Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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giovedì 8 giugno 2023

RANAJIT GUHA E LE TRACCE DELLO STORICO INTEGRALE

 

Chi era Ranajit Guha, lo storico bengalese scomparso quasi centenario il 28 aprile scorso in Austria? L‘ispirazione a un metodo storico nuovo, particolare, il ricercare le “tracce” delle classi oppresse anche nelle fonti e narrazioni delle classi dominanti, lo hanno posto come il fondatore dei Subaltern studies dal 1982. Subaltern, perchè Guha riprende il Gramsci del Quaderno 25 scritto nella clinica di Formia negli ultimi anni della sua vita, in cui il filosofo sardo si interroga sui gruppi sociali subalterni, privi di autonomia ma a cui restituire la soggettività storica. Secondo Guha, la loro insorgenza spontanea e non organizzata (in India prevalentemente “dalit” e contadini, oppure la rivolta dei naxaliti in nome di Mao, non compresa dai partiti comunisti di ispirazione marxista-leninista) o mediata dalle forme rituali della religione, la loro resistenza aperta o sotterranea alla conquista imperialista e colonialista, hanno comunque reso centrale e necessaria una nuova narrazione in un paradigma critico dell’Occidente e del suo stesso quadro concettuale e interpretativo.

Qui i tributi a Guha di Subaltern studies Italia, e di Dipesh Chakrabarty, uno dei suoi allievi - collaboratori principali e di Arjun Sengupta, giornalista del The Indian Express - http://ferdinandodubla.blogspot.com/2023/06/vedi-alla-voce-ranajit-guha-subaltern.html

La storia senza narrazione è quella di chi la storia la costruisce materialmente, concretamente, pagando questa sua costruzione con l’assenza di coscienza della propria soggettività storica e ricollocando la propria appartenenza ai codici simbolici dei riti collettivi.

I gruppi subalterni subiscono sempre l'iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria "permanente" spezza , e non immediatamente, la subordinazione. (..) Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di valore inestimabile per lo storico integrale., Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Quaderno 25, ed. Einaudi, 1975, pag.2283/2284. -

da Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l'Europa, Meltemi, 2016, pag. 141-144 - ed-or. 2004

La ribellione dei santal del 1855

Il celebre, penetrante saggio di Ranajit Guha, La prosa della contro-insurrezione, venne pubblicato in uno dei primi volumi dei Subaltern Studies ed è oggi giustamente considerato un classico nel suo genere. Mi sembra che l'esercizio intrapreso da Guha in questo saggio sia ostacolato da uno specifico paradosso, un paradosso che nasce precisamente dal tentativo dello storico di portare le storie delle classi subalterne all'interno della corrente principale degli studi storici. Uno degli obiettivi principali del saggio di Guha è quello di utilizzare la ribellione dei santal del 1855 per di mostrare uno dei principi fondamentali degli studi subalterni: iscrivere la coscienza degli insorti tra i principali elementi della narrazione di una insurrezione - i santal erano un gruppo tribale del Bengala e del Bihar che si ribellò contro gli inglesi e contro gli indiani non autoctoni nel 1855. Le parole di Guha (1988a, p. 45) catturano lo spirito dei primi Subaltern Studies: Questa consapevolezza dei contadini [ribelli] sembra aver ricevuto ben poca attenzione nella letteratura sul tema. La storiografia si è accontentata di considerare il contadino ribelle semplicemente come una persona empirica, o come membro di una classe, ma non come un essere la cui volontà e la cui ragione giocavano un ruolo essenziale nel costituire quella prassi chiamata ribellione (...). [L]'insurrezione contadina è vista come esterna alla coscienza stessa contadina e la Causa è posta come un fantomatico surrogato della Ragione, come logica stessa di quella coscienza. Il passaggio cruciale è “logica stessa di quella coscienza”; esso marca la distanza critica che Guha, lo storico, deve assumere nei confronti dell'oggetto di studio, la coscienza appunto. Infatti, affrontando la storia della ribellione dei santal del 1855, Guha si trova non sorprendentemente di fronte a un fenomeno comune nelle vite dei contadini: l'intervento di esseri soprannaturali. I leader santal avevano spiegato la ribellione in termini soprannaturali, come un atto determinato da un ordine del loro dio Thakur. Guha richiama la nostra attenzione sulle prove storiche e sottolinea quanto fosse importante questa concezione per i ribelli. Secondo i leader della ribellione, Sidhu e Kanu, Thakur aveva assi curato che i proiettili inglesi non avrebbero ferito i devoti-ribelli. Guha è molto attento a evitare qualsivoglia lettura strumentale o elitista di tali affermazioni. Scrive infatti: Queste, sia detto per inciso, non erano dichiarazioni fatte in pubblico per impressionare i loro seguaci (...). [E]rano parole pronunciate da prigionieri in attesa dell'esecuzione. Rivolte ai loro carcerieri e nemici durante interrogatori che si svolsero all'interno di accampamenti militari, potevano avere ben poca utilità a fini di propaganda. In quanto testimonianze di uomini appartenenti a una tribù che, a detta di tutti, non aveva ancora imparato a mentire, queste deposizioni rappresentano, per i loro autori, la verità e nient'altro che la verità (p. 91). L'analisi di Guha rende visibile una tensione peculiare del progetto dei Subaltern Studies. L'espressione “logica stessa di quella coscienza” o l'idea di una verità che era tale “per i suoi autori” sono altrettante mosse con cui lo storico assume una distanza critica da ciò che sta cercando di comprendere. In senso letterale, l'affermazione dei contadini ribelli mostra che è il subalterno stesso a rifiutare di attribuirsi l'iniziativa dell'azione o la soggettività. “Mi sono ribellato”, dice, “perché Thakur mi è apparso e mi ha detto di ribellarmi” Ovvero, come riporta lo scriba coloniale: “Non sono Kanoo e Sedoo Manje a combattere. Sarà lo stesso dio Thacoor a combattere” Nelle sue stesse parole, allora, il subalterno non è necessariamente il soggetto della propria storia, mentre lo è nella storia dei Subaltern Studies, così come in quella di ogni corrente storiografica democraticamente orientata.

Cosa succede quando vogliamo prendere sul serio la concezione del subalterno - in cui l'iniziativa della ribellione è attribuita a un dio - e, allo stesso tempo, vogliamo riconoscere al subalterno la capacità di agire e la soggettività, uno status negato dalla sua stessa affermazione? La strategia messa a punto da Guha per risolvere il dilemma si sviluppa come segue: la mossa d'apertura, contraria alla prassi della storiografia secolare o marxista, consiste nel respingere le interpretazioni in cui la religione è semplicemente una manifestazione surrogata di relazioni che sono in verità secolari e mondane (classe, potere, economia e così via). Guha sa che il suo non è un mero esercizio di demistificazione: È generalmente riconosciuto che la religiosità sia stata un elemento centrale nello sviluppo dello hool [ribellione]. Il concetto di potere che lo ispirò (...) [era di] carattere esplicitamente religioso. E non nel senso che il potere fosse il contenuto sostanziale rivestito di una forma a esso esterna, chiamata religione (...). [Di qui vengono] la sua attribuzione a un comando divino piuttosto che a una specifica ingiustizia subita; la pratica di rituali sia prima (ad esempio le cerimonie propiziatorie per esorcizzare l'apocalisse dei Serpenti Primordiali (...) sia durante la rivolta (per esempio il culto della dea Gurga, i bagni nel Gange, ecc.); la produzione e la circolazione di miti attraverso il loro caratteristico veicolo, la voce (rumour) (pp. 88-89). Nonostante Guha sia intenzionato ad ascoltare seriamente la voce dei ribelli, la sua analisi non può concedere a Thakur il ruolo attivo nella storia della rivolta che gli viene attribuito nelle narrazioni dei santal. Una strategia narrativa sostenibile razionalmente nei termini della concezione moderna di ciò che costituisce la vita pubblica - e gli storici parlano nella sfera pubblica - non può fondarsi su una relazione che riconosce al divino e al soprannaturale la possibilità di agire in prima persona nelle faccende del mondo. Ciò che i leader santal pensavano della ribellione non promuove direttamente la causa storica della democrazia, della cittadinanza o del socialismo. Deve essere reinterpretato. Gli storici accorderanno al soprannaturale un ruolo nel sistema di credenze o nelle pratiche rituali di qualcuno, ma permettergli di agire realmente negli eventi storici equivarrebbe a disconoscere le regole della prova che assicurano al discorso della storia le procedure necessarie per risolvere le controversie sul passato. Il teologo ed esegeta protestante Rudolf Bultmann ha scritto pagine illuminanti su questo problema. “Il metodo storico”, scrive Bultmann, “include il presupposto che la storia è un'unità, ossia una catena ininterrotta di fatti nella quale gli eventi sono connessi gli uni agli altri dalla concatenazione di causa ed effetto”. Con questo, Bultmann non intende ridurre le scienze storiche a una comprensione meccanica del mondo. Egli precisa la sua affermazione aggiungendo: Il che non vuol dire che il corso della storia è determinato dalla legge della causalità e che non vi sono decisioni libere da parte degli uomini, i cui atti determinano il corso della storia. Ma anche una decisione libera non si prende senza una causa, una motivazione, ed è compito dello storico scoprire le motivazioni degli atti. Tutte le decisioni e tutti gli atti hanno le loro cause e le loro conseguenze: ebbene, il metodo storico presuppone per principio la possibilità di svelarle, come pure la loro concatenazione, di modo che il corso della storia appaia nel suo insieme come un'unità compiuta.

 

1988a - An Indian Historiography of India: A Nineteenth Century Agenda & Its Implications, Calcutta: K.P. Bagchi & Company, 1988.


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Dipesh Chakrabarty (born 1948, in Kolkata, India) is an Indian historian, who has also made contributions to postcolonial theory and subaltern studies

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