documenti per una visione marxista,
universalistica e di classe della "questione palestinese"
a cura di Ferdinando Dubla - Subaltern studies Italia
“Due popoli due stati” è una
formula consunta, consumata dall’asimmetria dovuta all’occupazione israeliana
dei territori palestinesi. E non ci può essere pace senza la fine
dell’occupazione (Edward Said - 2002) che ci sembra un punto fermo anche
riferito alle posizioni dell’ANP di Abu Mazen (Autorità Nazionale Palestinese,
al governo in mezzadria con l’esercito israeliano in Cisgiordania). La
configurazione di un unico stato binazionale, rilanciata qui in Italia da Moni
Ovadia, (cfr. intervista all’Unità del 28 ottobre c.a., propria di Ilan Pappè,
cfr. qui ultimo paragrafo) non convince però i comunisti israeliani e
palestinesi (leggi l’importante documento del Partito Comunista Israeliano,
paragrafo sottostante) in quanto porterebbe a negare il diritto alla terra
palestinese abusivamente occupata, colonizzata a suon di crimini di guerra.
Quindi, quando si perora la causa di uno Stato palestinese, come entità
politica statuale autonoma e indipendente, più che criticare la formazione
statale che, come da ogni parte, può essere superata in un processo
rivoluzionario di transizione e di “lunga durata”, bisogna rifuggire da
nazionalismo e fondamentalismo religioso teologico-politico, dal sionismo e dal
jaidismo, facce di una stessa medaglia, armi di distruzione di massa delle
popolazioni. Ecco perchè “democrazia per due popoli” e laicismo socialista
nelle forme e nei modi dell’autodeterminazione politica delle popolazioni,
suggella il diritto alla resistenza popolare e l’avvio di un processo di
trasformazione sociale strutturale e radicale delle classi subalterne nei
confronti delle classi dominanti, palestinesi e israeliane. La lettura
classista marxista dei fatti sociali e degli scenari geopolitici deve essere il
linguaggio universalista dei comunisti, contro l’imperialismo atlantista
guerrafondaio, contro il colonialismo e neocolonialismo occidentalista, contro
il teologismo politico fondamentalista. /
I
COMUNISTI DEVONO TROVARE UN LINGUAGGIO UNIVERSALISTA
- HADASH nasce nel 1977
dall'unione del Partito Comunista di Israele (Rakah) con parte del movimento
delle Pantere Nere e altri gruppi di sinistra. All'interno di Hadash, il PC di
Israele mantiene uno status autonomo.
[In Israele] l’unica forza
politica che sta cercando di opporsi all’ondata bellicista è rappresentata dal
Partito Comunista Israeliano e dal Fronte Democratico per la Pace e
l’Uguaglianza, promosso dai comunisti nel 1977 e che resta punto di riferimento
per tutti coloro, principalmente arabi ma anche ebrei, che rifiutano la
contrapposizione etnica e la logica di guerra.
Le condizioni nelle quali i
comunisti e i loro alleati possono condurre la loro battaglia politica sono
estremamente difficili. In parlamento, Ofer Cassif eletto nelle liste di
Hadash, è stato praticamente espulso per 45 giorni per aver sostenuto le
posizioni politiche del movimento.
I
comunisti israeliani contro l’ondata bellicista
Ottobre 26, 2023
L’attacco portato da
Hamas al sud di Israele, nel quale oltre a 300 militari sono stati uccisi
centinaia di civili, ha aperto una nuova fase del conflitto israelo-palestinese
dalle conseguenze imprevedibili. Esercito e servizi segreti dello stato ebraico
sono stati presi alla sprovvista e il bilancio in termini di vittime è stato il
più alto subito da Israele al di fuori delle diverse guerre tra Stati che lo
hanno visto protagonista dal 1948 ad oggi.
All’interno del paese la
reazione è stata da un lato di estesa critica al governo di Netanyahu, che
unisce destra ed estrema destra suprematista, accusato di avere sguarnito la
difesa al confine con Gaza per rafforzare il sostegno militare ai coloni che
occupano illegalmente i territori palestinesi in Cisgiordania. A Netanyahu
personalmente viene anche imputato di avere diviso in due campi frontalmente
contrapposti la società israeliana per imporre una riduzione dei poteri della
Corte Suprema sostanzialmente finalizzata a garantire la propria impunità dalle
accuse di corruzione ma anche a piegare alla propria visione autoritaria il
sistema politico israeliano.
L’attacco di Hamas ha
pericolosamente scatenato un’ondata bellicista che in larga misura sostiene
l’idea dell’azione militare a Gaza, anche se questo comporta di colpire
indiscriminatamente la popolazione civile come sta avvenendo in questi giorni e
continuerà ancora per non si sa quanto tempo.
L’esercito ha già
predisposto una “grande armata” di 300.000 uomini (e donne) al confine con la
striscia di Gaza, pronta ad invadere quel disgraziato territorio. Nel frattempo
ha avviato una vasta campagna di bombardamenti, ha intimato a un milione di
abitanti di spostarsi nella parte sud del territorio (che per altro ha
continuato ad essere colpito dall’aviazione israeliana), e ha bloccato tutti i
rifornimenti vitali per la popolazione. Solo una piccola quota di aiuti ha
potuto attraversare, dopo lunghe e laboriose trattative, il valico di Rafah,
unico passaggio di collegamento con l’Egitto.
L’esercito ha dichiarato
di essere pronto per avviare un’operazione militare che prevede l’attacco da
terra, dal mare e dall’aria, ma attende il via libera del governo. Netanyahu
sembra ancora incerto sul da farsi. I settori più oltranzisti del governo
pensano che questa sia l’occasione per avviare una grande operazione di pulizia
etnica che possa liberarsi definitivamente dell’ingombro palestinese,
costringendo alla fuga gli abitanti di Gaza e forse anche quelli della
Cisgiordania. Operazione alla quale si oppongono evidentemente sia l’Egitto che
la Giordania.
Per ora il governo e
l’esercito hanno dichiarato un obbiettivo più limitato ma certamente ambizioso.
Rimuovere completamente la presenza di Hamas da Gaza. Questo può implicare un
conflitto che, come ha dichiarato un portavoce militare al quotidiano israeliano
Haaretz, potrebbe durare quasi certamente mesi e forse anni. Questa è la
preoccupazione degli Stati Uniti che, come sempre, si sono schierati a sostegno
di Israele, mettendo in campo forze militari dirette, armi e sostegno politico
nelle sedi internazionali, ma temono le ricadute politiche nelle loro relazioni
globali da un’azione militare prolungata nel tempo e con un bilancio sempre più
pesante di vittime civili. Certamente la decisione di Israele di prendere di
mira l’Onu a seguito delle dichiarazioni di Guterres sulle cause di fondo del
conflitto israelo-palestinese non favoriranno l’allineamento di molti Stati e
delle loro opinioni pubbliche dietro la guida degli Stati Uniti, sia nella
guerra contro Gaza sia in quella che prosegue in Ucraina.
Il portavoce della Casa
Bianca ha dichiarato che gli Usa respingono le richieste di cessate il fuoco e
ha anche affermato che le vittime civili sono “quasi inevitabili”. Un discorso
che per gran parte del mondo evidenzia la doppia morale occidentale nel valutare
i “propri morti” e quelli “altrui”, come ha sottolineato con forza un
personaggio normalmente moderato e filo-occidentale come il re di Giordania.
Per ora le voci critiche
all’interno di Israele sono poche e abbastanza isolate. Un sondaggio di cui
riferisce il Jerusalem Post rivela che certamente la fiducia nel governo è la
più bassa da vent’anni a questa parte e dubbi si sono accesi anche
sull’affidabilità dei vertici militari ma, in ogni caso, quasi la metà degli
intervistati il (47,5%) ritiene che non si debba avere nessuna preoccupazione
per i civili di Gaza. Un’altra parte consistente ritiene che questa remora
debba essere solo minimale. Solo nella minoranza arabo-palestinese, l’83% degli
intervistati ritiene che anche le condizioni di vita della popolazione di Gaza
debbano essere tenute in conto da Israele.
Il maggior elemento di
difficoltà per il governo si trova sulla questione dei circa 200 ostaggi presi
da Hamas in territorio israeliano e portati a Gaza. Solo 4 finora sono stati
liberati, altri forse sono morti sotto i bombardamenti. I famigliari protestano
regolarmente sotto le sedi governativi chiedendo un impegno del governo per la
loro liberazione. Una possibilità che l’inizio dell’invasione di Gaza
renderebbe molto difficile se non impossibile.
In questo contesto
l’unica forza politica che sta cercando di opporsi all’ondata bellicista è
rappresentata dal Partito Comunista Israeliano e dal Fronte Democratico per la
Pace e l’Uguaglianza, promosso dai comunisti nel 1977 e che resta punto di
riferimento per tutti coloro, principalmente arabi ma anche ebrei, che
rifiutano la contrapposizione etnica e la logica di guerra.
Le condizioni nelle quali
i comunisti e i loro alleati possono condurre la loro battaglia politica sono
estremamente difficili. In parlamento, Ofer Cassif eletto nelle liste di
Hadash, è stato praticamente espulso per 45 giorni per aver sostenuto le
posizioni politiche del movimento.
Il Partito Comunista
Israeliano ha una lunga e complessa storia che risale al 1919 quando sorse la
prima organizzazione ispirata alle idee della rivoluzione d’Ottobre. Da questa
nacque il Partito Comunista Palestinese, inizialmente composto quasi
esclusivamente da ebrei originari della Russia e dell’est Europa e poi a metà
degli anni ’30 capace di arruolare nelle proprie file militanti arabi.
Nel 1948, i comunisti che
operavano nel territorio del neonato stato di Israele, sia ebrei che arabi,
diedero vita al Partito Comunista Israeliano, il cui leader Meir Vilner fu tra
i firmatari della dichiarazione di indipendenza. I comunisti sono sempre stati
l’unica forza a rifiutare la contrapposizione etnica in nome di una visione
universalista e classista della società. Per questo sono sempre stati
fermamente critici del sionismo come ideologia, ma nello stesso tempo difendono
l’esistenza di Israele come stato a maggioranza ebraica. Difendono l’idea della
convivenza dello stato israeliano a fianco di uno stato palestinese installato
nei confini della linea verde del 1948 e quindi con il ritiro di Israele da
tutti i territori occupati e lo smantellamento delle colonie insediate in quei
territori.
All’interno di Israele
contestano la definizione di “stato ebraico”, in nome di una visione laica e
pluralista, anche se ovviamente resterà una maggioranza ebraica, e chiedono il
riconoscimento della presenza degli arabo-palestinesi come minoranza nazionale
dotata di propri diritti. Da tempo denunciano una deriva “fascista” in atto in
Israele con la crescita delle tendenze razziste, suprematiste e del
fondamentalismo religioso che con Netanyahu hanno avuto sempre più peso nel
governo.
Sulle ultime vicende
hanno condannato in modo “inequivoco” ogni attacco a civili innocenti. Ayman
Odeh, leader di Hadash, ha dichiarato che gli attacchi ai civili devono essere
“assolutamente proibiti” e ha condannato gli appelli di Hamas ai cittadini
della minoranza arabo-palestinese ad unirsi alla lotta contro Israele.
Sia il Partito che il
Fronte hanno denunciato le responsabilità del governo Netanyahu nella
escalation dello scontro militare tra Hamas e Israele. “I crimini del governo
fascista di destra nel perpetuare l’occupazione – scrivono in un loro
comunicato – stanno conducendo ad una guerra regionale che deve essere
fermata.”
Il partito collega
l’escalation del conflitto alle azioni dei coloni nei territori occupati che
nelle ultime settimane, col sostegno del governo, hanno attaccato la moschea di
Al Aqsa e condotto l’ennesimo pogrom anti-arabo a Huwara. I comunisti chiedono
alla comunità internazionale e ai paesi della regione di intervenire
immediatamente per mettere a tacere i tamburi di guerra e promuovere una
soluzione politica. Non ci può essere una soluzione militare al conflitto
perché questa può realizzarsi solo mettendo fine all’occupazione e riconoscendo
i diritti legittimi del popolo palestinese. La fine dell’occupazione e
l’instaurazione di una pace giusta sono nel comune interesse dei due popoli.
Come hanno affermato in
un loro documento congressuale per risolvere il conflitto israelo-palestinese,
il PCI si batte su due fronti. Da un lato ci sono l’Amministrazione americana e
i governi israeliani (dovremmo aggiungere l’Unione Europea) che si sono
dichiarati per la soluzione dei due stati, ma in realtà questa affermazione è
avanzata non per implementarla quanto per oscurare il processo reale
dell’occupazione e della colonizzazione dei territori occupati.
Il “secondo fronte” è
quello che in “vari circoli” propone il ritiro dell’obbiettivo dei due stati e
di accontentarsi della “opzione teorica dell’unico stato binazionale”. La
posizione del PCI è che questa opzione è inaccettabile, non funzionale e non
costituisce una vera alternativa alla soluzione dei due stati.
I comunisti, seguendo la
strategia che hanno sempre richiamato nei loro documenti della “politica di
massa”, pur contrastando il sionismo e l’identificazione tra sionismo e stato
israeliano, sono sempre disposti a lavorare con settori sionisti di sinistra e
pacifisti. Queste correnti, che in certi momenti hanno animato il “campo della
pace”, sono da tempo in crisi profonda e incapaci di riformulare una
prospettiva coerente che tenga insieme una proposta di soluzione del conflitto
con la loro ideologia di riferimento.
Nel frattempo all’interno
del campo sionista si sono sempre più rafforzate le componenti caratterizzate
da oltranzismo, suprematismo e fondamentalismo religioso. Questa egemonia, se
da un lato ha favorito lo spostamento a destra di importanti settori delle
comunità ebraiche in Occidente, ha anche fatto emergere, soprattutto negli
Stati Uniti, una forte presenza di ebrei che rifiutano l’accettazione
incondizionata ed acritica delle politiche militariste prevalenti nella
politica israeliana.
In questa fase difficile,
i comunisti israeliani cercano di tenere aperto uno spazio all’interno del loro
Paese per una prospettiva politica ragionevole e giusta, contro la logica della
vendetta e della criminalizzazione indiscriminata dell’intero popolo
palestinese.
Nei giorni scorsi
l’organizzazione giovanile comunista ha diffuso un documento comune con il
Mesarvot Network, che sostiene l’obiezione di coscienza all’occupazione
militare e i “Giovani contro la dittatura” che si oppongono alle politiche di
Natanyahu sia all’interno di Israele che nei territori.
“Noi, giovani attivisti
dell’anti-apartheid, siamo fermamente contrari all’uccisione indiscriminata di
civili e contro i crimini di guerra perpetrati da Hamas e dall’esercito
israeliano”, scrivono nel loro documento.
Le proposte politiche che
vengono avanzate sono: il cessate il fuoco immediato; il rilascio di tutti gli
ostaggi e i prigionieri politici; l’arrivo rapido degli aiuti umanitari a Gaza;
la richiesta a Israele di restituire le forniture di acqua, cibo ed elettricità
a Gaza; la condanna di ogni trasferimento forzato come quello imposto ad un
milione di residenti di Gaza; l’embargo delle armi a tutte le parti
combattenti; la richiesta al governo israeliano di mettere fine all’illegale e
mortale assedio di Gaza e all’occupazione della Cisgiordania; la fine della
manovre israeliane per dividere i palestinesi; l’incoraggiamento a tutte le
parti coinvolte per avviare negoziati che giungano ad una pace duratura
attraverso la soluzione dei due stati e il diritto al ritorno.
Voci ancora flebili ma il
cui rafforzamento è indispensabile se si vuole uscire dalla logica di guerra e aprire
la strada alla soluzione politica del conflitto.
Franco Ferrari
25/10/2023
Estratto - Partito del Popolo Palestinese (PPP) 21
gennaio 2018
Non c’è dubbio che sia di
grande importanza rafforzare la linea laica antimperialista nella “resistenza”
palestinese, tenendo presente che tutti i palestinesi sono ostili
all’occupazione e ostili alla posizione americana che favorisce Israele.
Tuttavia, non è possibile descrivere la tendenza laica come la più forte, in
quanto vi è una grande influenza del movimento religioso che è cresciuto negli
ultimi decenni a seguito delle politiche adottate dai regimi arabi in generale,
sopprimendo la sinistra e le forze laiche. D’altra parte, la più grande forza
dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, il movimento Fatah, che
dovrebbe rappresentare la tendenza laica, sta bloccando la strada per
raggiungere una soluzione politica attraverso un processo politico. Inoltre, le
forze di sinistra, che dovrebbero sollevare la bandiera del secolarismo, dello
stato civile, della separazione dei poteri e del passaggio pacifico del potere
ecc., sono deboli nell’arena palestinese.
L’antimperialismo non è
chiaro o facile da definire nel caso palestinese che sta attraversando un
processo di liberazione nazionale caratterizzato da un rapporto di forze
sfavorevole. Ciò spinge la leadership politica a cercare altri attori anche
all’interno del campo imperialista, approfittando di alcune differenze nelle
loro posizioni rispetto a quella degli Stati Uniti, come ad esempio l’Unione
Europea, per modificare questo equilibrio. Tuttavia, la forte tendenza
religiosa e parte della tendenza laica, pur essendo in contrasto con il mondo
capitalista a causa dell’attuale situazione politica, dell’esistenza
dell’occupazione, del sostegno di Israele, ecc., non è ostile al sistema
capitalista.
Questo è ciò che vediamo
chiaramente nelle politiche di molti paesi della regione; possono essere in
conflitto con gli Stati Uniti e la NATO non perché conducono la guerra
imperiale ma a causa delle politiche statunitensi nei confronti di questi paesi
o regimi, mentre allo stesso tempo stabiliscono le migliori relazioni con gli
altri poli capitalisti nel mondo.
Rafforzare e attivare il
ruolo della sinistra palestinese, unificare la sua visione politica e l’attività
sul terreno, rinunciare alle sue differenze saranno le premesse per rafforzare
il movimento antimperialista nell’arena palestinese.
Estratto - Partito Comunista Palestinese (PCP) 21
gennaio 2018
La questione dei
rivoluzionari che sono coinvolti nell’OLP merita un lungo dibattito e solleva
le seguenti domande:
1) Ci sono elementi
rivoluzionari nell’OLP
2) Se ci sono elementi
rivoluzionari, chi sono e qual è stato il loro ruolo nel conflitto in corso e
nello sviluppo dell’organizzazione?
La storia delle cosiddette
organizzazioni sociali rivoluzionarie mostra che queste organizzazioni sono
state e sono ancora il ponte tra il movimento rivoluzionario e la destra
palestinese. Il loro ruolo nell’autorità di Oslo è emerso sia direttamente che
indirettamente partecipando al governo attraverso la loro presenza in posizioni
sensibili all’interno dei ministeri. (..) La nostra posizione sull’OLP è che è
un’organizzazione che ha perso il suo carattere rivoluzionario dopo aver
rinunciato alle disposizioni della Carta nazionale palestinese. Ciò che serve è
riorganizzare l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina su una base
rivoluzionaria nazionale democratica. La nostra posizione è il sostegno
dell’OLP dopo il suo rinnovo.
Estratto - Partito Comunista di Israele (CPI) 21
gennaio 2018
È tempo che l’intera comunità
internazionale riassuma il suo ruolo nel conflitto israelo-palestinese.
Pertanto, ribadiamo la nostra ferma posizione di richiesta di una conferenza
internazionale per risolvere la questione palestinese, che imporrà la sua
volontà sulla parte israeliana e libererà il popolo palestinese dalla
sofferenza e dall’oppressione e realizzerà i suoi legittimi diritti nello stato
indipendente palestinese, con Gerusalemme Est come capitale e il ritorno dei rifugiati
in conformità con le risoluzioni di legittimità internazionale. (..) la società
israeliana è ancora soggetta all’influenza dell’ideologia sionista radicale e
abbraccia l’intera narrativa religiosa nei confronti di Gerusalemme. Pertanto,
la posizione della società israeliana è incentrata sul sostegno di questa
decisione. Persino le forze che potrebbero considerarsi razionali hanno
adottato questa decisione pur sapendo che il suo tempismo fa gioco al governo
dell’estrema destra e al suo leader Benjamin Netanyahu.
Con l’eccezione del nostro
Partito Comunista, del nostro Fronte Democratico per la Pace e l’Uguaglianza
(Hadash) e della lista comune che si opponeva a questa risoluzione, ritenuta
una flagrante violazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese, tutti
i partiti politici in Israele hanno accolto con favore questa decisione.
Il Partito Comunista
Israeliano e il Partito del Popolo Palestinese hanno rilasciato una
dichiarazione congiunta su questa risoluzione: la politica Usa a sostegno dell’occupazione
israeliana dei territori occupati nel 1967 alimenterà solo il caos e
l’instabilità nella regione e nel mondo. Gli Stati Uniti d’America sono parte
del problema, non della soluzione; non vi è altra via che porre fine
all’occupazione, esercitare il diritto all’autodeterminazione del popolo
palestinese e istituire uno stato indipendente nei territori del 1967 con
Gerusalemme come sua capitale e risolvere la questione dei rifugiati in
conformità con la risoluzione 194 delle Nazioni Unite. (..) Netanyahu sa molto
bene come alimentare sentimenti e animosità nazionaliste tra gli ebrei e questo
serve al suo programma di estrema destra. Per cui, la decisione di Trump non ha
fatto che facilitargli il compito.
Ma la cosa più pericolosa è
la possibilità che queste rapide indagini conducano a un’avventura militare
verso la Striscia di Gaza. Questa possibilità è ancora nei pensieri del governo
e del suo primo ministro estremista di destra.
Pertanto, il nostro partito
cerca di approfondire e sviluppare la lotta per accelerare il rovesciamento di
questo governo. Sta lavorando alla più ampia cooperazione per proporre l’unica
soluzione che garantisce i diritti dei due popoli: porre fine all’occupazione e
stabilire uno stato palestinese indipendente entro i confini del 4 giugno con
Gerusalemme Est come capitale accanto allo Stato di Israele con Gerusalemme
Ovest come sua capitale.
tratto da International Communist Press
(ICP)
Speciale intervista con
il Partito del Popolo Palestinese, il Partito Comunista Palestinese e il
Partito Comunista di Israele sulle questioni di Gerusalemme e delle lotte
future, 21 gennaio 2018
LA
PULIZIA ETNICA DELLA PALESTINA E L'AUTODETERMINAZIONE POLITICA
Ilan Pappé, La pulizia etnica della Palestina
«Insieme all’ultimo Said,
Ilan Pappé è il più eloquente narratore della storia palestinese». «New
Statesman»
ed. Fazi, 2008, anche in
formato digitale https://fazieditore.it/catalogo-libri/la-pulizia-etnica-della-palestina
- scheda-
Nel 1948 nacque lo Stato
d’Israele. Ma nel 1948 ebbe luogo anche la Nakba (‘catastrofe’), ovvero la
cacciata di circa 250.000 palestinesi dalla loro terra. La vulgata israeliana
ha sempre narrato che in quell’anno, allo scadere del Mandato britannico in
Palestina, le Nazioni Unite avevano proposto di dividere la regione in due
Stati: il movimento sionista era d’accordo, ma il mondo arabo si oppose; per
questo, entrò in guerra con Israele e convinse i palestinesi ad abbandonare i
territori – nonostante gli appelli dei leader ebrei a rimanere – pur di
facilitare l’ingresso delle truppe arabe. La tragedia dei rifugiati
palestinesi, di conseguenza, non sarebbe direttamente imputabile a Israele.
Ilan Pappé, ricercatore appartenente alla corrente dei New Historians
israeliani, ha studiato a lungo la documentazione (compresi gli archivi
militari desecretati nel 1988) esistente su questo punto cruciale della storia
del suo paese, giungendo a una visione chiara di quanto era accaduto nel ’48
drammaticamente in contrasto con la versione tramandata dalla storiografia
ufficiale: già negli anni Trenta, la leadership del futuro Stato d’Israele (in
particolare sotto la direzione del padre del sionismo, David Ben Gurion) aveva
ideato e programmato in modo sistematico un piano di pulizia etnica della
Palestina. Ciò comporta, secondo l’autore, enormi implicazioni di natura morale
e politica, perché definire pulizia etnica quello che Israele fece nel ’48
significa accusare lo Stato d’Israele di un crimine. E nel linguaggio giuridico
internazionale, la pulizia etnica è un crimine contro l’umanità. Per questo,
secondo Pappé, il processo di pace si potrà avviare solo dopo che gli
israeliani e l’opinione pubblica mondiale avranno ammesso questo “peccato originale”.
* Ilan Pappé (in ebraico אילן פפה,
Ilan Pappe) (Haifa, 7 novembre 1954) è uno storico israeliano.
Intellettuale e studioso
socialista, ebreo e anti-sionista, di formazione comunista, è uno dei
rappresentanti della cosiddetta Nuova storiografia israeliana, che ha come fine
scientifico ed etico quello di sottoporre a un accurato riesame la
documentazione orale, che è prevalsa per decenni, nel tracciare le linee
ricostruttive storiche relative alla nascita dello Stato d'Israele e del
sionismo in Israele; nella "nuova storiografia" Pappé rappresenta la
voce più critica nei confronti della leadership israeliana (da Ben Gurion in
poi) e in favore dei palestinesi.
Nel 1996 Pappé è stato
candidato alla Knesset sulla lista dell'Hadash, emanazione del Partito
Comunista Israeliano, ma in seguito ha lasciato il Paese.
Secondo Ilan Pappé, l'esodo
palestinese può essere paragonato ad un'operazione di «pulizia etnica»,
conseguenza di una politica pianificata da David Ben Gurion e messa in opera
dai suoi consiglieri; sempre secondo Ilan Pappé, questa politica fu applicata
fin dal dicembre del 1947, ben prima quindi della proclamazione dello Stato
d'Israele (1948).
Egli sostiene uno stato
binazionale laico e secolare comprendente sia ebrei che arabi, in posizione di
parità.
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