Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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sabato 24 giugno 2023

LA BOVISA. SCUOLA POPOLARE E RISCATTO DEI SUBALTERNI

 

Partecipazione e bellezza di muoversi in una dimensione collettiva, il vento della Teologia della Liberazione soffiava caldo dal Sudamerica

 

da Andrea Donegà: DON COLMEGNA: AL CENTRO DEI MARGINI La vita di un sacerdote che ha declinato la vocazione religiosa in un costante impegno civile e sociale a favore degli ultimi © Edizioni Homeless Book - www.homelessbook.it ISBN: 978-88-3276-316-4 (brossura) 978-88-3276-317-1 (eBook) Pubblicato nel giugno 2023

 

estratto 



2. La Bovisa. Scuola popolare e riscatto degli ultimi 

Fermento sociale. «Il Concilio Vaticano II, chiuso nel dicembre 1965, iniziava a riversarsi nella quotidianità. La riforma della liturgia, del 7 marzo 1965, fu una vera e propria rivoluzione culturale che vedeva la Chiesa come popolo di fedeli laici, uomini e donne che camminano nella stessa direzione. Anche io parlo molto di cristianesimo intriso di laicità anche se, spesso, mettiamo in contrapposizione preti e laici. Laicità significa partire dalla ragione, dalla razionalità, dalle cose concrete e lì condividere e ricercare insieme, senza pregiudizi. In questo senso il cristianesimo è educazione alla laicità. In fondo, il nostro è un Dio che si è fatto uomo, che ha vissuto i riti della normalità ed è entrato nella vita quotidiana. La laicità è quindi la capacità di far parlare il Vangelo in modo che sia comprensibile a tutti, che non incuta il timore del potere. La laicità ci lascia un vuoto da riempire con la ricerca». Sono queste le parole con cui don Virginio [Colmegna, ndr] spiega ciò che il Concilio indicava. Una riscoperta della dimensione ecclesiale, della partecipazione e della bellezza di muoversi in una dimensione collettiva. Ripartire dalla liturgia significava per la Chiesa porsi in un dialogo autentico con la modernità. Il filosofo Ludwig Wittgenstein sosteneva che «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo» e anche per la Chiesa riformare il linguaggio diventò una necessità per essere in grado di rappresentare il mondo nuovo che stava venendo avanti, per stare tra le persone, in mezzo alla quotidianità e all’esistenza di quegli uomini e donne di buona volontà, credenti e non credenti, accomunati dal desiderio di trasformazioni radicali. «Don Virginio è figlio del Concilio. Prima del Concilio la messa era in latino e il prete dava le spalle all’assemblea. Dopo, si inizia a utilizzare una lingua comprensibile e il sacerdote si gira verso la gente. Per lui questo ha avuto un forte valore simbolico: si è voltato, ha guardato le persone ed è andato in mezzo a loro» ricorda Enrico Finzi. Inoltre, il vento della Teologia della Liberazione soffiava caldo dal Sudamerica, scoprendo la dimensione politica della carità e stimolando l’impegno a sradicare le cause della povertà. La carità che inquieta è quella che lascia delle domande e spinge a cercare risposte, a differenza della cultura dell’assistenzialismo che, invece, consola e autoassolve. Don Virginio si trovava ancora in seminario quando «il 17 novembre del 1967, dopo una lunga assemblea studentesca, venne votata l’occupazione dell’Università Cattolica. Chiedevamo di togliere l’aumento spropositato delle tasse universitarie, considerato che quell’Ateneo era frequentato da studenti con redditi mediamente più bassi rispetto alle altre università e da tantissimi lavoratori che riempivano i corsi serali. Rivendicavamo la trasparenza dei bilanci e degli atti amministrativi, il riconoscimento dei diritti di assemblea e di manifestare le nostre opinioni, l’abolizione della censura preventiva e la possibilità di discutere maggiormente i contenuti dei corsi. Molti degli insegnamenti universitari di oggi non sarebbero stati possibili senza il Sessantotto. L’occupazione durò pochissimo perché fummo sgomberati dalla polizia che aveva il comando a pochi passi dall’Università. Io venni espulso insieme ad altri due» ricorda il professor Luciano Pero, uno dei leader del Movimento Studentesco. Era anche la stagione delle grandi lotte sindacali in quello che fu definito l’Autunno Caldo. Ripercorre quella fase storica Franco Bentivogli, che fu Segretario Generale dei metalmeccanici della Cisl: «Gli anni che precedono il 1978 e il 1979 sono segnati da grandi avvenimenti nazionali e internazionali. Tensioni valoriali, spinte di democrazia e di progresso e nuove speranze attraversavano il mondo coi messaggi ideali, culturali, politici e religiosi di figure quali Papa Giovanni XXIII, John Kennedy, Nelson Mandela, Giorgio La Pira, Martin Luther King, che davano nuova forza ai profeti più vicini, spesso bistrattati dalle rispettive autorità. Per il mondo del lavoro il 1969 e l’Autunno Caldo furono il prodotto di un lungo cammino iniziato nei primi anni ’60 caratterizzati da esperienze di lavoro, personali e familiari pesantissime: disoccupazione, bassi salari, subordinazione senza limiti, debolezza e divisione dei sindacati, rassegnazione e fatalismo dei lavoratori, autoritarismo. I tempi stavano cambiando. Erano gli anni del miracolo economico. Masse di giovani entrarono nelle fabbriche, in genere con una maggiore scolarizzazione. E tuttavia, anche chi lavorava faceva fatica a giungere alla fine del mese col solo salario. Con l’avvento del 1968 fu tutto un fiorire di nuovi soggetti politici, dal movimento studentesco a gruppi spontanei, movimenti politici extraparlamentari, con linee politiche, vitalità e capacità di presenza molto diverse tra loro, anche secondo le aree territoriali. Resta il fatto inequivocabile che l’Autunno Caldo dei lavoratori ha costruito diritti e spazi di cittadinanza attiva, vere e proprie pietre miliari per il mondo del lavoro e i sindacati. Il 1969 fu anche l’anno di inizio della strategia della tensione, delle trame nere e del terrorismo: 25 aprile, bombe alla Fiera di Milano; 8 e 9 agosto, bombe sui treni e nelle stazioni; 19 novembre, omicidio dell’agente Annarumma a Milano; 12 dicembre, strage di Piazza Fontana, con 17 morti e 88 feriti; poi, bombe a Milano, in Piazza della Scala fortunatamente inesplose a differenza di quelle di Roma che fecero numerosi feriti. Il 15 dicembre muore l’anarchico Giuseppe Pinelli. Sul fronte contrattuale, quello dell’Autunno Caldo fu il contratto nazionale dell’uguaglianza e dei diritti democratici nei posti di lavoro che superò intollerabili discriminazioni, anticipando diritti sindacali che sarebbero stati sanciti un anno dopo dalla Legge 300, il mitico Statuto dei diritti dei lavoratori, come permessi, assemblee, aspettative, tutele dai licenziamenti. Il Ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin, il 21 dicembre 1969, presentando ai giornalisti i contenuti del rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, sottolineò “l’importanza del riconoscimento dei delegati sindacali in fabbrica che uscivano dalla clandestinità e la possibilità di sviluppare una unità sindacale libera e fondata sull’autonomia”». Fuori dal seminario, don Virginio trovò una società che scalpitava. I cambiamenti erano all’ordine del giorno e correvano veloci sul quadrante della storia, intrecciandosi in una trama difficile da dipanare. La grande complessità faceva intravvedere, da più angolazioni, la possibilità di realizzare una società più giusta. Per una scuola inclusiva e moderna «Don Virginio arrivò alla Bovisa nel 1979 e noi lo conoscemmo all’Oratorio. L’accoglienza non fu delle migliori visto che ad attenderlo trovò uno striscione con scritto “vergogna!”, realizzato dai ragazzi della generazione precedente alla nostra che protestavano per l’uscita di don Enrico» ricorda Daniela Rossi, in quegli anni poco più che quattordicenne. Don Colmegna si sistemò, con mamma e papà, in un appartamento vicino alla parrocchia di Santa Maria del Buon Consiglio, nel complesso dell’Oratorio di via Varè. I panni che mamma stendeva sul balcone si annerivano per i fumi dei prodotti di scarto della Montecatini. Fu quello il suo primo sguardo su Milano, città che non conosceva. La Bovisa era una delle tante periferie industriali, fatte di opportunità e contraddizioni e, come sostiene Luciano Pero, «uno dei luoghi di primo avvicinamento alla città per tante persone che arrivavano da varie parti di Italia per lavorare. Lì c’erano anche i migliori tornitori del nostro Paese» sparsi nelle diverse piccole e medie industrie che caratterizzavano il quartiere e sorgevano intorno alle più grandi e storiche aziende quali la Ceretti-Tanfani, Oerlikon, Lepetit, Carlo Erba, Face Standard. In quegli anni l’Italia era attraversata da una forte immigrazione interna che modificò geografie sociali e culturali dentro le grandi trasformazioni del lavoro. Lo storico Guido Crainz, nella sua introduzione al bel libro-inchiesta di Franco Alasia e Danilo Montaldi “Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del «miracolo»” (Donzelli Editore), ricorda come «fra il 1955 e il 1970 i mutamenti di residenza sfiorarono i venticinque milioni, e dieci milioni di essi portarono in un’altra regione. Già allora gli immigrati, specie quelli meno qualificati e professionalizzati, trovavano sistemazione nelle case più vecchie e degradate».

 

cfr. su questo blog: LA COREA a MILANO: il meridiano subalterno del Nord di Danilo Montaldi

 



Don Virginio Colmegna,  a 77 anni lascia la Casa della carità, ma fonda "Speranza oltre di noi"




Le comunità di base, i collettivi politici, culturali e di studio, i seminari permanenti, sono forme di socialità e socializzazione, di discussione, confronto e deliberazione collettiva, che rimandano ad una nuova concezione della democrazia. In foto la comunità di base di don Virginio Colmegna

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