Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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martedì 31 ottobre 2023

LA PROMESSA DELLA TERRA _ SUL FUTURO DELLA PALESTINA

 




documenti per una visione marxista, universalistica e di classe della "questione palestinese"

a cura di Ferdinando Dubla - Subaltern studies Italia


“Due popoli due stati” è una formula consunta, consumata dall’asimmetria dovuta all’occupazione israeliana dei territori palestinesi. E non ci può essere pace senza la fine dell’occupazione (Edward Said - 2002) che ci sembra un punto fermo anche riferito alle posizioni dell’ANP di Abu Mazen (Autorità Nazionale Palestinese, al governo in mezzadria con l’esercito israeliano in Cisgiordania). La configurazione di un unico stato binazionale, rilanciata qui in Italia da Moni Ovadia, (cfr. intervista all’Unità del 28 ottobre c.a., propria di Ilan Pappè, cfr. qui ultimo paragrafo) non convince però i comunisti israeliani e palestinesi (leggi l’importante documento del Partito Comunista Israeliano, paragrafo sottostante) in quanto porterebbe a negare il diritto alla terra palestinese abusivamente occupata, colonizzata a suon di crimini di guerra. Quindi, quando si perora la causa di uno Stato palestinese, come entità politica statuale autonoma e indipendente, più che criticare la formazione statale che, come da ogni parte, può essere superata in un processo rivoluzionario di transizione e di “lunga durata”, bisogna rifuggire da nazionalismo e fondamentalismo religioso teologico-politico, dal sionismo e dal jaidismo, facce di una stessa medaglia, armi di distruzione di massa delle popolazioni. Ecco perchè “democrazia per due popoli” e laicismo socialista nelle forme e nei modi dell’autodeterminazione politica delle popolazioni, suggella il diritto alla resistenza popolare e l’avvio di un processo di trasformazione sociale strutturale e radicale delle classi subalterne nei confronti delle classi dominanti, palestinesi e israeliane. La lettura classista marxista dei fatti sociali e degli scenari geopolitici deve essere il linguaggio universalista dei comunisti, contro l’imperialismo atlantista guerrafondaio, contro il colonialismo e neocolonialismo occidentalista, contro il teologismo politico fondamentalista. /

I COMUNISTI DEVONO TROVARE UN LINGUAGGIO UNIVERSALISTA

- HADASH nasce nel 1977 dall'unione del Partito Comunista di Israele (Rakah) con parte del movimento delle Pantere Nere e altri gruppi di sinistra. All'interno di Hadash, il PC di Israele mantiene uno status autonomo.

[In Israele] l’unica forza politica che sta cercando di opporsi all’ondata bellicista è rappresentata dal Partito Comunista Israeliano e dal Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza, promosso dai comunisti nel 1977 e che resta punto di riferimento per tutti coloro, principalmente arabi ma anche ebrei, che rifiutano la contrapposizione etnica e la logica di guerra.

Le condizioni nelle quali i comunisti e i loro alleati possono condurre la loro battaglia politica sono estremamente difficili. In parlamento, Ofer Cassif eletto nelle liste di Hadash, è stato praticamente espulso per 45 giorni per aver sostenuto le posizioni politiche del movimento.


I comunisti israeliani contro l’ondata bellicista

Ottobre 26, 2023

L’attacco portato da Hamas al sud di Israele, nel quale oltre a 300 militari sono stati uccisi centinaia di civili, ha aperto una nuova fase del conflitto israelo-palestinese dalle conseguenze imprevedibili. Esercito e servizi segreti dello stato ebraico sono stati presi alla sprovvista e il bilancio in termini di vittime è stato il più alto subito da Israele al di fuori delle diverse guerre tra Stati che lo hanno visto protagonista dal 1948 ad oggi.

All’interno del paese la reazione è stata da un lato di estesa critica al governo di Netanyahu, che unisce destra ed estrema destra suprematista, accusato di avere sguarnito la difesa al confine con Gaza per rafforzare il sostegno militare ai coloni che occupano illegalmente i territori palestinesi in Cisgiordania. A Netanyahu personalmente viene anche imputato di avere diviso in due campi frontalmente contrapposti la società israeliana per imporre una riduzione dei poteri della Corte Suprema sostanzialmente finalizzata a garantire la propria impunità dalle accuse di corruzione ma anche a piegare alla propria visione autoritaria il sistema politico israeliano.

L’attacco di Hamas ha pericolosamente scatenato un’ondata bellicista che in larga misura sostiene l’idea dell’azione militare a Gaza, anche se questo comporta di colpire indiscriminatamente la popolazione civile come sta avvenendo in questi giorni e continuerà ancora per non si sa quanto tempo.

L’esercito ha già predisposto una “grande armata” di 300.000 uomini (e donne) al confine con la striscia di Gaza, pronta ad invadere quel disgraziato territorio. Nel frattempo ha avviato una vasta campagna di bombardamenti, ha intimato a un milione di abitanti di spostarsi nella parte sud del territorio (che per altro ha continuato ad essere colpito dall’aviazione israeliana), e ha bloccato tutti i rifornimenti vitali per la popolazione. Solo una piccola quota di aiuti ha potuto attraversare, dopo lunghe e laboriose trattative, il valico di Rafah, unico passaggio di collegamento con l’Egitto.

L’esercito ha dichiarato di essere pronto per avviare un’operazione militare che prevede l’attacco da terra, dal mare e dall’aria, ma attende il via libera del governo. Netanyahu sembra ancora incerto sul da farsi. I settori più oltranzisti del governo pensano che questa sia l’occasione per avviare una grande operazione di pulizia etnica che possa liberarsi definitivamente dell’ingombro palestinese, costringendo alla fuga gli abitanti di Gaza e forse anche quelli della Cisgiordania. Operazione alla quale si oppongono evidentemente sia l’Egitto che la Giordania.

Per ora il governo e l’esercito hanno dichiarato un obbiettivo più limitato ma certamente ambizioso. Rimuovere completamente la presenza di Hamas da Gaza. Questo può implicare un conflitto che, come ha dichiarato un portavoce militare al quotidiano israeliano Haaretz, potrebbe durare quasi certamente mesi e forse anni. Questa è la preoccupazione degli Stati Uniti che, come sempre, si sono schierati a sostegno di Israele, mettendo in campo forze militari dirette, armi e sostegno politico nelle sedi internazionali, ma temono le ricadute politiche nelle loro relazioni globali da un’azione militare prolungata nel tempo e con un bilancio sempre più pesante di vittime civili. Certamente la decisione di Israele di prendere di mira l’Onu a seguito delle dichiarazioni di Guterres sulle cause di fondo del conflitto israelo-palestinese non favoriranno l’allineamento di molti Stati e delle loro opinioni pubbliche dietro la guida degli Stati Uniti, sia nella guerra contro Gaza sia in quella che prosegue in Ucraina.

Il portavoce della Casa Bianca ha dichiarato che gli Usa respingono le richieste di cessate il fuoco e ha anche affermato che le vittime civili sono “quasi inevitabili”. Un discorso che per gran parte del mondo evidenzia la doppia morale occidentale nel valutare i “propri morti” e quelli “altrui”, come ha sottolineato con forza un personaggio normalmente moderato e filo-occidentale come il re di Giordania.

Per ora le voci critiche all’interno di Israele sono poche e abbastanza isolate. Un sondaggio di cui riferisce il Jerusalem Post rivela che certamente la fiducia nel governo è la più bassa da vent’anni a questa parte e dubbi si sono accesi anche sull’affidabilità dei vertici militari ma, in ogni caso, quasi la metà degli intervistati il (47,5%) ritiene che non si debba avere nessuna preoccupazione per i civili di Gaza. Un’altra parte consistente ritiene che questa remora debba essere solo minimale. Solo nella minoranza arabo-palestinese, l’83% degli intervistati ritiene che anche le condizioni di vita della popolazione di Gaza debbano essere tenute in conto da Israele.

Il maggior elemento di difficoltà per il governo si trova sulla questione dei circa 200 ostaggi presi da Hamas in territorio israeliano e portati a Gaza. Solo 4 finora sono stati liberati, altri forse sono morti sotto i bombardamenti. I famigliari protestano regolarmente sotto le sedi governativi chiedendo un impegno del governo per la loro liberazione. Una possibilità che l’inizio dell’invasione di Gaza renderebbe molto difficile se non impossibile.

In questo contesto l’unica forza politica che sta cercando di opporsi all’ondata bellicista è rappresentata dal Partito Comunista Israeliano e dal Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza, promosso dai comunisti nel 1977 e che resta punto di riferimento per tutti coloro, principalmente arabi ma anche ebrei, che rifiutano la contrapposizione etnica e la logica di guerra.

Le condizioni nelle quali i comunisti e i loro alleati possono condurre la loro battaglia politica sono estremamente difficili. In parlamento, Ofer Cassif eletto nelle liste di Hadash, è stato praticamente espulso per 45 giorni per aver sostenuto le posizioni politiche del movimento.

Il Partito Comunista Israeliano ha una lunga e complessa storia che risale al 1919 quando sorse la prima organizzazione ispirata alle idee della rivoluzione d’Ottobre. Da questa nacque il Partito Comunista Palestinese, inizialmente composto quasi esclusivamente da ebrei originari della Russia e dell’est Europa e poi a metà degli anni ’30 capace di arruolare nelle proprie file militanti arabi.

Nel 1948, i comunisti che operavano nel territorio del neonato stato di Israele, sia ebrei che arabi, diedero vita al Partito Comunista Israeliano, il cui leader Meir Vilner fu tra i firmatari della dichiarazione di indipendenza. I comunisti sono sempre stati l’unica forza a rifiutare la contrapposizione etnica in nome di una visione universalista e classista della società. Per questo sono sempre stati fermamente critici del sionismo come ideologia, ma nello stesso tempo difendono l’esistenza di Israele come stato a maggioranza ebraica. Difendono l’idea della convivenza dello stato israeliano a fianco di uno stato palestinese installato nei confini della linea verde del 1948 e quindi con il ritiro di Israele da tutti i territori occupati e lo smantellamento delle colonie insediate in quei territori.

All’interno di Israele contestano la definizione di “stato ebraico”, in nome di una visione laica e pluralista, anche se ovviamente resterà una maggioranza ebraica, e chiedono il riconoscimento della presenza degli arabo-palestinesi come minoranza nazionale dotata di propri diritti. Da tempo denunciano una deriva “fascista” in atto in Israele con la crescita delle tendenze razziste, suprematiste e del fondamentalismo religioso che con Netanyahu hanno avuto sempre più peso nel governo.

Sulle ultime vicende hanno condannato in modo “inequivoco” ogni attacco a civili innocenti. Ayman Odeh, leader di Hadash, ha dichiarato che gli attacchi ai civili devono essere “assolutamente proibiti” e ha condannato gli appelli di Hamas ai cittadini della minoranza arabo-palestinese ad unirsi alla lotta contro Israele.

Sia il Partito che il Fronte hanno denunciato le responsabilità del governo Netanyahu nella escalation dello scontro militare tra Hamas e Israele. “I crimini del governo fascista di destra nel perpetuare l’occupazione – scrivono in un loro comunicato – stanno conducendo ad una guerra regionale che deve essere fermata.”

Il partito collega l’escalation del conflitto alle azioni dei coloni nei territori occupati che nelle ultime settimane, col sostegno del governo, hanno attaccato la moschea di Al Aqsa e condotto l’ennesimo pogrom anti-arabo a Huwara. I comunisti chiedono alla comunità internazionale e ai paesi della regione di intervenire immediatamente per mettere a tacere i tamburi di guerra e promuovere una soluzione politica. Non ci può essere una soluzione militare al conflitto perché questa può realizzarsi solo mettendo fine all’occupazione e riconoscendo i diritti legittimi del popolo palestinese. La fine dell’occupazione e l’instaurazione di una pace giusta sono nel comune interesse dei due popoli.

Come hanno affermato in un loro documento congressuale per risolvere il conflitto israelo-palestinese, il PCI si batte su due fronti. Da un lato ci sono l’Amministrazione americana e i governi israeliani (dovremmo aggiungere l’Unione Europea) che si sono dichiarati per la soluzione dei due stati, ma in realtà questa affermazione è avanzata non per implementarla quanto per oscurare il processo reale dell’occupazione e della colonizzazione dei territori occupati.

Il “secondo fronte” è quello che in “vari circoli” propone il ritiro dell’obbiettivo dei due stati e di accontentarsi della “opzione teorica dell’unico stato binazionale”. La posizione del PCI è che questa opzione è inaccettabile, non funzionale e non costituisce una vera alternativa alla soluzione dei due stati.

I comunisti, seguendo la strategia che hanno sempre richiamato nei loro documenti della “politica di massa”, pur contrastando il sionismo e l’identificazione tra sionismo e stato israeliano, sono sempre disposti a lavorare con settori sionisti di sinistra e pacifisti. Queste correnti, che in certi momenti hanno animato il “campo della pace”, sono da tempo in crisi profonda e incapaci di riformulare una prospettiva coerente che tenga insieme una proposta di soluzione del conflitto con la loro ideologia di riferimento.

Nel frattempo all’interno del campo sionista si sono sempre più rafforzate le componenti caratterizzate da oltranzismo, suprematismo e fondamentalismo religioso. Questa egemonia, se da un lato ha favorito lo spostamento a destra di importanti settori delle comunità ebraiche in Occidente, ha anche fatto emergere, soprattutto negli Stati Uniti, una forte presenza di ebrei che rifiutano l’accettazione incondizionata ed acritica delle politiche militariste prevalenti nella politica israeliana.

In questa fase difficile, i comunisti israeliani cercano di tenere aperto uno spazio all’interno del loro Paese per una prospettiva politica ragionevole e giusta, contro la logica della vendetta e della criminalizzazione indiscriminata dell’intero popolo palestinese.

Nei giorni scorsi l’organizzazione giovanile comunista ha diffuso un documento comune con il Mesarvot Network, che sostiene l’obiezione di coscienza all’occupazione militare e i “Giovani contro la dittatura” che si oppongono alle politiche di Natanyahu sia all’interno di Israele che nei territori.

“Noi, giovani attivisti dell’anti-apartheid, siamo fermamente contrari all’uccisione indiscriminata di civili e contro i crimini di guerra perpetrati da Hamas e dall’esercito israeliano”, scrivono nel loro documento.

Le proposte politiche che vengono avanzate sono: il cessate il fuoco immediato; il rilascio di tutti gli ostaggi e i prigionieri politici; l’arrivo rapido degli aiuti umanitari a Gaza; la richiesta a Israele di restituire le forniture di acqua, cibo ed elettricità a Gaza; la condanna di ogni trasferimento forzato come quello imposto ad un milione di residenti di Gaza; l’embargo delle armi a tutte le parti combattenti; la richiesta al governo israeliano di mettere fine all’illegale e mortale assedio di Gaza e all’occupazione della Cisgiordania; la fine della manovre israeliane per dividere i palestinesi; l’incoraggiamento a tutte le parti coinvolte per avviare negoziati che giungano ad una pace duratura attraverso la soluzione dei due stati  e il diritto al ritorno.

Voci ancora flebili ma il cui rafforzamento è indispensabile se si vuole uscire dalla logica di guerra e aprire la strada alla soluzione politica del conflitto.

Franco Ferrari

25/10/2023 

 


Estratto - Partito del Popolo Palestinese (PPP) 21 gennaio 2018

Non c’è dubbio che sia di grande importanza rafforzare la linea laica antimperialista nella “resistenza” palestinese, tenendo presente che tutti i palestinesi sono ostili all’occupazione e ostili alla posizione americana che favorisce Israele. Tuttavia, non è possibile descrivere la tendenza laica come la più forte, in quanto vi è una grande influenza del movimento religioso che è cresciuto negli ultimi decenni a seguito delle politiche adottate dai regimi arabi in generale, sopprimendo la sinistra e le forze laiche. D’altra parte, la più grande forza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il movimento Fatah, che dovrebbe rappresentare la tendenza laica, sta bloccando la strada per raggiungere una soluzione politica attraverso un processo politico. Inoltre, le forze di sinistra, che dovrebbero sollevare la bandiera del secolarismo, dello stato civile, della separazione dei poteri e del passaggio pacifico del potere ecc., sono deboli nell’arena palestinese.

L’antimperialismo non è chiaro o facile da definire nel caso palestinese che sta attraversando un processo di liberazione nazionale caratterizzato da un rapporto di forze sfavorevole. Ciò spinge la leadership politica a cercare altri attori anche all’interno del campo imperialista, approfittando di alcune differenze nelle loro posizioni rispetto a quella degli Stati Uniti, come ad esempio l’Unione Europea, per modificare questo equilibrio. Tuttavia, la forte tendenza religiosa e parte della tendenza laica, pur essendo in contrasto con il mondo capitalista a causa dell’attuale situazione politica, dell’esistenza dell’occupazione, del sostegno di Israele, ecc., non è ostile al sistema capitalista.

Questo è ciò che vediamo chiaramente nelle politiche di molti paesi della regione; possono essere in conflitto con gli Stati Uniti e la NATO non perché conducono la guerra imperiale ma a causa delle politiche statunitensi nei confronti di questi paesi o regimi, mentre allo stesso tempo stabiliscono le migliori relazioni con gli altri poli capitalisti nel mondo.

Rafforzare e attivare il ruolo della sinistra palestinese, unificare la sua visione politica e l’attività sul terreno, rinunciare alle sue differenze saranno le premesse per rafforzare il movimento antimperialista nell’arena palestinese.

Estratto - Partito Comunista Palestinese (PCP) 21 gennaio 2018

La questione dei rivoluzionari che sono coinvolti nell’OLP merita un lungo dibattito e solleva le seguenti domande:

1) Ci sono elementi rivoluzionari nell’OLP

2) Se ci sono elementi rivoluzionari, chi sono e qual è stato il loro ruolo nel conflitto in corso e nello sviluppo dell’organizzazione?

La storia delle cosiddette organizzazioni sociali rivoluzionarie mostra che queste organizzazioni sono state e sono ancora il ponte tra il movimento rivoluzionario e la destra palestinese. Il loro ruolo nell’autorità di Oslo è emerso sia direttamente che indirettamente partecipando al governo attraverso la loro presenza in posizioni sensibili all’interno dei ministeri. (..) La nostra posizione sull’OLP è che è un’organizzazione che ha perso il suo carattere rivoluzionario dopo aver rinunciato alle disposizioni della Carta nazionale palestinese. Ciò che serve è riorganizzare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina su una base rivoluzionaria nazionale democratica. La nostra posizione è il sostegno dell’OLP dopo il suo rinnovo.

Estratto - Partito Comunista di Israele (CPI) 21 gennaio 2018

È tempo che l’intera comunità internazionale riassuma il suo ruolo nel conflitto israelo-palestinese. Pertanto, ribadiamo la nostra ferma posizione di richiesta di una conferenza internazionale per risolvere la questione palestinese, che imporrà la sua volontà sulla parte israeliana e libererà il popolo palestinese dalla sofferenza e dall’oppressione e realizzerà i suoi legittimi diritti nello stato indipendente palestinese, con Gerusalemme Est come capitale e il ritorno dei rifugiati in conformità con le risoluzioni di legittimità internazionale. (..) la società israeliana è ancora soggetta all’influenza dell’ideologia sionista radicale e abbraccia l’intera narrativa religiosa nei confronti di Gerusalemme. Pertanto, la posizione della società israeliana è incentrata sul sostegno di questa decisione. Persino le forze che potrebbero considerarsi razionali hanno adottato questa decisione pur sapendo che il suo tempismo fa gioco al governo dell’estrema destra e al suo leader Benjamin Netanyahu.

Con l’eccezione del nostro Partito Comunista, del nostro Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza (Hadash) e della lista comune che si opponeva a questa risoluzione, ritenuta una flagrante violazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese, tutti i partiti politici in Israele hanno accolto con favore questa decisione.

Il Partito Comunista Israeliano e il Partito del Popolo Palestinese hanno rilasciato una dichiarazione congiunta su questa risoluzione: la politica Usa a sostegno dell’occupazione israeliana dei territori occupati nel 1967 alimenterà solo il caos e l’instabilità nella regione e nel mondo. Gli Stati Uniti d’America sono parte del problema, non della soluzione; non vi è altra via che porre fine all’occupazione, esercitare il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e istituire uno stato indipendente nei territori del 1967 con Gerusalemme come sua capitale e risolvere la questione dei rifugiati in conformità con la risoluzione 194 delle Nazioni Unite. (..) Netanyahu sa molto bene come alimentare sentimenti e animosità nazionaliste tra gli ebrei e questo serve al suo programma di estrema destra. Per cui, la decisione di Trump non ha fatto che facilitargli il compito.

Ma la cosa più pericolosa è la possibilità che queste rapide indagini conducano a un’avventura militare verso la Striscia di Gaza. Questa possibilità è ancora nei pensieri del governo e del suo primo ministro estremista di destra.

Pertanto, il nostro partito cerca di approfondire e sviluppare la lotta per accelerare il rovesciamento di questo governo. Sta lavorando alla più ampia cooperazione per proporre l’unica soluzione che garantisce i diritti dei due popoli: porre fine all’occupazione e stabilire uno stato palestinese indipendente entro i confini del 4 giugno con Gerusalemme Est come capitale accanto allo Stato di Israele con Gerusalemme Ovest come sua capitale.

tratto da International Communist Press (ICP)
Speciale intervista con il Partito del Popolo Palestinese, il Partito Comunista Palestinese e il Partito Comunista di Israele sulle questioni di Gerusalemme e delle lotte future, 21 gennaio 2018

 

LA PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA E L'AUTODETERMINAZIONE POLITICA

Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina

«Insieme all’ultimo Said, Ilan Pappé è il più eloquente narratore della storia palestinese». «New Statesman»

ed. Fazi, 2008, anche in formato digitale https://fazieditore.it/catalogo-libri/la-pulizia-etnica-della-palestina

- scheda-

Nel 1948 nacque lo Stato d’Israele. Ma nel 1948 ebbe luogo anche la Nakba (‘catastrofe’), ovvero la cacciata di circa 250.000 palestinesi dalla loro terra. La vulgata israeliana ha sempre narrato che in quell’anno, allo scadere del Mandato britannico in Palestina, le Nazioni Unite avevano proposto di dividere la regione in due Stati: il movimento sionista era d’accordo, ma il mondo arabo si oppose; per questo, entrò in guerra con Israele e convinse i palestinesi ad abbandonare i territori – nonostante gli appelli dei leader ebrei a rimanere – pur di facilitare l’ingresso delle truppe arabe. La tragedia dei rifugiati palestinesi, di conseguenza, non sarebbe direttamente imputabile a Israele. Ilan Pappé, ricercatore appartenente alla corrente dei New Historians israeliani, ha studiato a lungo la documentazione (compresi gli archivi militari desecretati nel 1988) esistente su questo punto cruciale della storia del suo paese, giungendo a una visione chiara di quanto era accaduto nel ’48 drammaticamente in contrasto con la versione tramandata dalla storiografia ufficiale: già negli anni Trenta, la leadership del futuro Stato d’Israele (in particolare sotto la direzione del padre del sionismo, David Ben Gurion) aveva ideato e programmato in modo sistematico un piano di pulizia etnica della Palestina. Ciò comporta, secondo l’autore, enormi implicazioni di natura morale e politica, perché definire pulizia etnica quello che Israele fece nel ’48 significa accusare lo Stato d’Israele di un crimine. E nel linguaggio giuridico internazionale, la pulizia etnica è un crimine contro l’umanità. Per questo, secondo Pappé, il processo di pace si potrà avviare solo dopo che gli israeliani e l’opinione pubblica mondiale avranno ammesso questo “peccato originale”.

 



* Ilan Pappé (in ebraico אילן פפה, Ilan Pappe) (Haifa, 7 novembre 1954) è uno storico israeliano.

Intellettuale e studioso socialista, ebreo e anti-sionista, di formazione comunista, è uno dei rappresentanti della cosiddetta Nuova storiografia israeliana, che ha come fine scientifico ed etico quello di sottoporre a un accurato riesame la documentazione orale, che è prevalsa per decenni, nel tracciare le linee ricostruttive storiche relative alla nascita dello Stato d'Israele e del sionismo in Israele; nella "nuova storiografia" Pappé rappresenta la voce più critica nei confronti della leadership israeliana (da Ben Gurion in poi) e in favore dei palestinesi.

Nel 1996 Pappé è stato candidato alla Knesset sulla lista dell'Hadash, emanazione del Partito Comunista Israeliano, ma in seguito ha lasciato il Paese.

Secondo Ilan Pappé, l'esodo palestinese può essere paragonato ad un'operazione di «pulizia etnica», conseguenza di una politica pianificata da David Ben Gurion e messa in opera dai suoi consiglieri; sempre secondo Ilan Pappé, questa politica fu applicata fin dal dicembre del 1947, ben prima quindi della proclamazione dello Stato d'Israele (1948).

Egli sostiene uno stato binazionale laico e secolare comprendente sia ebrei che arabi, in posizione di parità. 



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