Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

Powered By Blogger

sabato 17 giugno 2023

PER UN DIBATTITO CRITICO SUI SUBALTERN STUDIES E POSTCOLONIAL STUDIES

 


Marx e il marxismo, Gramsci, Foucault e Althusser, Deleuze e il decostruzionismo, moltitudine e classe, operaismo e postoperaismo, tra antropologia, storia e filosofia

Gli Studi Subalterni (e postcoloniali) ci riguardano? (1^parte)

uno scritto di Marcello Tarì

-Lo storico dell’Autonomia operaia interpreta i Subaltern studies e i Postcolonial studies.         /Subaltern studies Italia /

- Come è noto i Subaltern Studies – così come anche i Postcolonial Studies – sono nati in un preciso milieu geo-politico; a parte il caso di Edward Said, il quale risulta piuttosto esserne fra gli ispiratori, si tratta per la gran parte di intellettuali indiani – alcuni dei quali insegnano in università occidentali – che tra gli anni ’70 e ‘80 del secolo scorso hanno portato un attacco frontale alla tradizione storica nazionalista indiana e a quelli che erano e sono chiamati Area Studies, veri e propri studi governamentali dedicati all’analisi storico-antropologica di enormi aggregati di territori e popolazioni che, anche in tal modo, sono stati unificati/esotizzati dai poteri transnazionali.

Furono fondate così riviste importanti come Subaltern Studies e Public Culture, dei veri e propri collettivi di ricerca, le quali hanno potuto contare sulla direzione editoriale di alcuni studiosi di grande levatura – intellettuale e militante – come Ranajit Guha e Arjun Appadurai. Il risultato del lavoro dei collettivi fu anzitutto quello di costruire una specie di Comune Epistemologica che potesse permettere alle nuove generazioni di intellettuali, indiani e non solo, di smarcarsi dalla tradizione di studi nazionalista interna e, allo stesso tempo, di esprimere un alto livello di conflittualità con quell’apparato di saperi – dominante a livello mondiale – che continuava a offrire una immagine orientalista e sottosviluppista delle moltitudini asiatiche del tutto funzionale alla “logica” della subalternizzazione.

Il marxismo è stato specie per i subalternisti, ma in grande misura anche per i postcoloniali, un punto di riferimento essenziale (e per i primi in particolare un gramscianesimo revisited) ma lo è stato in modo assolutamente non convenzionale; nei loro studi, infatti, la tensione con gli scritti di Marx (in particolare il I libro del Capitale e i Grundrisse) è sempre presente in quanto stimolo alla ricerca ma anche di critica positiva alle varie ermeneutiche marxiste, ufficiali o meno che fossero. La cosa essenziale per i subalternisti è sempre il situare la critica dell’economia politica marxiana e mai assumerla ideologicamente, ovunque e comunque, come fosse la chiave dell’universale (cfr. ad esempio il saggio di Dipesh Chakrabarty, Conditions for Knowledge of Working-Class Condition, in Guha-Spivak Selected Subaltern Studies, New York-Oxford 1988). Un simile atteggiamento di vigilanza epistemica si deve anche alla loro precoce ricezione dell’opera di Michel Foucault che in India appare essere stata tanto distante da quella, in confronto davvero poco impegnativa, dei “cugini” anglosassoni dei Cultural Studies quanto vicina a quella di un certo marxismo italiano che tra gli anni Ottanta e Novanta ha rinnovato profondamente la pratica teorica operaista (non è certo un caso, infatti, che entrambe le tendenze convergano oggi verso una “politica delle moltitudini”).

Oggi è piuttosto difficile delineare una precisa linea di demarcazione tra gli orientamenti, quello dei subalternisti e dei postcoloniali: giustamente uno è entrato nell’altro e viceversa – il sottotitolo del libro Provincializing Europe di Chakrabarty, che è uno dei fondatori degli studi subalternisti, recita infatti Postcolonial Tought and Historical Difference (Princeton University Press, Princeton-Oxford 2000) – anche se l’impressione è che alcuni tra i nomi di spicco degli studi postcoloniali, ad esempio Homi Bhabha, sembrano essere lontani dall’atmosfera decisamente marxiana che contraddistingue, pur con molte sfumature, il resto degli autori e autrici coinvolti nell’avventura subalternista. Il tipo di relazione tra i due orientamenti in definitiva a me sembra si possa descrivere come di alleanza piuttosto che di identità come invece spesso si tende a fare, specie nella loro ricezione accademica.

Forse è quell’aria di famiglia – ereticamente marxiana, cioè – a rendere gli studi subalterni qualcosa che in ogni caso “ci riguarda”; almeno per chi si riconosce come prodotto e tuttora produttore, magari adulterato, di quella storia. Di quell’altra storia, ovvero, che ha come soggetto i subalterni che si ribellano praticamente alla logica del capitale anteponendo a questa l’autonomia delle moltitudini. In ogni caso gli studi subalterni e quelli postcoloniali sono divenuti sia parte essenziale di quella riflessione comune che ha portato a riconoscere un cambio di paradigma radicale nelle forme di dominio transnazionale – e dunque delle modificazioni nell’espressione della resistenza delle moltitudini – che un corpus di studi di fondamentale importanza per comprendere i dispositivi di comando attivati dai poteri capitalistici durante la fase precedente – caratterizzata dall’imperialismo coloniale – ed una delle fondamentali lezioni dei subalternisti, quindi, è consistita nella messa in evidenza di come questi dispositivi siano stati compresi – molto spesso anche da sinistra – tramite una dialettica “bianca” che ha tradotto sia le dinamiche di sfruttamento che la singolarità delle forme di resistenza nei domini coloniali in qualcosa di poco o affatto corrispondente alla realtà, almeno così come vissuta dalle soggettività subalterne.

(fine 1.a parte)

 

LA CRITICA e IL DIBATTITO

Gli Studi Subalterni (e postcoloniali) ci riguardano?

(2^parte: Dall’Italia all’India e ritorno)

I temi trattati in questa sezione: dalla demologia alla “moltitudinologia” passando per le teorie di Toni Negri. La critica al ‘revisionismo subalternista’ deve approdare alla “moltitudinologia“?: per Tarì la resistenza al presente non puo’ che partire da qui, ma è proprio questo il locus del dibattito critico, almeno per chi non crede a molti dei sofismi del post-operaismo (cosiddetto).

- Alcuni antropologi italiani hanno recentemente riconosciuto negli studiosi subalternisti degli inconsapevoli continuatori di quella particolare e felice stagione dell’antropologia italiana che bisogna far risalire a studiosi come Ernesto De Martino, Alberto M. Cirese, Luigi M. Lombardi Satriani e Alfonso M. Di Nola e fuori dell’ambito universitario a Gianni Bosio, il cui incompiuto Il Trattore ad Acquanegra è forse tra i lavori che, almeno per alcuni versi, più si avvicina a quel certo “stile” che caratterizza la storiografia antropologica dei Subaltern Studies. Sono stati, infatti, tutti intellettuali militanti che nei decenni immediatamente successivi al secondo dopoguerra dedicarono i loro sforzi nel cercare di costituire – attraverso il richiamo a Gramsci, spesso prima ancora e al di là dello stesso Marx – una scienza storico-antropologica dei subalterni politicamente impegnata (cfr. F. Mugnaini in Clemente-Mugnaini, Oltre il folklore, Roma 2001, p. 15).

-È Ernesto De Martino che in Italia comincia a prendere sul serio i modi di espressione subalterni e a valutarne positivamente la loro autonomia. Le sue considerazioni eretiche sul “mondo magico”, così come il suo approccio ontologico alle tematiche etnologiche, inoltre credo non stonerebbero accanto a quelle di alcuni subalternisti contemporanei circa l’intreccio “reale” tra credenza, autonomia e rivolta che segna tante storie del proletariato globale. Così come importanti sono, ancora oggi, le considerazioni che Gianni Bosio svolgeva a cavallo degli anni Settanta sulla necessità di distogliere lo sguardo dal passato per concentrare l’attenzione della ricerca storico-antropologica comunista direttamente sul terreno della città-fabbrica; una considerazione che, riportata al presente, si traduce come dislocamento integrale sul piano della metropoli dove, appunto, ritroviamo gli studi postcoloniali.

- Quella prospettiva di studi militanti – per motivazioni che meriterebbero un approfondimento – in Italia entrò in una irreversibile crisi all’inizio degli anni ’80, paradossalmente proprio mentre quegli studiosi del mondo subalterno nell’Asia del Sud iniziavano a pubblicare la loro rivista e quindi a essere celebrati nelle più prestigiose università dell’occidente.

- Una cosa è certa, mi pare: il gramscianesimo dei subalternisti è passato gioiosamente attraverso la temperie poststrutturalista e decostruzionista, cosa che gli studiosi italiani di oggi sono invece molto restii a cogliere come elemento essenziale per l’analisi, trattandolo generalmente in maniera piuttosto superficiale (una nota a piè di pagina e via) e spesso depurandolo della sua intrinseca prospettiva conflittuale preferendogli, al limite, una lettura estetizzante. Del resto anche Marx e lo stesso Gramsci oggi non sembrano più essere tanto frequentati dall’antropologia italiana ufficiale. Ecco, questo passaggio “revisionistico” compiuto dai subalternisti e dai postcoloniali in relazione all’eredità marxista, o meglio, tramite la sua reinvenzione dal basso, è uno dei motivi per cui ritengo di grande importanza la ricezione di quegli studi nell’ambito italiano: forse è anche attraverso questi nomi che facciamo fatica a pronunciare correttamente, a quelle lotte disperse nella storia decentrata e decentrante degli altri, che si riuscirà finalmente a introdurre in modo non superficiale le turbinose correnti del poststrutturalismo e del marxismo postoperaista anche nel piano degli studi storico-antropologici nostrani. E così, forse, si potrà comprendere non solo qualcuno dei motivi per cui gli studi subalterni italiani non sopravvissero alla crisi della fine degli anni ’70 ma, anche e specialmente, si potrà immaginare cosa oggi potrebbero invece essere: una moltitudinologia e non più una demologia, innanzitutto.

- Non meno importante in questa considerazione critica – al contrario – è il fatto che Chakrabarty, Guha, Spivak, Chatterjee, Appadurai e i loro compagni di viaggio si sono mostrati molto più attenti della maggior parte degli storici e degli antropologi occidentali – e italiani in particolare – sia alla “ragionevolezza” dell’insurrezione proletaria degli anni ’60 e ’70 che alla forza teoretica e rivoluzionaria delle argomentazioni foucaultiane e deleuziane: anche per questo Toni Negri può oggi dire, con ragione, che i Subaltern Studies rivestono nella storiografia proletaria mondiale lo stesso ruolo che i Quaderni Rossi hanno nella genealogia delle scienze sociali insurrezionali (Toni Negri, I codici svelati del colonialismo, “il Manifesto” 12-12-2002). Va da sé che questa conclusione deve intendersi nel senso che i Subaltern Studies, come già i Quaderni Rossi, ci consegnano non solo dei preziosi studi ma specialmente dei formidabili strumenti di lotta: studi da utilizzare per aprire i retrobottega della storia conflittuale della globalizzazione e, allo stesso tempo, come un esercizio di memoria su noi stessi che possa indicarci delle nuove forme possibili di resistenza al presente. 

(fine 2.a parte)

 

LA CRITICA e IL DIBATTITO

Gli Studi Subalterni (e postcoloniali) ci riguardano?

(3^ e ultima parte, argomento: Partha Chatterjee: come nasce il concetto di negoziazione della “governamentalità”)

In quegli stessi anni ‘70 Chaterjee e i suoi colleghi scoprirono Gramsci, Althusser e Foucault e il suo rapporto con l’occidente, sino ad allora mediato principalmente dallo studio dell’opera di Marx, fu contornato, attraversato, arricchito e criticato tramite le riflessioni suscitate da questi altri autori. Era però cominciato anche un decennio molto duro, segnato dalla sconfitta del maoismo radicale – cosa che ebbe una ricaduta negativa su tutti i movimenti antagonisti nel contesto postcoloniale – e in India dalla violenta repressione delle opposizioni ad opera del governo di Indira Gandhi. In questo contesto Chatterjee comprende che oramai «la ricerca in scienze sociali doveva la sua pertinenza non divenendo meno ma più politica» ed è a partire da questa esigenza comune a molti che nacque il gruppo di Subaltern Studies.

Il lavoro del collettivo fu accolto dal resto dell’accademia indiana con moltissima ostilità. Gli storici della sinistra ufficiale vi videro, giustamente, una aperta sfida alle loro tesi sullo Stato-Nazione indiano e mossero ai ricercatori del collettivo l’accusa di essere una emanazione neocolonialista della famigerata Scuola di Cambridge ma anche di essere, addirittura, dei comunisti “castristi” e separatisti (non ricordano proprio nulla, a noi, questo genere di accuse infamanti?). Tutto ciò però, dice Chatterjee, dimostrava esattamente un fatto: i Subaltern Studies erano riusciti a toccare uno dei punti deboli dell’ambiente accademico e politico dominante che per la grandissima parte era composto, appunto, da nazionalisti di destra e di sinistra legati a una politica e a una cultura che tutto poteva essere tranne che antagonista e autonoma.

Secondo lui, quindi, il fatto che le loro ricerche, spesso scritte in lingua bengali, a un certo punto iniziarono a essere molto conosciute all’estero fu dovuto, da un lato, all’emergere degli studi postcoloniali nelle università americane attorno all’inizio degli anni ’80 e che divennero velocemente un fenomeno mainstream e, dall’altro, al rinato interesse storico e teorico per il fenomeno del nazionalismo. Potremmo aggiungere che era senz’altro dovuto anche al contemporaneo processo di costituzione imperiale e del suo limite ontologico: Seattle non era lontana nel tempo e, oramai, nemmeno nello spazio. Così Chatterjee si rimise in viaggio: Stati Uniti, Gran Bretagna, Europa (è lui che distingue, evidentemente, tra Gran Bretagna e Europa).

Secondo Chatterjee, comunque, il successo di audience degli studi sull’Asia del Sud in occidente non si deve al fatto che i campus sono da qualche anno affollati da studenti e professori di origine asiatica ma all’interesse crescente delle scienze sociali per quelle tematiche che sono state portate alla luce da loro attraverso il prisma delle lotte anticoloniali: il nazionalismo, appunto, ma anche lo sviluppo e il significato stesso della modernità. Certamente c’è qualcosa di sottilmente ironico in tutto questo interesse da parte occidentale, poiché esso è dovuto in gran parte anche «alla disciplina amministrativa e alla passione civilizzatrice del potere coloniale che ha trasformato la storia indiana in un archivio illimitato delle realizzazioni e delle aberrazioni della modernità occidentale» .

Quello che comunque Chatterjee tiene a dire è che il suo posto nella repubblica mondiale delle lettere, anche considerando questo successo globale degli Studi Subalterni, è nei fatti sempre più connesso alla sua nazionalità, o meglio al suo (non)luogo di vita, cosa che in gioventù lo avrebbe infastidito ma che oggi lo porta invece a considerare meglio la sua singolarità in quella particolare forma di repubblica mondiale composta dagli intellettuali, diasporici o meno che siano: «Anche quando scrivo su Hegel o Marx, Locke o Rousseau, Gramsci o Foucault, mi è difficile farlo, salvo che in rapporto con degli episodi e delle esperienze che sono, per così dire, sempre tangenti, cioè a margine di quello che questi grandi pensatori hanno scritto. È a forza di immergermi nelle realtà storiche della vita indiana e negoziando il mio posto nella repubblica mondiale delle lettere che ho preso coscienza di essere diventato un universitario indiano». Solo così ha senso, forse, quella tensione tra “locale” e “globale” così complicata da definirsi positivamente.

fine extract.

 


 - Marcello Tarì è ricercatore indipendente. Ha vissuto negli ultimi anni tra la Francia e l’Italia. È autore di numerosi saggi. Per DeriveApprodi ha pubblicato il libro, tradotto in più lingue, Il ghiaccio era sottile. Per una storia dell’autonomia (2012) e Non esiste la rivoluzione infelice. Il comunismo della destituzione (2017).

Pubblicato su “DeriveApprodi”, n. 23, 2003

 

su questo blog vedi anche:

SubalternStudies, Modernità e (post)colonialismo


LA SALAD’ASPETTO della STORIA: i Postcolonial studies mettono in crisi irreversibilel’unilinearita’ della ‘civilizzazione’


FOUCAULTa CALCUTTA: Partha Chatterjee e la ‘politica dei governati’






Nessun commento:

Posta un commento