Marx
e il marxismo, Gramsci, Foucault e Althusser, Deleuze e il decostruzionismo, moltitudine
e classe, operaismo e postoperaismo, tra antropologia, storia e filosofia
Gli
Studi Subalterni (e postcoloniali) ci riguardano? (1^parte)
uno scritto di Marcello Tarì
-Lo
storico dell’Autonomia operaia interpreta i Subaltern studies e i Postcolonial
studies. /Subaltern studies
Italia /
- Come è noto i
Subaltern Studies – così come anche i Postcolonial Studies – sono nati in un
preciso milieu geo-politico; a parte il caso di Edward Said, il quale risulta
piuttosto esserne fra gli ispiratori, si tratta per la gran parte di
intellettuali indiani – alcuni dei quali insegnano in università occidentali –
che tra gli anni ’70 e ‘80 del secolo scorso hanno portato un attacco frontale
alla tradizione storica nazionalista indiana e a quelli che erano e sono
chiamati Area Studies, veri e propri studi governamentali dedicati all’analisi
storico-antropologica di enormi aggregati di territori e popolazioni che, anche
in tal modo, sono stati unificati/esotizzati dai poteri transnazionali.
Furono fondate così
riviste importanti come Subaltern Studies
e Public Culture, dei veri e propri
collettivi di ricerca, le quali hanno potuto contare sulla direzione editoriale
di alcuni studiosi di grande levatura – intellettuale e militante – come
Ranajit Guha e Arjun Appadurai. Il risultato del lavoro dei collettivi fu
anzitutto quello di costruire una specie di Comune Epistemologica che potesse
permettere alle nuove generazioni di intellettuali, indiani e non solo, di
smarcarsi dalla tradizione di studi nazionalista interna e, allo stesso tempo,
di esprimere un alto livello di conflittualità con quell’apparato di saperi –
dominante a livello mondiale – che continuava a offrire una immagine
orientalista e sottosviluppista delle moltitudini asiatiche del tutto
funzionale alla “logica” della subalternizzazione.
Il marxismo è stato
specie per i subalternisti, ma in grande misura anche per i postcoloniali, un
punto di riferimento essenziale (e per i primi in particolare un gramscianesimo
revisited) ma lo è stato in modo assolutamente non convenzionale; nei loro
studi, infatti, la tensione con gli scritti di Marx (in particolare il I libro
del Capitale e i Grundrisse) è sempre presente in quanto stimolo alla ricerca
ma anche di critica positiva alle varie ermeneutiche marxiste, ufficiali o meno
che fossero. La cosa essenziale per i subalternisti è sempre il situare la
critica dell’economia politica marxiana e mai assumerla ideologicamente,
ovunque e comunque, come fosse la chiave dell’universale (cfr. ad esempio il
saggio di Dipesh Chakrabarty, Conditions for Knowledge of Working-Class
Condition, in Guha-Spivak Selected Subaltern Studies, New York-Oxford 1988). Un
simile atteggiamento di vigilanza epistemica si deve anche alla loro precoce
ricezione dell’opera di Michel Foucault che in India appare essere stata tanto
distante da quella, in confronto davvero poco impegnativa, dei “cugini”
anglosassoni dei Cultural Studies quanto vicina a quella di un certo marxismo
italiano che tra gli anni Ottanta e Novanta ha rinnovato profondamente la
pratica teorica operaista (non è certo un caso, infatti, che entrambe le
tendenze convergano oggi verso una “politica delle moltitudini”).
Oggi è piuttosto
difficile delineare una precisa linea di demarcazione tra gli orientamenti,
quello dei subalternisti e dei postcoloniali: giustamente uno è entrato
nell’altro e viceversa – il sottotitolo del libro Provincializing Europe di
Chakrabarty, che è uno dei fondatori degli studi subalternisti, recita infatti
Postcolonial Tought and Historical Difference (Princeton University Press,
Princeton-Oxford 2000) – anche se l’impressione è che alcuni tra i nomi di
spicco degli studi postcoloniali, ad esempio Homi Bhabha, sembrano essere
lontani dall’atmosfera decisamente marxiana che contraddistingue, pur con molte
sfumature, il resto degli autori e autrici coinvolti nell’avventura
subalternista. Il tipo di relazione tra i due orientamenti in definitiva a me
sembra si possa descrivere come di alleanza piuttosto che di identità come
invece spesso si tende a fare, specie nella loro ricezione accademica.
Forse è quell’aria di
famiglia – ereticamente marxiana, cioè – a rendere gli studi subalterni
qualcosa che in ogni caso “ci riguarda”; almeno per chi si riconosce come
prodotto e tuttora produttore, magari adulterato, di quella storia. Di
quell’altra storia, ovvero, che ha come soggetto i subalterni che si ribellano
praticamente alla logica del capitale anteponendo a questa l’autonomia delle
moltitudini. In ogni caso gli studi subalterni e quelli postcoloniali sono
divenuti sia parte essenziale di quella riflessione comune che ha portato a
riconoscere un cambio di paradigma radicale nelle forme di dominio
transnazionale – e dunque delle modificazioni nell’espressione della resistenza
delle moltitudini – che un corpus di studi di fondamentale importanza per
comprendere i dispositivi di comando attivati dai poteri capitalistici durante
la fase precedente – caratterizzata dall’imperialismo coloniale – ed una delle
fondamentali lezioni dei subalternisti, quindi, è consistita nella messa in
evidenza di come questi dispositivi siano stati compresi – molto spesso anche
da sinistra – tramite una dialettica “bianca” che ha tradotto sia le dinamiche
di sfruttamento che la singolarità delle forme di resistenza nei domini
coloniali in qualcosa di poco o affatto corrispondente alla realtà, almeno così
come vissuta dalle soggettività subalterne.
(fine
1.a parte)
LA
CRITICA e IL DIBATTITO
Gli
Studi Subalterni (e postcoloniali) ci riguardano?
(2^parte:
Dall’Italia all’India e ritorno)
I
temi trattati in questa sezione: dalla demologia alla “moltitudinologia”
passando per le teorie di Toni Negri. La critica al ‘revisionismo
subalternista’ deve approdare alla “moltitudinologia“?: per Tarì la resistenza
al presente non puo’ che partire da qui, ma è proprio questo il locus del
dibattito critico, almeno per chi non crede a molti dei sofismi del post-operaismo
(cosiddetto).
- Alcuni antropologi
italiani hanno recentemente riconosciuto negli studiosi subalternisti degli
inconsapevoli continuatori di quella particolare e felice stagione
dell’antropologia italiana che bisogna far risalire a studiosi come Ernesto De
Martino, Alberto M. Cirese, Luigi M. Lombardi Satriani e Alfonso M. Di Nola e
fuori dell’ambito universitario a Gianni Bosio, il cui incompiuto Il Trattore
ad Acquanegra è forse tra i lavori che, almeno per alcuni versi, più si
avvicina a quel certo “stile” che caratterizza la storiografia antropologica
dei Subaltern Studies. Sono stati, infatti, tutti intellettuali militanti che
nei decenni immediatamente successivi al secondo dopoguerra dedicarono i loro
sforzi nel cercare di costituire – attraverso il richiamo a Gramsci, spesso
prima ancora e al di là dello stesso Marx – una scienza storico-antropologica
dei subalterni politicamente impegnata (cfr. F. Mugnaini in Clemente-Mugnaini, Oltre il folklore, Roma 2001, p. 15).
-È Ernesto De Martino
che in Italia comincia a prendere sul serio i modi di espressione subalterni e
a valutarne positivamente la loro autonomia. Le sue considerazioni eretiche sul
“mondo magico”, così come il suo approccio ontologico alle tematiche
etnologiche, inoltre credo non stonerebbero accanto a quelle di alcuni
subalternisti contemporanei circa l’intreccio “reale” tra credenza, autonomia e
rivolta che segna tante storie del proletariato globale. Così come importanti
sono, ancora oggi, le considerazioni che Gianni Bosio svolgeva a cavallo degli
anni Settanta sulla necessità di distogliere lo sguardo dal passato per
concentrare l’attenzione della ricerca storico-antropologica comunista
direttamente sul terreno della città-fabbrica; una considerazione che,
riportata al presente, si traduce come dislocamento integrale sul piano della
metropoli dove, appunto, ritroviamo gli studi postcoloniali.
- Quella prospettiva di
studi militanti – per motivazioni che meriterebbero un approfondimento – in
Italia entrò in una irreversibile crisi all’inizio degli anni ’80,
paradossalmente proprio mentre quegli studiosi del mondo subalterno nell’Asia
del Sud iniziavano a pubblicare la loro rivista e quindi a essere celebrati
nelle più prestigiose università dell’occidente.
- Una cosa è certa, mi
pare: il gramscianesimo dei subalternisti è passato gioiosamente attraverso la
temperie poststrutturalista e decostruzionista, cosa che gli studiosi italiani
di oggi sono invece molto restii a cogliere come elemento essenziale per
l’analisi, trattandolo generalmente in maniera piuttosto superficiale (una nota
a piè di pagina e via) e spesso depurandolo della sua intrinseca prospettiva
conflittuale preferendogli, al limite, una lettura estetizzante. Del resto
anche Marx e lo stesso Gramsci oggi non sembrano più essere tanto frequentati
dall’antropologia italiana ufficiale. Ecco, questo passaggio “revisionistico”
compiuto dai subalternisti e dai postcoloniali in relazione all’eredità
marxista, o meglio, tramite la sua reinvenzione dal basso, è uno dei motivi per
cui ritengo di grande importanza la ricezione di quegli studi nell’ambito
italiano: forse è anche attraverso questi nomi che facciamo fatica a
pronunciare correttamente, a quelle lotte disperse nella storia decentrata e
decentrante degli altri, che si riuscirà finalmente a introdurre in modo non
superficiale le turbinose correnti del poststrutturalismo e del marxismo
postoperaista anche nel piano degli studi storico-antropologici nostrani. E
così, forse, si potrà comprendere non solo qualcuno dei motivi per cui gli
studi subalterni italiani non sopravvissero alla crisi della fine degli anni
’70 ma, anche e specialmente, si potrà immaginare cosa oggi potrebbero invece
essere: una moltitudinologia e non più una demologia, innanzitutto.
- Non meno importante
in questa considerazione critica – al contrario – è il fatto che Chakrabarty,
Guha, Spivak, Chatterjee, Appadurai e i loro compagni di viaggio si sono
mostrati molto più attenti della maggior parte degli storici e degli
antropologi occidentali – e italiani in particolare – sia alla “ragionevolezza”
dell’insurrezione proletaria degli anni ’60 e ’70 che alla forza teoretica e
rivoluzionaria delle argomentazioni foucaultiane e deleuziane: anche per questo
Toni Negri può oggi dire, con ragione, che i Subaltern Studies rivestono nella
storiografia proletaria mondiale lo stesso ruolo che i Quaderni Rossi hanno
nella genealogia delle scienze sociali insurrezionali (Toni Negri, I codici
svelati del colonialismo, “il Manifesto” 12-12-2002). Va da sé che questa
conclusione deve intendersi nel senso che i Subaltern Studies, come già i
Quaderni Rossi, ci consegnano non solo dei preziosi studi ma specialmente dei
formidabili strumenti di lotta: studi da utilizzare per aprire i retrobottega
della storia conflittuale della globalizzazione e, allo stesso tempo, come un
esercizio di memoria su noi stessi che possa indicarci delle nuove forme
possibili di resistenza al presente.
(fine
2.a parte)
LA
CRITICA e IL DIBATTITO
Gli
Studi Subalterni (e postcoloniali) ci riguardano?
(3^
e ultima parte, argomento: Partha Chatterjee: come nasce il concetto di negoziazione
della “governamentalità”)
In quegli stessi anni
‘70 Chaterjee e i suoi colleghi scoprirono Gramsci, Althusser e Foucault e il
suo rapporto con l’occidente, sino ad allora mediato principalmente dallo
studio dell’opera di Marx, fu contornato, attraversato, arricchito e criticato
tramite le riflessioni suscitate da questi altri autori. Era però cominciato
anche un decennio molto duro, segnato dalla sconfitta del maoismo radicale –
cosa che ebbe una ricaduta negativa su tutti i movimenti antagonisti nel
contesto postcoloniale – e in India dalla violenta repressione delle
opposizioni ad opera del governo di Indira Gandhi. In questo contesto
Chatterjee comprende che oramai «la ricerca in scienze sociali doveva la sua
pertinenza non divenendo meno ma più politica» ed è a partire da questa
esigenza comune a molti che nacque il gruppo di Subaltern Studies.
Il lavoro del
collettivo fu accolto dal resto dell’accademia indiana con moltissima ostilità.
Gli storici della sinistra ufficiale vi videro, giustamente, una aperta sfida
alle loro tesi sullo Stato-Nazione indiano e mossero ai ricercatori del
collettivo l’accusa di essere una emanazione neocolonialista della famigerata
Scuola di Cambridge ma anche di essere, addirittura, dei comunisti “castristi”
e separatisti (non ricordano proprio nulla, a noi, questo genere di accuse
infamanti?). Tutto ciò però, dice Chatterjee, dimostrava esattamente un fatto:
i Subaltern Studies erano riusciti a toccare uno dei punti deboli dell’ambiente
accademico e politico dominante che per la grandissima parte era composto,
appunto, da nazionalisti di destra e di sinistra legati a una politica e a una
cultura che tutto poteva essere tranne che antagonista e autonoma.
Secondo lui, quindi, il
fatto che le loro ricerche, spesso scritte in lingua bengali, a un certo punto
iniziarono a essere molto conosciute all’estero fu dovuto, da un lato,
all’emergere degli studi postcoloniali nelle università americane attorno
all’inizio degli anni ’80 e che divennero velocemente un fenomeno mainstream e,
dall’altro, al rinato interesse storico e teorico per il fenomeno del
nazionalismo. Potremmo aggiungere che era senz’altro dovuto anche al
contemporaneo processo di costituzione imperiale e del suo limite ontologico:
Seattle non era lontana nel tempo e, oramai, nemmeno nello spazio. Così
Chatterjee si rimise in viaggio: Stati Uniti, Gran Bretagna, Europa (è lui che
distingue, evidentemente, tra Gran Bretagna e Europa).
Secondo Chatterjee, comunque, il successo di audience degli studi sull’Asia del Sud in occidente non si deve al fatto che i campus sono da qualche anno affollati da studenti e professori di origine asiatica ma all’interesse crescente delle scienze sociali per quelle tematiche che sono state portate alla luce da loro attraverso il prisma delle lotte anticoloniali: il nazionalismo, appunto, ma anche lo sviluppo e il significato stesso della modernità. Certamente c’è qualcosa di sottilmente ironico in tutto questo interesse da parte occidentale, poiché esso è dovuto in gran parte anche «alla disciplina amministrativa e alla passione civilizzatrice del potere coloniale che ha trasformato la storia indiana in un archivio illimitato delle realizzazioni e delle aberrazioni della modernità occidentale» .
Quello che comunque
Chatterjee tiene a dire è che il suo posto nella repubblica mondiale delle
lettere, anche considerando questo successo globale degli Studi Subalterni, è
nei fatti sempre più connesso alla sua nazionalità, o meglio al suo (non)luogo
di vita, cosa che in gioventù lo avrebbe infastidito ma che oggi lo porta
invece a considerare meglio la sua singolarità in quella particolare forma di
repubblica mondiale composta dagli intellettuali, diasporici o meno che siano:
«Anche quando scrivo su Hegel o Marx, Locke o Rousseau, Gramsci o Foucault, mi
è difficile farlo, salvo che in rapporto con degli episodi e delle esperienze
che sono, per così dire, sempre tangenti, cioè a margine di quello che questi
grandi pensatori hanno scritto. È a forza di immergermi nelle realtà storiche
della vita indiana e negoziando il mio posto nella repubblica mondiale delle
lettere che ho preso coscienza di essere diventato un universitario indiano».
Solo così ha senso, forse, quella tensione tra “locale” e “globale” così
complicata da definirsi positivamente.
fine
extract.
- Marcello Tarì è ricercatore indipendente. Ha
vissuto negli ultimi anni tra la Francia e l’Italia. È autore di numerosi
saggi. Per DeriveApprodi ha pubblicato il libro, tradotto in più lingue, Il ghiaccio era sottile. Per una storia
dell’autonomia (2012) e Non esiste la
rivoluzione infelice. Il comunismo della destituzione (2017).
Pubblicato
su “DeriveApprodi”, n. 23, 2003
su
questo blog vedi anche:
SubalternStudies, Modernità e (post)colonialismo
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