio. É stato il filtro, che ha selezionato le persone, negando ai più
dignità e riconoscimento, ed elargendo ad alcuni, non so quanto fortunati,
condiscendenza e complicità. Ma é stato anche il tramite dei rapporti
quotidiani tra colonizzatori e colonizzati, così come si venivano dispiegando
secondo le logiche di una ordinaria violenza.
Uno sguardo
panottico - per riprendere la metafora foucaultiana - a cui era stata affidata
non tanto la sorveglianza di moltitudini diseredate, che per rendere docili
sembravano bastare la miseria e l’esclusione, quanto il compito di mantenere le
distanze, di dosarle, e soprattutto di fare capire ai colonizzati che erano
fatti di una pasta differente da quella dei loro padroni.
La sua
cabina di regia era situata al punto di incontro tra due paradigmi forti della
modernità: lo Stato-Nazione e le scienze sociali, due istituzioni disciplinanti
il cui effetto combinato ha configurato un nuovo spazio discorsivo all’interno
del quale si é consumata l’appropriazione unilaterale del mondo circostante da
parte dell’Occidente sotto il segno della violenza. Una violenza che non é però
riconducibile a una mera logica di potere, spoliazione e assoggettamento delle
popolazioni colonizzate, ma rimanda a una rete piú ampia di riferimenti,
enunciati e rappresentazioni discorsive che contribuivano a rafforzare e
riprodurre le strutture politiche ed economiche del dominio coloniale.
La costruzione
discorsiva dell’Altro colonizzato è stata parte intrinseca della comprensione
del Noi, che ha potuto rappresentarsi come moderno, civilizzato, superiore,
sviluppato e progressivo solo in rapporto a un Altro - secondo una convenzione
consolidata per indicare quanti vivono al di fuori dei confini storici,
politici, culturali dell’Occidente - che è stato raffigurato come la negazione
di tutto quello che l’Europa immaginava o desiderava essere. Siamo debitori a
Edward Said di questa folgorante intuizione, che traspare dalle pagine del suo
Orientalismo, anzi ne costituisce il supporto, poiché senza la rifrazione
deformante del nostro sguardo sull’Oriente la cultura europea non avrebbe né
quella forza né quella identità che le viene da una contrapposizione ad esso
frontale e senza remissione.
L’Orientalismo
così come ce lo presenta Said non è altro che la metafora di quella violenza
che ha nutrito il nostro sapere dell’Altro. Solo facendo dell’Oriente “una
sorta di sé complementare e, per così dire, sotterraneo”, l’Occidente si è
potuto garantire una porta di accesso al sapere di sé. Perché la violenza che
ha alimentato le discipline - e che le discipline hanno a loro volta alimentato
- non ha plasmato solo la rappresentazione degli altri ma anche la propria.
Fuori dalle nostre teste e dai nostri libri l’Oriente non esiste, non più
dell’Occidente.
Sono
entrambi un’invenzione dell’Occidente. Ovvero non sono “qualcosa che
semplicemente c’è”, bensì l’espressione di <<uno stile di pensiero
fondato su una distinzione sia “ontologica” sia “epistemologica” tra l’Oriente
da un lato e l’Occidente dall’altro>>. Una distinzione, anzi una
contrapposizione che ha costituito il vertice ottico adottato stabilmente da
quanti - scrittori, filosofi, economisti, funzionari e amministratori
coloniali- si sono occupati di quella nebulosa di saperi, significati,
stereotipi, strategie di dominio che ha preso il nome di Orientalismo. Ma
attenzione, non si tratta di una astrazione e nemmeno di una fantasia degli
europei, << quanto piuttosto di un corpus teorico e pratico nel quale,
nel corso di varie generazioni, è stato effettuato un imponente investimento
materiale>>. Un investimento che - tiene a precisare Said- <<ha
fatto dell’orientalismo, come sistema di conoscenza dell’oriente, un filtro
attraverso il quale l’Oriente è entrato nella coscienza e nella cultura
occidentale >>.
da Occidentalismi, Carocci ed., 2005, pp.8/9
il testo
citato da Carla Pasquinelli è Edward Said, “Orientalismo”, (ed.originale in
lingua inglese, Pantheon books, 1978, 1ed. it. Bollati Boringhieri, 1991, 2ed.
it. Feltrinelli, 2002, entrambe le ed.it. tradotte da Stefano Galli)
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