Antonio Savasta e il
suo identikit diffuso dalla polizia nei giorni successivi al 15 febbraio 1980
(sparatoria stazione di Cagliari)
Dalla
penna di Pierluigi Vito, la fuga romanzata di Antonio Savasta ed Emilia Libéra,
brigatisti in missione in Sardegna nella giornata del 15 febbraio 1980 (per lo
studio del piano di evasione dall'Asinara di militanti delle BR prigionieri, un
assalto al famigerato carcere di Nuoro, del "Circuito dei camosci",
la costituzione della colonna sarda in relazione con "Barbagia Rossa" e l'occultamento
di armi). La ricostruzione, pur con la licenza dello scrittore, è basata sulla
testimonianza dello stesso Savasta nelle sue deposizioni da pentito dopo la
cattura del gennaio 1982. Sembra la sceneggiatura di un film, ma anche questo
furono realmente i cosiddetti "anni di piombo". Dopo questo episodio,
Antonio Savasta simboleggiò il giovane brigatista irriducibile e imprendibile, avvolto
in un alone quasi di leggenda ed entrò nel comitato esecutivo delle BR_per il
Partito Comunista Combattente. Appena due anni dopo venne anche il momento del
suo pentimento "eccellente" che sgominò praticamente tutta la
struttura dell'organizzazione, costringendo alla cosiddetta "ritirata
strategica". Un irriducibile come "Emilio" che si pente, con
maggiori conseguenze dopo le confessioni di Patrizio Peci, è la fine vera dell'avventura politico-militare delle BR in
Italia.
da Pierlugi Vito, I prigionieri, Augh, 2021
"Eravamo arrivati
in Sardegna per organizzare una rappresaglia al carcere di Badu 'e Carros dove
alcuni dei nostri erano detenuti in condizioni peggio che bestiali: gli
toglievano il cibo, gli negavano il sonno, li massacravano di botte. Ci eravamo
accordati, qualche mese prima, coi compagni di Barbagia rossa, che avevano
ricevuto un grosso carico di armi da trafficanti palestinesi. Arrivammo in nave
da Civitavecchia: allo sbarco la polizia perquisiva e identificava i passeggeri
pescandoli a casaccio. Noi fortunatamente passammo lisci. I compagni sardi che
ci aspettavano all'uscita del terminal ci portarono a un bar per mangiare
qualcosa. E le cose cominciarono ad andare storte. Il barista ci serviva con
una lentezza ingiustificabile e pareva tenerci d'occhio. Finito di mangiare ci
alzammo per pagare ma quel tizio continuava a perdere tempo. Mi incazzai e gli
urlai qualche cosa. Allora lui si sbrigò e potemmo uscire. Una volta fuori, da
una 128 amaranto scesero due uomini: "Polizia, documenti per favore".
Io rimasi tranquillo, la mia carta d'identità era ben falsificata sul calco di
quella di un ingegnere romano. Martina aveva la sua, autentica, non era ancora
ricercata. Gli sbirri ce l'avevano coi tre compagni sardi, se li portarono via
lasciandoci in mezzo alla strada. Allora ci incamminammo verso la stazione
ferroviaria. Martina cominciava ad agitarsi e anch'io non ero tranquillo.
Doveva essere arrivata una soffiata. Non ci volle molto che la 128 si rifacesse
viva. Gli agenti parvero studiarci per un pò, poi ci fermarono di nuovo.
"Dovreste seguirci in Questura per accertamenti. Entrate in
macchina". Salimmo sul sedile posteriore senza fare storie. Una volta a
bordo sussurai a Martina: "Te la senti?". Lei mi fece segno di sì. In
macchina c'era solo il poliziotto al posto di guida, l'altro non era ancora
montato. Tirai fuori la pistola e puntai alla testa dello sbirro al volante: un
tipo in gamba, percepì il pericolo e si abbassò appena in tempo. Il proiettile
centrò il parabrezza. Sparai ancora e dovetti beccarlo perchè urlò. Sgusciammo
via dalla macchina e cominciarono a volare pallottole, le mie, quelle
dell'altro agente e quelle di una volante che era sopraggiunta. Martina venne
colpita di striscio alla testa. Una ferita superficiale, ma il sangue che
colava sulla faccia la rendeva più impressionante del dovuto. Ci buttammo nelle
stradine della città vecchia, aggirandoci come topi in trappola, fino a che
trovammo un palazzo fatiscente in cui rifugiarci. Ci fiondammo dentro e
chiudemmo il portone. Salimmo le scale sentendo i passi dei poliziotti che
correvano per la via. Ci rintanammo in un locale polveroso al secondo piano,
con una finestra per tenere d'occhio la strada. Tamponai la ferita di Martina
con un fazzoletto, ci accucciammo in un angolo e restammo lì ad aspettare che i
nostri cuori tornassero a battere a un ritmo meno forsennato. Fino a che ci
addormentammo sfiniti".
Emilio si versò ancora
da bere e ricominciò.
"La polizia prese a
battere la zona dandoci la caccia. Noi restammo al freddo e senza cibo per tre
giorni. Poi mi avventurai a comprare qualcosa da mangiare, per non morire di
fame e avere energie per combattere. Feci una spesa veloce in un minimarket e
rientrai, studiando il quartiere. Decidemmo di lasciare quel posto fetido per
cercare un'altra sistemazione. Camminavo impugnando la pistola nascosta nel
giaccone. C'erano diversi caseggiati in decadenza, deserti: ne adocchiavamo
uno, forzavamo l'ingresso e ci fermavamo una notte, due al massimo, specie se
c'era un gabinetto utilizzabile, cercando di allontanarci con prudenza dalla
zona dove gli sbirri ci avevano segnalato. Per una settimana ci arrangiammo
nella cabina di uno stabilimento balneare. Finchè decidemmo di telefonare ai
compagni di Barbagia Rossa. Non mi fidavo del tutto dei nostri contatti, dopo
la trappola in cui eravamo finiti, ma non potevamo tirare avanti a lungo in
quello strazio. Andò tutto bene. Ci aiutarono come meglio poterono e alla fine
riuscirono a farci imbarcare per Civitavecchia. Tornammo a Roma un mese dopo la
nostra partenza. Sani e salvi. Fine della storia". Emilo uscì dalla stanza
, senza dare a Lucia il tempo di un fiato. (..) Si fece violenza per non
pensare a Martina, al perchè i loro destini avessero preso binari diversi. Non
divergenti, capaci di allontanarli per sempre, ma paralleli, costringendoli a
procedere affiancati nella stessa direzione, senza più potersi toccare,
abbracciare, stringersi così forte da mischiare i propri respiri e i propri
pensieri."
pp.164-165
L’auto crivellata di
colpi il 15 febbraio 1980 in cui Antonio Savasta ed Emilia Libéra ingaggiarono
conflitto a fuoco con due agenti della polizia, il brigadiere Fausto Goddi e la
guardia Stefano Peralta
ritaglio
l'Unità 8 aprile 1980
ritaglio
l'Unità 15 aprile 1980
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