Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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giovedì 25 novembre 2021

THE THIRD-WORLD WOMAN: l’agency della soggettività femminile autonoma e subalterna

  

 Can the subaltern Speak? della  Gayatri C. Spivak  letto da Miguel Mellino


Gayatri Chakravorty Spivak’s essay “Can the Subaltern Speak?” is one of the key theoretical texts in the field of postcolonial studies, by one of its most famous figures. It was first published in the journal Wedge in 1985, as “Can the Subaltern Speak?: Speculations on Widow Sacrifice”; reprinted in 1988 as “Can the Subaltern Speak?” in Cary Nelson and Larry Grossberg’s edited collection, Marxism and the Interpretation of Culture; and revised by Spivak as part of her “History” chapter in A Critique of Postcolonial Reason: Toward a History of the Vanishing Present, published in 1999.




Diversamente da Bhabha, Spivak cerca di gettare le basi di una critica postcoloniale, del progetto di una contro-storia anticoloniale, non tanto inseguendo una qualche traccia positiva del Subalterno nei diversi archivi coloniali, bensì dichiarando sin dall’inizio proprio l’impossibilità di portare a compimento una strategia di questo genere. Dal suo punto punto di vista, gli archivi storici e culturali occidentali non possono affatto contenere alcuna traccia della voce autentica (della resistenza, della parola, dell’agency) del vero subalterno-coloniale: dato che ciò che abbiamo al loro interno sono soltanto delle rappresentazioni di tale alterità. Occorre partire da questo presupposto per comprendere una delle sue affermazioni più note “ il subalterno non può parlare” (Spivak 1988,p.310). In effetti, nel suo Can the Subaltern Speak? (1988) Spivak ci propone una lettura femminista della storia coloniale in cui la reale figura della subalternitàun concetto ripreso in modo piuttosto originale dalle teorie di Gramsci- è costituita dalla “ donna del terzo mondo”. Prendendo spunto dalle vicissitudini coloniali tra le autorità britanniche e i nativi indiani sul fenomeno del rito della sati, Spivak suggerisce di pensare the third-world woman alla stregua di un significante, di un effetto discorsivo vuoto e fluttuante, nel senso che lungo la storia tutti (patriarcato locale, imperialismo, femminismo occidentale), tranne se stessa, hanno potuto parlare per lei. Attraverso tali espressioni, ciò che Spivak tenta di dirci è che la donna non-occidentale, subalterno tra i subalterni, è stata scritta e ri-scritta  tanto dalle società patriarcali locali quanto dall’imperialismo e anche dal femminismo occidentale senza aver mai raggiunto lo status di una piena soggettività autonoma. 

Dobbiamo precisare però che le sue conclusioni si fondano sull’analisi storica di un caso particolare:quello della Rani (regina) di Sirmur (regione della parte meridionale dell’ Himalaya). Si tratta della vicenda della moglie di un Rajah locale deposto dai britannici nei primi decenni del XIX secolo a causa dei suoi apparenti costumi “ barbari e dissoluti” che decide di disubbidire alle disposizioni delle autorità imperiali comunicando loro la sua volontà di farsi bruciare viva sulla pira alla morte del marito. Scandalizzati dalle intenzioni della regina di voler sottomettersi a un costume così “primitivo” e “selvaggio”, i funzionari tentano di dissuaderla dal suicidio. Il desiderio della Rani di diventare una sati- la pratica venne dichiarata illegale dall’Impero britannico nel 1829 con il beneplacito della borghesia indiana illuminata- non si è mai avverato, ma agli occhi di Spivak il suo caso appare sintomatico sia della condizione o dell’agency dei subalterni, sia della loro “assenza” all’interno dei registri storici o degli archivi ufficiali. Le tracce puramente fugaci e del tutto frammentarie lasciate dalla Rani (non si sa nemmeno il suo nome) nei documenti coloniali ci ricordano in modo eloquente che la soggettività dei veri subalterni non ha trovato posto (e certamente non ne può trovare) all’interno degli apparati discorsivi dominanti,che non fanno che riprodurre una visione del mondo del tutto estranea alle forme della loro “coscienza”. Così, Spivak ci chiede di pensare, alla stregua di questa sati mancata- contesa tra il patriarcato locale, l’imperialismo e il femminismo occidentale- a tutte “ le più povere donne del Sud”: chiunque nella storia ha potuto (e può tutt’ora) parlare per loro tranne loro stesse. É questo il motivo per cui la soggettività di queste donne non potrà mai venire fuori dai documenti storici. In sintesi, per Spivak, non è che i subalterni non abbiano parlato o non abbiano espresso forme di resistenza al dominio colonialista o al patriarcato locale, bensì i regimi discorsivi dominanti,per via di apparati concettuali unilateralmente selettivi,non sono riusciti ad ascoltare o a registrare la loro “voce”. Il silenzio delle donne subalterne nei documenti coloniali o nelle “storie ufficiali”,dunque, è soltanto la conseguenza di ciò che Spivak chiama un “fallimento cognitivo irriducibile” +(Guha, Spivak 2002,p.106)+ di vuoto originato dallo scontro o dall’incomunicabilità, per così dire, tra due universi di senso piuttosto diversi: quello dominante e quello subalterno . Se facciamo nostra questa ipotesi, sostiene l’autrice indiana, il primo compito di cui l’intellettuale postcoloniale o l’emergere della loro voce più autentica all’interno dei saperi occidentali moderni. Solo dopo una simile “frattura epistemologica” saremo in grado di leggere le vere forme di resistenza dei ceti subalterni,che per Spivak sembrano manifestarsi più attraverso pratiche e atteggiamenti “negativi”, ovvero mediante il “rifiuto” esplicito e/o implicito degli status e dei ruoli riservati loro dalla versione egemonica del mondo necessariamente più attraverso le vie dell’ exit - della “sottrazione”, “della defezione ”, dell’ “evasione” e dell’ “insurrezione spontanea” - che non attraverso quelle della voice  o “presa di parola” chiaramente esplicita o discorsiva. È così che la soggettività subalterna appare a Spivak come qualcosa di “irriducibilmente storico”, fluttuante, instabile, assente, dislocato, locale, incoerente e molteplice. E quindi come qualcosa di profondamente “intraducibile” e “irrecuperabile”. 

 

+ Guha, Spivak, Modernità e (post) colonialismo, a cura di Sandro Mezzadra, Ombre Corte, 2002+

 

da PASQUINELLI, MELLINO , CULTURA - Introduzione all’antropologia, Carocci, 2019 (1^ ed. 2017),

par.16.7, pp. 269/271 

 

 


Gayatri Chakravorty Spivak (Calcutta,1942) al Goldsmiths College di Londra nel 2007


scheda a cura di 


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