“La
pace può venire soltanto con la fine dell’occupazione”.
Così scriveva Edward Said nel
gennaio 2002, venti mesi prima della sua morte. Said è stato uno degli
intellettuali più importanti del XX secolo, professore alla Columbia University
di Letteratura comparata, era nato a Gerusalemme nel 1935 e cresciuto al Cairo.
Pietre miliari della sua produzione di scrittore e studioso furono in
particolare due opere: la sua prima in assoluto, “Orientalismo” del 1978, presa
a riferimento per gli studi cosiddetti post-coloniali (postcolonial studies) e
“Cultura e imperialismo” di quindici anni dopo, 1993, lavoro di indagine letteraria
e storica in cui accusa le complicità della cultura occidentale con il progetto
egemonico di vecchi e nuovi imperi. Molti studiosi hanno sottolineato la
consonanza tra le sue riflessioni e una ‘lettura interpretativa’ degli scritti
di Gramsci. (Cfr., tra gli altri, Orazio Irrera, Université Paris 1 –
Panthéon-Sorbonne, Egemonia e coscienza
geografica. Edward W. Said lettore di Antonio Gramsci, febbraio 2016, https://gramscilab.com/2016/02/04/seminario-egemonia-e-coscienza-geografica-edward-w-said-lettore-di-antonio-gramsci/
- Attivo sostenitore della
causa del suo popolo, non esitava neanche a criticare le leadership delle
organizzazioni palestinesi, l’arrendevolezza e il moderatismo degli accordi al
ribasso e la perdita di egemonia di Arafat e Fatha per le controversie interne,
l’autoritarismo e la corruzione, che poi in effetti porteranno come concausa al
dominio dei fondamentalismi politico-religiosi. Ma il suo indice accusatore fu
sempre contro l’imperialismo a dominanza USA e l’occupazione abusiva permessa
ai governi israeliani per conto dell’atlantismo nell’area strategica del Medio
Oriente. Rileggere Said è interpretare l’oggi con le lenti della storia.
“La tesi insensata del
governo Sharon, ovvero che in quarant’anni di una guerra spietata e
indiscriminata, intrapresa dall’esercito israeliano contro civili, proprietà e
istituzioni, la vittima sia Israele e i palestinesi siano gli aggressori.
Questo significa oggi che i palestinesi sono rinchiusi in duecentoventi ghetti
controllati dall’esercito; che gli elicotteri Apache, i carri armati Merkava e
gli F-16 forniti dagli americani falciano ogni giorno persone, case, uliveti e
campi coltivati; che scuole e università sono devastate, così come le imprese e
le istituzioni civili; che centinaia di civili innocenti sono stati uccisi,
mentre i feriti sono decine di migliaia; che gli omicidi israeliani di leader
palestinesi continuano; che i tassi di disoccupazione e povertà si aggirano
intorno al 50 per cento”. Edward Said, in Al-Ahram, 10-16 gennaio 2002, ora in La pace possibile - Il testamento politico
del grande intellettuale palestinese, Il Saggiatore, 2004, pag.171
RILEGGERE
SAID
Uno degli assi del pensiero di Said è che le questioni in nome della religione sono politiche. Fuori la religione dalla politica, dunque, nessuna è superiore o inferiore all’altra; non c’è civiltà in nome della religione, civiltà è solo l’autodeterminazione, necessaria, dei popoli oppressi. L’imperialismo e il colonialismo hanno sempre soffiato e soffiano sulle guerre di religione, ma il loro interesse è economico e politico. I popoli convivono pacificamente tra loro, ognuno con la sua cultura e credenze, l’imperialismo e il colonialismo dividono e provocano i conflitti.
È vero, ci manca il suo acume,
la sua analisi stringente, corroborata sempre dalla documentazione, la sua
interpretazione storico-politica. Edward Said è stato uno dei più grandi e
innovativi studiosi del XX secolo, fondatore, di fatto, degli studi
postcoloniali. Attraverso le sue opere, è uno dei più attuali del XXI secolo.
Di fronte al martirio del suo popolo, lui, naturalizzato statunitense, ha da
dirci tanto, soprattutto, come ha scritto Bruno Montesano su Il Manifesto
(20.10.2023) sulla necessaria disarticolazione tra Stato e identità (religiosa
e nazionale che sia). Non un’utopia, una necessità. Per i palestinesi e per
tutti i popoli oppressi nella loro autodeterminazione. Rileggere proprio ora
l’autore di “Orientalismo” (1978) è necessario.
L’imperialismo è colonialismo
su larga scala, la cultura imperialista colonialista impregna l’immagine
dell’”altro”, lo costruisce, se la rimanda come a uno specchio riflesso,
diventa stereotipo di massa: l’oriente esotico, l’arabo- musulmano, il
mediorientale-terrorista. E l’intellettuale, che dovrebbe svelare la
fenomenologia neocolonialista, strumento di potere, “dire la verità” (titolo di
un bellissimo saggio pubblicato in Italia da Feltrinelli, 1995 e 2014), non
critica ma occulta. L’indispensabilità dell’intellettuale, dunque, ma quello
“organico” alla classe subalterna, antimperialista e anticolonialista. Said è
lettore e interprete di Gramsci. /fe.d.
L’INTELLETTUALE
SECONDO SAID
Quella dell’intellettuale,
tuttavia, è voce solitaria e ha risonanza soltanto qualora si coniughi
liberamente con la realtà di un movimento, con le aspirazioni di un popolo, con
un ideale collettivo da perseguire. In Occidente, per esempio, dove perlopiù
prevale la critica indiscriminata al terrorismo e all’estremismo palestinese,
la legge dell’opportunismo esige una condanna senza mezzi termini, salvo poi
tessere le lodi della democrazia in Israele. Dopo di che sarà opportuno
aggiungere qualche parola a favore della pace. Il senso di responsabilità
impone che l’intellettuale dica ai palestinesi tutte queste cose, ma soprattutto cha a New York, Parigi o
Londra, dove il suo discorso può avere massima risonanza, egli sostenga l’idea
della libertà per i palestinesi nonchè della libertà dal terrore e
dall’estremismo per tutti gli attori
coinvolti, non soltanto la parte più debole e più vulnerabile.
Dire la verità al potere non
è idealismo alla Pangloss: significa soppesare scrupolosamente le alternative,
scegliere la migliore e rappresentarla con sapienza là dove si rivela più
efficace per modificare la realtà secondo giustizia.
Edward Said, Dire la verità -
Gli intellettuali e il potere,
Feltrinelli, 2014 (ed.or. 1994), pag.108.
EDWARD
SAID - LA QUESTIONE PALESTINESE
La questione palestinese. La
tragedia di essere vittima delle vittime (The
Question of Palestine, 1979; con nuova introduzione ed epilogo, 1992),
trad. di S. Chiarini e A. Uselli, Gamberetti Editrice, 1995; Collana La
Cultura, Milano, Il Saggiatore, 2011.
/ scheda ed. 2011 /
Molti sono i collegamenti e
le affinità tra la storia degli arabi e quella dei palestinesi, così come si
sono definiti nel secolo scorso. Ma l'incontro traumatico con l'occupazione
israeliana ha reso unica la storia dei palestinesi. L'unicità di questa storia e
di questo popolo, con le sue vite vissute, le sue tante sofferenze e le sue
profonde aspirazioni, è messa a fuoco e analizzata in "La questione
palestinese". La storia nazionale palestinese testimonia uno scontro
perdente tra un'ambiziosa ideologia, fondamentalmente europea, e l'incapacità
di convincere l'Occidente della giustezza della causa anticolonialista araba.
Eppure, nonostante questo tragico fallimento, nonostante i palestinesi siano
stati dispersi, frazionati, espropriati dei loro territori, essi hanno saputo
sviluppare una sorprendente capacità di resistenza e, soprattutto, dare vita
alla loro specifica identità di popolo. A partire dalla realtà storica del suo
popolo, Edward W. Said in questo libro mette crudamente alla prova
l'infondatezza delle gabbie interpretative già criticate in
"Orientalismo", fornendo la definizione più esauriente e illuminante
della questione palestinese.
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