Lo
splendido libro di Marco Omizzolo “Per motivi di giustizia” (People, 2020, con
prefazione di Franco Ferrarotti, ora anche in formato digitale) dovrebbe
diventare strumento prezioso dei temi della lotta politica del nostro paese e a
livello europeo e internazionale. Andrebbe letto a scuola, ma chi combatte lo
schiavismo contemporaneo (sì, lo schiavismo, è accanto a noi, basta girare lo
sguardo) viene accusato di propaganda politica. Sebbene la propaganda politica
anti immigrati sia la cifra costituente degli apparati mediatici di regime,
alla ricerca del senso comune (deteriore) di massa, di cui scriveva Gramsci.
Questo libro sembra scritto in continuità con quello del nostro amato
Alessandro Leogrande, quel “Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi
nelle campagne del Sud, Milano, Mondadori, 2008 (poi, Milano, Feltrinelli,
2016) che segna un capitolo importante, a nostro avviso, non del giornalismo
d’inchiesta (intendiamo quello vero, dell’inchiesta sociale, non dell’intrigo
politico) ma della sociologia non “da tavolino”, di campo, sul campo. Infatti
il sociologo Omizzolo per scrivere questo libro e suoi altri, va sul campo, si
mischia ai soggetti di studio, declina l’osservazione “partecipante” come
partecipazione attiva osservante perchè redigente l’esperienza diretta, secondo
una metodologia di lavoro da Subaltern studies (Guha, 1982 *). Infatti Marco
Omizzolo – sociologo, docente a contratto di Sociopolitologia delle migrazioni
all’università La Sapienza e presidente di “Tempi Moderni”, si occupa di mafie,
tratta internazionale e caporalato. Ha lavorato come bracciante infiltrato in
diverse aziende agricole dell’Agro Pontino, reclutato da caporali indiani, per
studiare il grave sfruttamento dei migranti in agricoltura. Lo ripeto: non
bisogna solo leggere questo libro (non è il solo, torneremo su altri scritti
del compagno Marco, inteso come nostro compagno di strada, di percorso, tra
l’altro vive sotto protezione per le numerose minacce di morte subite), bisogna
studiarlo e farne strumento di battaglia politica. Contro lo sfruttamento
schiavistico, contro l’imperialismo economico capitalista rapace e banditesco
basato sulla clandestinità di massa, contro l’agrimafia del colonialismo
multinazionale, un tempo si sarebbe detto, forse troppo sinteticamente, contro
il SIM.
* Subaltern Studies: Volume I: Writings on Southern Asian History and Society, Edited by Ranajit Guha. New York, Oxford University Press, 1982. Cfr. anche Ferdinando Dubla (a cura), VEDI ALLA VOCE RANAJIT GUHA - Antologia critica sullo storico indiano fondatore dei Subaltern Studies - in Academia edu, Subaltern studies Italia, 2023 - https://www.academia.edu/112536674/VEDI_ALLA_VOCE_RANAJIT_GUHA_Antologia_critica_sullo_storico_indiano_fondatore_dei_Subaltern_Studies_ -scheda libro
-stralci libro
DEUMANIZZAZIONE DISUMANIZZAZIONE
-Marco
Omizzolo “Per motivi di giustizia” (People, 2020, con prefazione di Franco
Ferrarotti, ora anche in formato digitale)
Scheda
- Un viaggio tra le storie dei braccianti che si ribellano alla schiavitù delle
agromafie e del caporalato, espressione di un'Italia che non si arrende,
nonostante il razzismo, il lavoro forzato, le mafie e i Decreti sicurezza.
Storie come quella di Balbir Singh, che lavora per sei anni in un'azienda
agricola dell'Agro Pontino alle dipendenze di un "padrone" italiano
che lo considera un animale senza diritti. Eppure Balbir si ribella, lo
denuncia e si costituisce parte civile nel relativo processo, nonostante sappia
di aver infastidito la 'ndrangheta. Seguono le vicende di molti altri
braccianti, uomini e donne, migranti e italiani, ribelli per scelta alla
schiavitù dei padroni e dei padrini delle agromafie. Storie di gente come noi,
anzi, meglio.
Stralci da
formato digitale §corrispondenti
È
questa, infatti, la premessa e nel contempo l’aspirazione del capitalismo: la
realizzazione di un’antropologia dei subordinati e subordinabili, per farli
divenire dei felici dannati di questa Terra, dei feticci a cui insegnare il
verbo del padrone.
un
processo di deumanizzazione e disumanizzazione che ha caratteri eccedenti la
sola dimensione economica e giuridica: essere senza diritti significa essere
esclusi dalla cittadinanza sociale, vivere una condizione di marginalità e
povertà endemica ed essere nel contempo espressione prodotta e massimamente
cercata dal mercato del lavoro liberalizzato. È una deformazione che produce il
reietto, l’emarginato, il dannato della Terra, per riprendere Frantz Fanon,
l’uomo socialmente sempre periferico e vulnerabile che è il soggetto prediletto
da reclutare e impiegare nel sistema produttivo, dipendente in forma totale
dagli interessi, ordini, linguaggi e volontà del datore di lavoro divenuto
padrone e, per suo conto, anche dalla politica del padrone espressa dai suoi
affiliati nelle istituzioni democratiche.
Per
quanto contraddittorio, l’uomo esprime, nella sua intimità, una libertà che può
essere compressa ma non per sempre, ridefinita ma non cancellata, umiliata ma
non dimenticata.
i
pomodori, le arance, le fragole, l’uva, il vino, i meloni e molti altri generi
alimentari made in Italy sono destinati ai supermercati di tutto l’Occidente.
Dovendo al contempo massimizzare i profitti dell’agro-business e contenere i
prezzi del cibo per bilanciare la stagnazione dei salari, questo tipo di
agricoltura richiede forza-lavoro iperflessibile e a basso costo, soprattutto
di origine immigrata, su base stagionale e anche più stabile. Questo sistema di
produzione non si sarebbe potuto realizzare senza l’affermazione di un regime
migratorio restrittivo e selettivo, che definirei concentrazionario,
caratterizzato da irregolarità di massa, subordinazione, dipendenza del/la
lavoratore/ice immigrato/a dal datore di lavoro e dai suoi interessi, costante
deportabilità, evidenti anche dai linguaggi padronali usati e dalle norme e
procedure di tendente emarginazione degli immigrati dal complesso dei diritti
vigenti.
il vero scopo delle attuali norme italiane ed europee sull’immigrazione consiste nell’assoggettare la manodopera immigrata alla logica del mercato e, con essa, la quota di popolazione autoctona più fragile, meno rappresentata e sindacalizzata.
Michele
Mancino (1896-1995)
Michele Mancino. Un nome che
a molti dirà poco. Purtroppo. Michele è stato il fondatore del Partito
comunista in Basilicata nel 1922, subito dopo la scissione di Livorno dal
Partito socialista, e protagonista di un lavoro politico finalizzato a
includere i braccianti, donne e uomini, in un percorso di lotta per la
giustizia, la libertà e l’eguaglianza che non ha pari nella storia d’Italia. Era nato a Genzano di Lucania nel 1896. Lo considero, insieme a Giuseppe Di
Vittorio, uno dei grandi padri della democrazia, un coraggioso antifascista e
un uomo al quale questo Paese deve davvero molto. Da bracciante comunista ha
lottato per i diritti degli ultimi, degli scartati da sempre dalla storia e
dalla classe di nobili feudatari che hanno per secoli considerato i lavoratori
e le lavoratrici semplici servi alle loro dipendenze, uomini e donne privi di
futuro, incapaci di leggere e scrivere, buoni solo a lavorare la terra e a fare
figli ai quali lasciare in eredità il loro stesso destino. Eppure Michele
Mancino, Di Vittorio e i loro compagni e compagne, lottando, hanno saputo
cambiare la direzione di quel destino. Hanno infatti combattuto il fascismo, i
padroni, i loro gendarmi e un’intera classe politica composta da schiavisti con
la cravatta e cravattari che si consideravano padroni della patria e della
terra. Da cafone senza speranza, Michele Mancino ha conquistato il diritto a
scrivere una nuova storia, la nostra storia, quella di un’Italia democratica,
repubblicana, fondata sul lavoro e sulla dignità di tutti gli uomini e le
donne, nessuno escluso.
Marco Omizzolo, Per motivi di
giustizia, e.book § corrispondente
https://it.wikipedia.org/wiki/Michele_Mancino
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