Gli autori che fanno parte dei
Subaltern Studies propongono nuovi modi di considerare le categorie giudicanti
della storia, facendo emergere il ruolo degli individui e dei gruppi emarginati
MA QUEL
CONFRONTO ‘S’HA DA FARE’ (1.)
Nell’ambito di un confronto
possibile e necessario fra l’opera e la metodologia di lavoro storico del più
vicino degli allievi e collaboratori di Ranajit Guha, Dipesh Chakrabarty, lo
studioso indiano dell’Università di Chicago autore dell’importante saggio “Provincializzare
l’Europa” (Meltemi, 2016 - ed.or. 2000) ; e l’opera e la metodologia storicista
della ricerca antropologica ed etnografica di Ernesto de Martino, da noi
considerato importante e internazionale figura di intellettuale e scrittore dei
Subaltern studies, in particolare per la cosiddetta ‘trilogia meridionalista’,
sottoposta, specie negli ultimi tempi, continuamente ad interpretazione critica
da chi separa la antropologia filosofica e l’ontologia etnologica e i
fondamenti teoretici dello stesso autore. In effetti il confronto Chakrabarty -
de Martino è sostanzialmente funzionale a un tema posto dallo stesso Ranajit
Guha e su cui insiste Chakrabarty: il ruolo della religione e ancor di più
della ritualità simbolica nella 1. ricostruzione narrativa dei subalterni; 2.
traduzione nell’impegno politico-culturale alla soggettività ‘agente’ dei
subalterni.
Se ne occupa una tesi di laurea
delle Università di Padova e Cà Foscari di Venezia (Corso di Laurea Magistrale
interateneo in Scienze delle Religioni) di Enrico Brisol (relatrice la prof.ssa
Chiara Cremonesi): “Ernesto De Martino e Dipesh Chakrabarty: un confronto
indispensabile ed inadeguato” che citiamo e titoliamo per una parte specifica.
/
fe.d. #SubalternStudiesItalia
pubblicata
su Academia.edu
L’Ethos del trascendimento, fondamento teoretico e
ontologico dell’antropologia filosofica di de Martino
- L'origine
del concetto di “ethos trascendentale del trascendimento della vita nella
valorizzazione intersoggettiva” (questa la formulazione completa) è da
rintracciarsi nella ricerca di una concezione universalmente umana della
presenza, del fondamento dell'esserci-nel-mondo, vale a dire l'ultima e
inderivabile pensabilità e operabilità dell'esistere. Il percorso che ha
portato De Martino alla definizione di questo elemento è tortuoso e segnato
tanto dall'influenza della filosofia di Croce quanto di quella esistenzialista
di Heidegger e di Paci, che egli interpreta con una certa libertà prendendo in
prestito riflessioni che assimila e riutilizza con rinnovata originalità in un
proprio linguaggio. Per esempio è dall'esistenzialismo positivo italiano, in
polemica con quello negativo di Heidegger, che De Martino acquisisce come
fondamento dell'umana esistenza la nozione di “dover essere”, o meglio di “doverci-essere-nel-mondo”,
che permette quello slancio valorizzatore intersoggettivo della vita, quella
sempre rinnovantesi progettazione comunitaria dell'operabile, quell'emergere
dalla situazione mediante il vario impegno di deciderla, secondo valore, che per
un verso fondano la finitezza del singolo e la inesauribilità del suo compito
operativo e per un altro verso garantiscono l'apertura del singolo all'essere.
Gramsci e Said: la nascita degli
studi subalterni
- «Gli studi
subalterni (e postcoloniali) ci riguardano?». Questo è il titolo dell'articolo
pubblicato sulla rivista DeriveApprodi del 2003 da Marcello Tarì + [nota
redazione] + che si interroga sullo statuto e l'utilità “per noi” di questi
studi. Per rispondere a questa domanda, sapientemente posta e discussa
nell'articolo, prima dobbiamo cercare di capire cosa intendiamo quando parliamo
di studi subalterni e postcoloniali e quale sia la loro origine. Per far ciò
non ci discosteremo di molto dalle riflessioni di Ernesto de Martino che è uno
dei precursori di questi studi insieme ad alcuni antropologi italiani del
secondo dopoguerra che attraverso il richiamo ad Antonio Gramsci (1891 – 1937)
e alle discussioni riguardo al marxismo, cominciano a prendere sul serio i modi
di vita subalterni e il folklore, con una particolare attenzione al contesto
meridionale italiano.
+ nota: vedi in questo blog
PER
UN DIBATTITO CRITICO SUI SUBALTERN STUDIES E POSTCOLONIAL STUDIES
#RanajitGuha
#ErnestoDeMartino
#DipeshChakrabarty
Nella
fotocomposizione #SubalternStudiesItalia,
in senso orario, Dipesh Chakrabarty, Ernesto de Martino, Ranajit Guha
MA QUEL
CONFRONTO ‘S’HA DA FARE’ (2.)
C’È STORICISMO E STORICISMO
- La critica
al modo unilaterale di concepire la storia [è] alla base del progetto degli
subaltern studies: la ricerca sul tema del subalterno, sulla sua capacità di
esprimersi, portata avanti prima da Gramsci e successivamente da Said, è
fondamentale per il sorgere di questi studi. In tal modo anche gli autori che
fanno parte del collettivo indiano propongono nuovi modi di considerare le
categorie giudicanti della storia, facendo emergere il ruolo degli individui e
dei gruppi emarginati. È in questo orizzonte che l’opera Provincializzare l’Europa, proponendo un tipo di storia alternativa
e particolare, la storia 2, da affiancare alla storia 1, cioè quella analitica
e generale europea, è sorta e diventata indispensabile.
Naturalmente,
nel portare avanti un confronto simile non possiamo dimenticare i diversi
ambienti culturali, sociali e storici nei quali i nostri autori hanno scritto.
Chakrabarty nasce a Calcutta nel 1948, anno della pubblicazione de Il mondo
magico, ed esattamente quarant'anni dopo la nascita di De Martino avvenuta nel
1908; inoltre, egli pubblica il volume che abbiamo analizzato, Provincializzare l'Europa, nel 2000,
quindi 35 anni dopo la morte dello studioso italiano avvenuta nel 1965. Li
separano circa due generazioni nelle quali, se dovessimo valutare con
attenzione, il mondo e la civiltà umana hanno subito la trasformazione più
considerevole mai registrata dalla storia. E ancora, ovviamente, li separano
alcune migliaia di chilometri, anche se più importante della distanza fisica è
rilevare il fatto che Chakrabarty cresce in un paese non occidentale e
appartenente all'Impero Britannico, vale a dire colonizzato, ufficialmente fino
all'anno prima della sua nascita (1947). Queste distanze “spazio-temporali” hanno
evidentemente comportato anche degli orientamenti di studio differenti, almeno
in apparenza: mentre De Martino, crociano della prima ora, si è occupato
principalmente di storia, etnologia e antropologia delle religioni, Chakrabarty
si dedica soprattutto al problema storiografico negli studi postcoloniali,
ovvero a ripensare il ruolo dei popoli subalterni, in particolare quelli
indiani, all'interno della narrazione storica dominante. Dico “apparentemente
differenti” perché, da un certo punto di vista, la cosiddetta “trilogia
meridionalista” può essere letta come un progetto che anticipa quello degli
autori postcoloniali, in quanto rilegge l'arcaico, l'oppresso, il subalterno
presente nel sud Italia in chiave marxista tenendo presente, come evidenziato per
esempio da Pizza e Signorelli, quanto scritto nei testi di Gramsci che
cominciavano a circolare proprio nel periodo in cui De Martino si avviava alla
ricerca etnografica in meridione.
Ciononostante,
se consideriamo questi due autori solamente in relazione alla distanza
temporale e culturale che li separa, e che, tuttavia, deve essere sempre ben
presente, non ci accorgiamo degli aspetti che li accomunano. Il più importante
e fondamentale per la prospettiva storico-religiosa, quella di cui ci occupiamo
qui, è il tentativo di superare la visione eurocentrica della storia. Essi
cercano di superare l'etnocentrismo culturale europeo perché frutto di una
prospettiva storiografica che tende esclusivamente alla correttezza scientifica
e quindi alla verificabilità razionale dei fatti. Con ciò non intendo dire che
tale posizione venga considerata errata sia da Chakrabarty che da De Martino;
questi autori piuttosto, portano alla luce i problemi che hanno individuato
nell'utilizzo di questa metodologia, come per esempio quello relativo al ruolo,
al peso, all'influenza, al potere, che detiene il soggetto in una simile
narrazione. La questione relativa all'etnocentrismo, e di conseguenza
all'eurocentrismo, è, dunque, di primaria importanza per entrambi gli autori.
Essi, seppur sviluppando argomentazioni differenti, ritengono che il problema
che deriva da una simile concezione della storia sia dovuto a quello che
possiamo definire naturalismo o atteggiamento scientifico, oppure, più in
generale, al peso che hanno avuto la scienza e la ragione nella creazione delle
categorie giudicanti delle moderne scienze storiche e sociali e di conseguenza
dello storicismo.
Enrico Brisol
*dalla tesi
di laurea delle Università di Padova e Cà Foscari di Venezia (Corso di Laurea
Magistrale interateneo in Scienze delle Religioni) (relatrice la prof.ssa
Chiara Cremonesi): “Ernesto De Martino e Dipesh Chakrabarty: un confronto
indispensabile ed inadeguato”, § corrispondenti -
pubblicata
su Academia.edu
In conclusione
mi sembra che tra le prospettive dei due autori emerga, almeno
grossolanamente, una comune critica al modo di affrontare l'altro-da-sé tipico
della modernità europea. Il punto di convergenza è la critica mossa da entrambi
allo storicismo e con esso all'eurocentrismo, anche se nell’autore italiano la
valutazione negativa è rivolta allo storicismo “pigro”, a favore di uno
“eroico”. In De Martino l'analisi parte dall'evidenziare il ruolo e
l'importanza dell'atteggiamento naturalistico rispetto allo studio etnografico
per poi ampliare lo sguardo, ne La fine del mondo, all'influenza delle scienze
positive sulla filosofia, richiamando l'attenzione sul processo di
universalizzazione e sulla sicurezza nel giudizio che ne scaturisce. In
Chakrabarty la critica è rivolta alla prospettiva storicistica per intero,
intendendo con questo termine, forse troppo semplicisticamente, l'intera
prospettiva storica moderna. Anch'egli, in accordo con lo studioso italiano,
individua nell'universalizzazione delle categorie giudicanti il vero problema
di tale prospettiva storica; le sue osservazioni tuttavia sono in parte
differenti e riguardano principalmente l'origine della coscienza storica
europea, ovvero le espressioni moderne che ho schematicamente classificato con
il termine anacronismo e con l’atteggiamento scientifico-razionale. Mi spingerei
ad affermare, senza troppe cautele, l'ammetto, che in ambedue gli autori la
classica divisione tra natura e cultura, fondamentale per la modernità europea,
sembra essere messa in discussione o perlomeno sfumata.
Vorrei infine ricordare che in nessun caso i due autori rivendicano una
prospettiva relativistica. De Martino indica più volte nei suoi testi
l'indispensabilità di una storia con basi solide per uscire dalla perdita della
domesticità del mondo contemporaneo; una storia che naturalmente deve essere
consapevole della sua portata e dei propri limiti per poter proporre un
confronto, una comparazione, con gli altri modi di essere uomini in società,
ovverosia la “via difficile dell’umanesimo etnografico”. E lo stesso vale per
Chakrabarty che mantiene e certo non cancella la storia analitica, la storia 1,
la storia europea, “colpevole” di eliminare le differenze e di essere
incompleta, ma comunque indispensabile per affrontare gli essenziali problemi
sociali della giustizia e dell'equità nei paesi non-occidentali. Ivi, pag.70
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