LA MODERNITÀ MAGICA DI DE MARTINO
Dall’Archivio storico de Il Manifesto - Sandro Portelli, critico e ricercatore della musica popolare, recensisce la nuova edizione de Il mondo magico di Ernesto de Martino. Pubblicato il 18 dicembre 1997. -
UN CLASSICO DELL'ANTROPOLOGIA
"Il mondo magico" di Ernesto de Martino letto sulla scorta di Andy Warhol
Riproposto oggi, il libro d'esordio dell'antropologo napoletano illumina la crisi d'identità non tanto dei popoli primitivi ma di quelli "televisivi"
- ALESSANDRO PORTELLI
E' UNA GRANDE gioia rileggere oggi Il mondo magico di Ernesto de Martino (pp. 280, L. . 50.000), ripubblicato da Bollati Boringhieri a cinquant'anni dalla prima edizione, con un'appendice di testi e recensioni e con la vivacissima, preziosa introduzione di Cesare Cases. E' una gioia perché è al tempo stesso un libro datato - uno di quelli che inaugurano la modernità in Italia nel fatidico 1948 - e un libro nuovissimo per chi lo legga guardandosi intorno, pensando magari a Andy Warhol o a Jacques Derrida, o a Toni Morrison.
Basta pensare a quell'inizio folgorante: gli studiosi, dice, eludono con disinvoltura la questione della "realtà" dei poteri magici, ma è proprio questo presupposto "ovvio" della nostra cultura il vero dilemma, quello di "una pigrizia mentale così stranamente tenace da costituire per se stessa un problema". Avverte dunque de Martino: sospendiamo l'incredulità e l'arroganza, accreditiamo per un momento il punto di vista dei "selvaggi", e scopriremo di colpo che il problema non sono tanto loro quanto anche noi. "Quando ci si pone il problema della realtà dei poteri magici - continua - si è tentati di presupporre per ovvio che cosa si debba intendere per realtà, quasi si trattasse di un concetto tranquillamente posseduto dalla mente". Quello che è in questione, dunque, non è soltanto "l'oggetto del giudizio", il mondo magico osservato, ma anche "la stessa categoria giudicante", il concetto di realtà elaborato dalla cultura osservante. "L'analisi del problema dei poteri magici per entro la storia dell'etnologia - conclude alla fine del libro - ci ha dunque rivelato la perdurante limitazione del nostro orizzonte storiografico e il carattere circoscritto del nostro umanesimo".
Questo è lo stesso de Martino che non aveva paura di usare il termine "etnocentrismo". Qui ci sono già le premesse di quella che sarà molto più tardi l'antropologia "dialogica", cioè un'antropologia che si fonda sulla relazione problematica tra osservatore e osservato, che coglie il momento dell'incontro come modo per ricostruire, o decostruire, le definizioni di entrambi: autoriflessivamente, insomma, il discorso dell'antropologo diventa esso stesso oggetto di riflessione antropologica.
Il riconoscimento di una rilevanza storica al mondo magico si intreccia con la riflessione del de Martino militante politico, che negli stessi anni accoglie non senza riserve ma con partecipata adesione la "irruzione nella storia" dei soggetti coloniali e delle masse subalterne, e che di lì a poco vorrà entrare "come un compagno" nelle case dei contadini meridionali di cui studia il magismo, cittadini del suo paese, per essere insieme "in una stessa storia". Ecco, questa stessa storia comincia qui: dal modo in cui i protagonisti del mondo magico riconoscono e affrontano il senso della precarietà dell'esserci nel mondo e la necessità del suo riscatto, che la nostra cultura dà come avvenuto una volta per tutte (anzi, come mai avvenuto perché prima di esso la storia non c'è).
"Non esiste affatto - scrive - una presenza, un empirico esserci, che sia un dato, una immediatezza originaria al riparo da qualsiasi rischio, e incapace nella sua propria sfera di qualsiasi dramma e di qualsiasi sviluppo: cioè, di una storia". Questo rischio è quello della perdita della presenza, della precarietà dell'esserci nel mondo - e della precarietà del mondo circostante all'essere - che viene sperimentata nel "mondo magico" - il rischio di "perdere l'anima" e quello speculare di "perdere il mondo". E la magia, "segnalatrice del rischio, interviene al tempo stesso ad arrestare il caos insorgente, a riscattarlo in un ordine".
"Solo col Cristianesimo ha inizio propriamente quel vasto e complesso moto storico di graduale scoperta della persona che costituisce tuttora il nostro 'destino' culturale", afferma de Martino. Perciò, nell'occidentale mondo cristiano, della magia non ci sarebbe più bisogno, e la pigrizia e ristrettezza mentale dell'approccio etnologico al mondo magico stanno nell'applicare ad esso un'idea della persona e della presenza che sono fondate su questa storica certezza e vengono invece presupposte come universali.
La storicità delle forme del pensare se stessi è l'intuizione fondamentale di questo libro; ma il tipo di storia in cui sono inquadrate è forse l'aspetto più problematico. Mi sembra che ci sia ancora, in questa fase del pensiero di de Martino, uno schema evolutivo lineare e univoco che verrà complicandosi con l'opera successiva. Da un lato, la dicotomia fra esperienza della precarietà nel "mondo magico" e costruzione dell'"autonomia della persona" nel cristianesimo mi sembra lasciar fuori una quantità di esperienze non cristiane che tuttavia non sono certo riconducibili al mondo magico (non penso neanche tanto alle religioni orientali, quanto all'ebraismo). Dall'altro, la linearità del processo sembra lasciar fuori tutte le esperienze di precarietà e crisi della presenza che nell'occidente cristianizzato hanno continuato a riproporsi - al punto da ripresentarsi in epoca postmoderna come presupposti di liberazione. Della storia del cristianesimo e dell'occidente fanno parte dunque quelle "Indie di quaggiù" che de Martino studierà più tardi nelle ricerche sul tarantismo e sulla iettatura; ma anche la complessa esperienza di un calvinismo nel quale l'incommensurabilità del soggetto umano nei confronti del divino genera sia una fortissima individuazione sul piano mondano (lo "spirito del capitalismo"), sia l'idea di un destino personale irrelato alla propria agenzia sul piano trascendente (la predestinazione).
La certezza della presenza, insomma, non è né univoca né irreversibile. Per questo pensavo ad Andy Warhol leggendo Il mondo magico: quel "quarto d'ora di celebrità" a cui ciascuno dovrebbe avere diritto è la compensazione alla crisi della presenza in un tempo in cui la certezza dell'unità e autonomia della persona e della referenziale materialità del mondo sono andate in frantumi, ed esserci nel mondo significa essere visti. Leggere de Martino adesso, allora, significa anche ricordarci che l'abolizione del centro, la frammentazione dell'io, la semiosi infinita, la decostruzione della presenza possono essere sperimentate non solo come euforica liberazione dalle pastoie del razionalismo, come nella vulgata postmoderna più superficiale, ma anche come terribile angoscia e sofferenza. E che forse la differenza fra una modalità e l'altra sta in un paradigma che de Martino non nomina qui ma che è presente sotto traccia in tutto il libro, e molto chiaro nel complesso della sua opera: i rapporti di potere.
All'inizio di Cerimonia, della scrittrice indiana Pueblo Leslie Silko, il protagonista Tayo, ragazzo indiano mezzo sangue tornato da una traumatica esperienza di guerra in Asia, è fra le mura bianche di una clinica per malattie nervose. Si sente come una nuvola impalpabile, parla di sé in terza persona e solo per dire che non può parlare. Sarà infine una cerimonia indiana a restituirgli il senso della propria esistenza, il suo posto nella kiva accanto agli anziani - ma non la certezza che questo durerà per sempre. Il male, la stregoneria è morta per ora - ma può sempre tornare, tornerà.
La stregoneria, in questo romanzo, è la tecnologia militare dell'occidente cristiano, la bomba atomica. Anche su questo de Martino rifletterà, nell'incompiuto La fine del mondo: la prospettiva delle apocalissi cosmiche non è scomparsa con l'affermarsi della ragione occidentale. Per questo dal "terzo mondo" arriva una proposta letteraria di risistemazione dei rapporti fra mondo magico e realtà a cui è stato dato proprio il nome di realismo magico. Quando si può sparire dalla realtà come i massacrati di Macondo, o come i "sessanta milioni e più" di africani e loro discendenti a cui è dedicato Amatissima di Toni Morrison, allora è necessario seguire il consiglio di de Martino e allargare e rimescolare la definizione e i confini della realtà.
- fonte: https://archiviopubblico.ilmanifesto.it/Articolo/1997023316
Nessun commento:
Posta un commento