Chi
era Ranajit Guha, lo storico bengalese scomparso quasi centenario il 28 aprile
scorso in Austria? L‘ispirazione a un metodo storico nuovo, particolare, il
ricercare le “tracce” delle classi oppresse anche nelle fonti e narrazioni
delle classi dominanti, lo hanno posto come il fondatore dei Subaltern studies
dal 1982. Subaltern, perchè Guha riprende il Gramsci del Quaderno 25 scritto
nella clinica di Formia negli ultimi anni della sua vita, in cui il filosofo
sardo si interroga sui gruppi sociali subalterni, privi di autonomia ma a cui
restituire la soggettività storica. Secondo Guha, la loro insorgenza spontanea
e non organizzata (in India prevalentemente “dalit” e contadini, oppure la
rivolta dei naxaliti in nome di Mao, non compresa dai partiti comunisti di
ispirazione marxista-leninista) o mediata dalle forme rituali della religione,
la loro resistenza aperta o sotterranea alla conquista imperialista e
colonialista, hanno comunque reso centrale e necessaria una nuova narrazione in
un paradigma critico dell’Occidente e del suo stesso quadro concettuale e
interpretativo.
Qui i tributi a Guha di
Subaltern studies Italia, e di Dipesh Chakrabarty, uno dei suoi allievi -
collaboratori principali e di Arjun Sengupta, giornalista del The Indian
Express -
http://ferdinandodubla.blogspot.com/2023/06/vedi-alla-voce-ranajit-guha-subaltern.html
La storia senza
narrazione è quella di chi la storia la costruisce materialmente,
concretamente, pagando questa sua costruzione con l’assenza di coscienza della
propria soggettività storica e ricollocando la propria appartenenza ai codici
simbolici dei riti collettivi.
I
gruppi subalterni subiscono sempre l'iniziativa dei gruppi dominanti, anche
quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria "permanente" spezza
, e non immediatamente, la subordinazione. (..) Ogni traccia di iniziativa
autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di valore
inestimabile per lo storico integrale., Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Quaderno 25, ed.
Einaudi, 1975, pag.2283/2284. -
da
Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l'Europa, Meltemi, 2016, pag. 141-144 -
ed-or. 2004
La
ribellione dei santal del 1855
Il celebre, penetrante
saggio di Ranajit Guha, La prosa della
contro-insurrezione, venne pubblicato in uno dei primi volumi dei Subaltern
Studies ed è oggi giustamente considerato un classico nel suo genere. Mi sembra
che l'esercizio intrapreso da Guha in questo saggio sia ostacolato da uno
specifico paradosso, un paradosso che nasce precisamente dal tentativo dello
storico di portare le storie delle classi subalterne all'interno della corrente
principale degli studi storici. Uno degli obiettivi principali del saggio di
Guha è quello di utilizzare la ribellione dei santal del 1855 per di mostrare
uno dei principi fondamentali degli studi subalterni: iscrivere la coscienza
degli insorti tra i principali elementi della narrazione di una insurrezione -
i santal erano un gruppo tribale del Bengala e del Bihar che si ribellò contro
gli inglesi e contro gli indiani non autoctoni nel 1855. Le parole di Guha
(1988a, p. 45) catturano lo spirito dei primi Subaltern Studies: Questa
consapevolezza dei contadini [ribelli] sembra aver ricevuto ben poca attenzione
nella letteratura sul tema. La storiografia si è accontentata di considerare il
contadino ribelle semplicemente come una persona empirica, o come membro di una
classe, ma non come un essere la cui volontà e la cui ragione giocavano un
ruolo essenziale nel costituire quella prassi chiamata ribellione (...).
[L]'insurrezione contadina è vista come esterna alla coscienza stessa contadina
e la Causa è posta come un fantomatico surrogato della Ragione, come logica
stessa di quella coscienza. Il passaggio cruciale è “logica stessa di quella
coscienza”; esso marca la distanza critica che Guha, lo storico, deve assumere
nei confronti dell'oggetto di studio, la coscienza appunto. Infatti,
affrontando la storia della ribellione dei santal del 1855, Guha si trova non
sorprendentemente di fronte a un fenomeno comune nelle vite dei contadini:
l'intervento di esseri soprannaturali. I leader santal avevano spiegato la
ribellione in termini soprannaturali, come un atto determinato da un ordine del
loro dio Thakur. Guha richiama la nostra attenzione sulle prove storiche e
sottolinea quanto fosse importante questa concezione per i ribelli. Secondo i
leader della ribellione, Sidhu e Kanu, Thakur aveva assi curato che i
proiettili inglesi non avrebbero ferito i devoti-ribelli. Guha è molto attento
a evitare qualsivoglia lettura strumentale o elitista di tali affermazioni.
Scrive infatti: Queste, sia detto per inciso,
non erano dichiarazioni fatte in pubblico per impressionare i loro seguaci
(...). [E]rano parole pronunciate da prigionieri in attesa dell'esecuzione.
Rivolte ai loro carcerieri e nemici durante interrogatori che si svolsero
all'interno di accampamenti militari, potevano avere ben poca utilità a fini di
propaganda. In quanto testimonianze di uomini appartenenti a una tribù che, a
detta di tutti, non aveva ancora imparato a mentire, queste deposizioni
rappresentano, per i loro autori, la verità e nient'altro che la verità (p.
91). L'analisi di Guha rende visibile una tensione peculiare del progetto dei
Subaltern Studies. L'espressione “logica stessa di quella coscienza” o l'idea
di una verità che era tale “per i suoi autori” sono altrettante mosse con cui
lo storico assume una distanza critica da ciò che sta cercando di comprendere.
In senso letterale, l'affermazione dei contadini ribelli mostra che è il
subalterno stesso a rifiutare di attribuirsi l'iniziativa dell'azione o la
soggettività. “Mi sono ribellato”, dice, “perché Thakur mi è apparso e mi ha
detto di ribellarmi” Ovvero, come riporta lo scriba coloniale: “Non sono Kanoo
e Sedoo Manje a combattere. Sarà lo stesso dio Thacoor a combattere” Nelle sue
stesse parole, allora, il subalterno non è necessariamente il soggetto della
propria storia, mentre lo è nella storia dei Subaltern Studies, così come in
quella di ogni corrente storiografica democraticamente orientata.
Cosa succede quando
vogliamo prendere sul serio la concezione del subalterno - in cui l'iniziativa
della ribellione è attribuita a un dio - e, allo stesso tempo, vogliamo
riconoscere al subalterno la capacità di agire e la soggettività, uno status
negato dalla sua stessa affermazione? La strategia messa a punto da Guha per
risolvere il dilemma si sviluppa come segue: la mossa d'apertura, contraria
alla prassi della storiografia secolare o marxista, consiste nel respingere le
interpretazioni in cui la religione è semplicemente una manifestazione
surrogata di relazioni che sono in verità secolari e mondane (classe, potere,
economia e così via). Guha sa che il suo non è un mero esercizio di
demistificazione: È generalmente riconosciuto che la religiosità sia stata un
elemento centrale nello sviluppo dello hool [ribellione]. Il concetto di potere
che lo ispirò (...) [era di] carattere esplicitamente religioso. E non nel
senso che il potere fosse il contenuto sostanziale rivestito di una forma a
esso esterna, chiamata religione (...). [Di qui vengono] la sua attribuzione a
un comando divino piuttosto che a una specifica ingiustizia subita; la pratica
di rituali sia prima (ad esempio le cerimonie propiziatorie per esorcizzare
l'apocalisse dei Serpenti Primordiali (...) sia durante la rivolta (per esempio
il culto della dea Gurga, i bagni nel Gange, ecc.); la produzione e la
circolazione di miti attraverso il loro caratteristico veicolo, la voce (rumour) (pp. 88-89). Nonostante Guha sia
intenzionato ad ascoltare seriamente la voce dei ribelli, la sua analisi non
può concedere a Thakur il ruolo attivo nella storia della rivolta che gli viene
attribuito nelle narrazioni dei santal. Una strategia narrativa sostenibile
razionalmente nei termini della concezione moderna di ciò che costituisce la
vita pubblica - e gli storici parlano nella sfera pubblica - non può fondarsi
su una relazione che riconosce al divino e al soprannaturale la possibilità di
agire in prima persona nelle faccende del mondo. Ciò che i leader santal
pensavano della ribellione non promuove direttamente la causa storica della
democrazia, della cittadinanza o del socialismo. Deve essere reinterpretato.
Gli storici accorderanno al soprannaturale un ruolo nel sistema di credenze o
nelle pratiche rituali di qualcuno, ma permettergli di agire realmente negli
eventi storici equivarrebbe a disconoscere le regole della prova che assicurano
al discorso della storia le procedure necessarie per risolvere le controversie
sul passato. Il teologo ed esegeta protestante Rudolf Bultmann ha scritto
pagine illuminanti su questo problema. “Il metodo storico”, scrive Bultmann,
“include il presupposto che la storia è un'unità, ossia una catena ininterrotta
di fatti nella quale gli eventi sono connessi gli uni agli altri dalla
concatenazione di causa ed effetto”. Con questo, Bultmann non intende ridurre
le scienze storiche a una comprensione meccanica del mondo. Egli precisa la sua
affermazione aggiungendo: Il che non vuol dire che il corso della storia è
determinato dalla legge della causalità e che non vi sono decisioni libere da
parte degli uomini, i cui atti determinano il corso della storia. Ma anche una
decisione libera non si prende senza una causa, una motivazione, ed è compito
dello storico scoprire le motivazioni degli atti. Tutte le decisioni e tutti
gli atti hanno le loro cause e le loro conseguenze: ebbene, il metodo storico
presuppone per principio la possibilità di svelarle, come pure la loro
concatenazione, di modo che il corso della storia appaia nel suo insieme come
un'unità compiuta.
1988a - An
Indian Historiography of India: A Nineteenth Century Agenda & Its
Implications, Calcutta: K.P. Bagchi & Company, 1988.
In questo blog trovi anche:
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I ‘POPOLI SENZA STORIA’: PROSA DEL MONDO O PROSA DELLA STORIA
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