Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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mercoledì 1 febbraio 2023

L'INIZIO, ALLA FINE DEL MONDO-Marco Revelli legge Ernesto de Martino

 

Spaesamento e nichilismo. I tratti di un'apocalisse culturale irreversibile divenuti modelli prescrittivi dell'agire sociale

- MARCO REVELLI - pubblicato da Il Manifesto, 20 nov 1999

 

Forse nessuno ha riflettuto, quanto Ernesto de Martino, intorno al concetto di "apocalisse culturale" su quel versante insieme teoretico e pratico che sta all'incrocio tra approccio filosofico-antropologico e approccio politico. Nessuno, dunque, ci è forse così utile come de Martino oggi, quando quello dell'"apocalisse culturale" è diventato un orizzonte consueto della nostra dimensione esistenziale: un tema con cui convivere o, se si preferisce, una dimensione che avvertiamo presente, come rischio (un "non-ancora" da temere), ma anche come presupposto (un "già-stato" che ci condiziona) della nostra "situazione".

Che cos'è - innanzitutto - un'"apocalisse culturale"?

Nella concettualizzazione demartiniana è, come recita appunto il titolo della sua ultima opera postuma, una "fine del mondo". Anzi: la "fine di un mondo"; lo sprofondare di un ordine (culturale, mentale, storico); l'esperienza devastante dello sradicamento radicale e della "perdita della presenza" come smarrimento del senso del "qui ed ora", come incapacità di essere "in situazione", di agire e non di essere agiti in un contesto culturalmente controllabile (dunque "domestico", consueto, storicamente agibile). E' dunque insieme una "catastrofe spaziale" (la perdita, fisica o mentale, di un "luogo" di riconoscimento e di "appaesamento", cui segue appunto uno spaesamento estremo, uno smarrimento tenebroso) e una "catastrofe temporale": la perdita, materiale o esistenziale, di un tempo aperto in cui operare e "trascendere le situazioni" dando un senso alla propria finitudine, ricostruendo "catene di senso" nel rapporto con un passato che continui a parlarci e un futuro che rimanga in qualche modo aperto e decidibile. L'apocalisse culturale è dunque, insieme, crisi ("crollo") della socialità e crisi ("chiusura") della storicità. E' fine dell'"essere con" e fine dell'"essere per". E' "perdere il mondo" (...); o, in alternativa ma anche in combinazione, "perdersi nel mondo": in un mondo che non è più il proprio, che non è più "riconoscibile", in cui nulla è più al proprio posto e il "reale" di ieri si è inabissato e perduto; o in uno spazio che "si è fatto buio" perché tutto ciò che era non è più. Un punto di caduta, dunque, che può essere definito "una vera e propria fine del mondo", ma che può costituire anche l'occasione di un nuovo inizio.

Posta in questi termini l'"apocalisse culturale" è una dimensione consueta dell'umanità, che ne ha accompagnato, nella sua oscillazione tra positività e negatività, i diversi momenti critici, le svolte e le scansioni. Costituisce una parte essenziale dell'elaborazione culturale e, all'interno di questa, dell'esperienza religiosa. E infatti ancora nella prima metà degli anni Sessanta, quando appunto furono stese la maggior parte delle note preparatorie a La fine del mondo, de Martino poteva classificarne almeno quattro diversi tipi, connotati in termini di maggiore o minore "positività", con gradi tra loro assai diversi di "utilità sociale", per così dire, di potenzialità reintegratrice e re-identificante: 1. la tradizione apocalittico-escatologica giudaico-cristiana; 2. le apocalissi escatologiche del terzo mondo; 3. l'apocalisse senza escaton (cioè senza promessa di riscatto) della cultura occidentale in crisi, e 4. le apocalissi psicopatologiche. Tra queste le prime due hanno un esplicito contenuto "salvifico" e reintegrativo.

L' apocalittica giudaico-cristiana implica "strutturalmente" l'idea di una riapertura del tempo e ricostruzione di uno spazio di reintegrazione della presenza e di riscatto dei mali mondani; in quella neo-testamentaria, addirittura, è presente il richiamo a un "già stato" apocalittico, a una caduta estrema (la passione e la morte del Cristo) che ha la funzione di confermare nella certezza del riscatto un "non ancora" certificato sacralmente; la perdita nel passato serve a presidiare un futuro atteso. Così come l'apocalittica escatologica del terzo mondo "lavora" a favore della storicizzazione dell'esistenza, del delicato passaggio dalla "natura" (passività assenza di decisione sul proprio destino) alla "cultura" (protagonismo, liberazione) individuando nella dissoluzione dell'ordine tradizionale la condizione diretta di una reintegrazione in una dimensione umana più compiuta. Non di una "de-umanizzazione" ma di una "ri-umanizzazione" del mondo.

D'altra parte la stessa apocalisse senza escaton dell'occidente, pur riconosciuta nella sua radicalità e nel suo carattere per così dire "definitivo", è tuttavia colta nella sua "storicità" e parzialità, come crisi dunque relativa, propria di una parte del mondo e di una specifica cultura (la cultura "borghese" quale storicamente si è data nella modernità compiuta), non come crisi della cultura tout court e del mondo in quanto tale. Essa appare, certo, nella diagnosi demartiniana, inappellabile e irrisolvibile: congiuntura culturale nella quale il tema della fine si colloca "al di fuori di qualsiasi orizzonte religioso di salvezza, e cioè come nuda e disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell'appaesato, del significante e dell'operabile, secondo un diabolico gusto di descrivere con meticolosa accuratezza il disfarsi del configurato, lo spaesarsi dell'appaesato, il perder senso del significante, l'inoperabilità dell'operabile". Ma ammette pur sempre che la reintegrazione possa essere immaginata in un qualche altrove (in altri segmenti culturali, da parte di altre classi sociali, in altri luoghi di uno spazio non ancora occupato totalitariamente). Resterebbe così solo l'ultimo tipo di apocalisse culturale - quella psicopatologica - a mantenere carattere di crollo integrale e irredimibile. (...)

Questo sembra dunque essere il nucleo forte della diagnostica antropologica di de Martino: il riconoscimento dell'apocalisse senza riscatto - e della deriva nichilistica ad essa connessa - come tratto "morboso" della congiuntura culturale contemporanea. Il suo carattere di "malattia" morale e mortale del tempo, su cui chinarsi per comprendere ma soprattutto per "curare". Com'è possibile che essa si sia trasformata, nel breve raggio di appena un trentennio, da "morbo" (individuale) in "norma" (sociale)? Che essa sia diventata da patologia che era, forma conclamata della salute? Da simbolo della crisi della presenza, simbolo opposto della "mondanità" (dell'essere "gente di mondo")? Perché è questo che accade oggi, in tempo di pensiero debole e di apologia della flessibilità assoluta: l'assunzione dello spaesamento e dello sradicamento, non solo come tratti dominanti dell'esperienza sociale, ma come modelli prescrittivi dell'agire sociale adeguato.

Un primo fattore quantomeno di spiegazione se non di "senso" potrebbe essere la "rivoluzione spaziale" che nell'ultimo trentennio ha rovesciato in forma "passiva" (nel senso gramsciano del termine) il nostro mondo. Quella che con termine ormai abusato e povero chiamiamo "globalizzazione". L'occidentalizzazione del mondo - come più propriamente la definisce Serge Latouche - ha lavorato (come apocalisse culturale essa stessa) sulla struttura delle "apocalissi culturali" in una duplice direzione. Da una parte essa ha "mondializzato" la crisi spirituale dell'Occidente; ha universalizzato l'apocalisse culturale senza escaton, senza promessa di riscatto e redenzione, di una parte del mondo, trasformandola in crisi universale.

Dall'altra parte ha cancellato, per mancanza di uno "spazio culturale autonomo" entro cui rappresentarsi, le diverse apocalissi escatologiche del terzo mondo: quelle apocalissi positive, per così dire, attraverso le quali la dissoluzione di un mondo poteva essere convertita in una più forte e autentica presenza nel mondo.

In quanto estensione su scala planetaria di un sistema culturale locale (l'Occidente, appunto, o meglio la sua sintesi semplificata americana) ha finito per assolutizzare la crisi culturale di quel segmento di umanità, per trasformarla in crisi di ogni mondo (storico) (...); in non trascendibilità dell'esistente; in pietrificazione e immobilità per assenza di un qualunque "altrove" in cui pensarsi diversi. Fattasi mondo, la crisi dell'Occidente ha sanzionato insieme alla propria "fine del mondo" (o all'idea di fine del proprio mondo) la fine di ogni altro mondo possibile ponendo la deriva nichilistica come statuto essenziale dell'intera umanità (...).

Un secondo fattore (ma non è che il risvolto del primo) può essere individuato nella parallela "rivoluzione temporale" che ha accompagnato la rivoluzione spaziale contemporanea risultandone una componente costitutiva: nella vertiginosa accelerazione del tempo sociale da cui è derivata, appunto, l'altrettanto vertiginosa compressione dello spazio sociale di riferimento, la riduzione spasmodica delle distanze (dei tempi di attraversamento dello spazio socialmente significativo). Ora, una delle condizioni fondamentali per sostenere una soluzione escatologica delle apocalissi culturali, per mantenere aperta una possibilità di re-integrazione nelle dinamiche dissolutive, era l'attribuzione di una qualche linearità e processualità della dimensione temporale.

La possibilità di trattare il tempo come un continuum lineare lungo il quale correlare un prima e un dopo, un già stato e un non ancora ritrovando, come si è visto, nel primo una qualche promessa o garanzia del secondo. Assicurandosi un qualche grado di apertura del tempo storico verso un altrove (celeste, prima, ma poi storico) in cui proiettare l'idea della reintegrazione. Solo così il tempo in cui si vive può mantenere, insieme, il carattere della domesticità (dell'"essere a casa", del consueto e del sicuro) e dell'operabilità (dell'essere "in situazione", della decidibilità e della trasformabilità). Condizioni, tutte, che cadono non appena il tempo si fa - come ora - puntiforme e istantaneo. Si riduce per eccesso di velocità e si chiude per mancanza di continuità. Allora esso perde il carattere della domesticità, si fa luogo dell'incertezza e dell'insicurezza, in cui nessuna radice può essere posta e nessuna direzione trovata (dunque nessuna decisione su se stessi men che occasionalistica e infondata può essere presa), terreno in cui ogni appaesamento si sgretola e svanisce per mancanza di sostanza esistenziale. E anche di ogni materia sociale in qualche misura "resistente". (...)

Ma allora se è così (...) è su questo terreno che occorre concentrare la terapia (individuale ma soprattutto pubblica, collettiva). E' sul terreno di una nuova antropologia reintegrativa del legame sociale - più che su quello di una politica sempre più implicata nella crisi di decidibilità strategica e nel delirio da spaesamento - che può essere trovato il bandolo della matassa che possa, ancora una volta, piegare la deriva della crisi verso una qualche direzione di riscatto e reintegrazione.

#SubalternStudiesItalia in collaborazione con #ArchivioStoricoIlManifesto




Marco Revelli







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