IL SENSO DI APPARTENENZA e L'ANGOSCIA DELLO SRADICAMENTO SULLA SOGLIA DELL' ‘ALTROVE’
È possibile stabilire un nesso tra il ‘senso di appartenenza’ e il viaggio continuo nel mondo (l’”altrove”)? /Subaltern studies Italia
“Su questo
ciglio, lungo questo confine fra tranquillità e dispersione, si palesa uno
spazio distruttivo, un territorio esotico, una soglia in cui la comprensione
precedente cede il posto a una nuova configurazione.” , Iain Chambers, Sulla
soglia del mondo. L'altrove dell'Occidente. Meltemi, 2003 (1.ed.or. 2001),
pag.204
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Riproponiamo
uno dei passi più celebri de “La fine del mondo“ di Ernesto de Martino, la
confortante ombra del campanile di Marcellinara (CZ) per il vecchio pastore
attaccato alla sua terra.
- Ricordo un tramonto percorrendo in auto una
strada della Calabria. Non eravamo sicuri del nostro itinerario e fu per noi di
grande sollievo incontrare un vecchio pastore. Fermammo l’auto e gli chiedemmo
le notizie che desideravamo, e poiché le sue indicazioni erano tutt’altro che
chiare gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci sino al bivio giusto, a
pochi chilometri di distanza: poi lo avremmo riportato al punto in cui lo
avevamo incontrato. Salì in auto con qualche diffidenza, come se temesse una
insidia, e la sua diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché
ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile
di Marcellinara, punto di riferimento del suo estremamente circoscritto spazio
domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva
completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo sino al bivio giusto e
ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro in fretta,
secondo l’accordo: e sempre stava con la testa fuori del finestrino, scrutando
l’orizzonte, per veder riapparire il campanile di Marcellinara: finché quando
finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò
pacificando, come per la riconquista di una «patria perduta». Giunti al punto
dell’incontro, si precipitò fuori dall’auto senza neppure attendere che fosse
completamente ferma, e scomparendo selvaggiamente senza salutarci, ormai fuori
della tragica avventura che lo aveva strappato allo spazio esistenziale del
campanile di Marcellinara. Anche gli astronauti, da quel che se ne dice,
possono patire di angoscia quando viaggiano negli spazi, quando perdono nel
silenzio cosmico il rapporto con quel «campanile di Marcellinara» che è il
pianeta terra, e il mondo degli uomini: e parlano, parlano senza interruzione
con i terricoli, non soltanto per informarli del loro viaggio, ma per non
perdere «il senso della loro terra».
Ernesto de
Martino, La fine del mondo, ed. Einaudi 2002, pp. 480/81.
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“Il problema centrale del mondo di oggi appare
dunque la fondazione di un nuovo ethos culturale non più adeguato al Campanile
di Marcellinara, ma all’intero pianeta terra” Ernesto de Martino, ivi
/ IL VIAGGIO
NELL’ APPARTENENZA di VITO TETI /
- Prologo. Del restare
“Odio i
viaggi e gli esploratori, ed ecco che mi accingo a raccontare le mie
spedizioni”. L’incipit di Tristi Tropici di Lévi-Strauss è forse la frase più
celebre e più avvincente di tutta la letteratura antropologica, e ricorda come
il viaggio e lo spaesamento rappresentino i tratti costitutivi dell’esperienza
antropologica.
Nulla più
dell’idea del “restare” potrebbe, quindi, apparire estraneo alla storia del
sapere antropologico e dell’etnografia. Restare sembra l’antitesi del
viaggiare, del mettersi in discussione, della disponibilità al disordine, alla
scoperta, all’incontro.
Ma davvero
l’idea e la pratica del restare sono inconciliabili con l’esperienza
antropologica? E, soprattutto, è possibile pensare un viaggiare separatamente
dall’esperienza del restare e davvero il restare va accostato all’immobilità,
alla scelta di non incontrare l’altro e di non fare i conti con la propria
ombra, il proprio doppio, l’alterità? Restare è difendere un appaesamento o
esiste anche una maniera spaesante di restare che, a volte, può risultare più
scioccante del viaggiare? (..)
Sono nato in
una terra in cui partenza e attesa hanno costruito una nuova mentalità, una
nuova identità. L’emigrazione è fatta di dolore della partenza e di dolore
dell’attesa, di speranza, di fallimenti, di successi di chi parte e di
speranze, fallimenti, successi di chi resta. (..)
Anche il
viaggio dell’antropologo è intrinsecamente legato all’esigenza di tornare, di
raccontare, di spiegare ai rimasti e forse, prima di ogni cosa, al se stesso
rimasto. La scrittura e la narrazione antropologica- almeno come bisogno-
nascono ancora prima di andare sul campo.
Vito Teti,
Pietre di pane - Un’antropologia del restare, Quodlibet Studio, 2011, (2^
ed.2014), pp.9-11
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