Spaesamento e nichilismo. I tratti di un'apocalisse culturale irreversibile divenuti modelli prescrittivi dell'agire sociale
- MARCO
REVELLI - pubblicato da Il Manifesto, 20 nov 1999
Forse nessuno ha
riflettuto, quanto Ernesto de Martino, intorno al concetto di "apocalisse
culturale" su quel versante insieme teoretico e pratico che sta
all'incrocio tra approccio filosofico-antropologico e approccio politico.
Nessuno, dunque, ci è forse così utile come de Martino oggi, quando quello
dell'"apocalisse culturale" è diventato un orizzonte consueto della
nostra dimensione esistenziale: un tema con cui convivere o, se si preferisce,
una dimensione che avvertiamo presente, come rischio (un "non-ancora"
da temere), ma anche come presupposto (un "già-stato" che ci condiziona)
della nostra "situazione".
Che cos'è -
innanzitutto - un'"apocalisse culturale"?
Nella
concettualizzazione demartiniana è, come recita appunto il titolo della sua
ultima opera postuma, una "fine del mondo". Anzi: la "fine di un
mondo"; lo sprofondare di un ordine (culturale, mentale, storico);
l'esperienza devastante dello sradicamento radicale e della "perdita della
presenza" come smarrimento del senso del "qui ed ora", come
incapacità di essere "in situazione", di agire e non di essere agiti
in un contesto culturalmente controllabile (dunque "domestico",
consueto, storicamente agibile). E' dunque insieme una "catastrofe
spaziale" (la perdita, fisica o mentale, di un "luogo" di
riconoscimento e di "appaesamento", cui segue appunto uno spaesamento
estremo, uno smarrimento tenebroso) e una "catastrofe temporale": la
perdita, materiale o esistenziale, di un tempo aperto in cui operare e
"trascendere le situazioni" dando un senso alla propria finitudine,
ricostruendo "catene di senso" nel rapporto con un passato che
continui a parlarci e un futuro che rimanga in qualche modo aperto e
decidibile. L'apocalisse culturale è dunque, insieme, crisi
("crollo") della socialità e crisi ("chiusura") della
storicità. E' fine dell'"essere con" e fine dell'"essere per".
E' "perdere il mondo" (...); o, in alternativa ma anche in
combinazione, "perdersi nel mondo": in un mondo che non è più il
proprio, che non è più "riconoscibile", in cui nulla è più al proprio
posto e il "reale" di ieri si è inabissato e perduto; o in uno spazio
che "si è fatto buio" perché tutto ciò che era non è più. Un punto di
caduta, dunque, che può essere definito "una vera e propria fine del
mondo", ma che può costituire anche l'occasione di un nuovo inizio.
Posta in questi termini
l'"apocalisse culturale" è una dimensione consueta dell'umanità, che
ne ha accompagnato, nella sua oscillazione tra positività e negatività, i
diversi momenti critici, le svolte e le scansioni. Costituisce una parte
essenziale dell'elaborazione culturale e, all'interno di questa,
dell'esperienza religiosa. E infatti ancora nella prima metà degli anni
Sessanta, quando appunto furono stese la maggior parte delle note preparatorie
a La fine del mondo, de Martino poteva classificarne almeno quattro diversi
tipi, connotati in termini di maggiore o minore "positività", con
gradi tra loro assai diversi di "utilità sociale", per così dire, di
potenzialità reintegratrice e re-identificante: 1. la tradizione
apocalittico-escatologica giudaico-cristiana; 2. le apocalissi escatologiche
del terzo mondo; 3. l'apocalisse senza escaton (cioè senza promessa di
riscatto) della cultura occidentale in crisi, e 4. le apocalissi
psicopatologiche. Tra queste le prime due hanno un esplicito contenuto
"salvifico" e reintegrativo.
L' apocalittica
giudaico-cristiana implica "strutturalmente" l'idea di una riapertura
del tempo e ricostruzione di uno spazio di reintegrazione della presenza e di
riscatto dei mali mondani; in quella neo-testamentaria, addirittura, è presente
il richiamo a un "già stato" apocalittico, a una caduta estrema (la
passione e la morte del Cristo) che ha la funzione di confermare nella certezza
del riscatto un "non ancora" certificato sacralmente; la perdita nel
passato serve a presidiare un futuro atteso. Così come l'apocalittica
escatologica del terzo mondo "lavora" a favore della storicizzazione
dell'esistenza, del delicato passaggio dalla "natura" (passività
assenza di decisione sul proprio destino) alla "cultura" (protagonismo,
liberazione) individuando nella dissoluzione dell'ordine tradizionale la
condizione diretta di una reintegrazione in una dimensione umana più compiuta.
Non di una "de-umanizzazione" ma di una "ri-umanizzazione"
del mondo.
D'altra parte la stessa
apocalisse senza escaton dell'occidente, pur riconosciuta nella sua radicalità
e nel suo carattere per così dire "definitivo", è tuttavia colta
nella sua "storicità" e parzialità, come crisi dunque relativa,
propria di una parte del mondo e di una specifica cultura (la cultura
"borghese" quale storicamente si è data nella modernità compiuta),
non come crisi della cultura tout court e del mondo in quanto tale. Essa
appare, certo, nella diagnosi demartiniana, inappellabile e irrisolvibile:
congiuntura culturale nella quale il tema della fine si colloca "al di
fuori di qualsiasi orizzonte religioso di salvezza, e cioè come nuda e
disperata catastrofe del mondano, del domestico, dell'appaesato, del
significante e dell'operabile, secondo un diabolico gusto di descrivere con
meticolosa accuratezza il disfarsi del configurato, lo spaesarsi
dell'appaesato, il perder senso del significante, l'inoperabilità
dell'operabile". Ma ammette pur sempre che la reintegrazione possa essere
immaginata in un qualche altrove (in altri segmenti culturali, da parte di altre
classi sociali, in altri luoghi di uno spazio non ancora occupato
totalitariamente). Resterebbe così solo l'ultimo tipo di apocalisse culturale -
quella psicopatologica - a mantenere carattere di crollo integrale e
irredimibile. (...)
Questo sembra dunque
essere il nucleo forte della diagnostica antropologica di de Martino: il
riconoscimento dell'apocalisse senza riscatto - e della deriva nichilistica ad
essa connessa - come tratto "morboso" della congiuntura culturale
contemporanea. Il suo carattere di "malattia" morale e mortale del
tempo, su cui chinarsi per comprendere ma soprattutto per "curare".
Com'è possibile che essa si sia trasformata, nel breve raggio di appena un
trentennio, da "morbo" (individuale) in "norma" (sociale)?
Che essa sia diventata da patologia che era, forma conclamata della salute? Da
simbolo della crisi della presenza, simbolo opposto della "mondanità"
(dell'essere "gente di mondo")? Perché è questo che accade oggi, in
tempo di pensiero debole e di apologia della flessibilità assoluta:
l'assunzione dello spaesamento e dello sradicamento, non solo come tratti
dominanti dell'esperienza sociale, ma come modelli prescrittivi dell'agire
sociale adeguato.
Un primo fattore
quantomeno di spiegazione se non di "senso" potrebbe essere la
"rivoluzione spaziale" che nell'ultimo trentennio ha rovesciato in
forma "passiva" (nel senso gramsciano del termine) il nostro mondo.
Quella che con termine ormai abusato e povero chiamiamo
"globalizzazione". L'occidentalizzazione del mondo - come più propriamente
la definisce Serge Latouche - ha lavorato (come apocalisse culturale essa
stessa) sulla struttura delle "apocalissi culturali" in una duplice
direzione. Da una parte essa ha "mondializzato" la crisi spirituale
dell'Occidente; ha universalizzato l'apocalisse culturale senza escaton, senza
promessa di riscatto e redenzione, di una parte del mondo, trasformandola in
crisi universale.
Dall'altra parte ha
cancellato, per mancanza di uno "spazio culturale autonomo" entro cui
rappresentarsi, le diverse apocalissi escatologiche del terzo mondo: quelle
apocalissi positive, per così dire, attraverso le quali la dissoluzione di un
mondo poteva essere convertita in una più forte e autentica presenza nel mondo.
In quanto estensione su
scala planetaria di un sistema culturale locale (l'Occidente, appunto, o meglio
la sua sintesi semplificata americana) ha finito per assolutizzare la crisi
culturale di quel segmento di umanità, per trasformarla in crisi di ogni mondo
(storico) (...); in non trascendibilità dell'esistente; in pietrificazione e
immobilità per assenza di un qualunque "altrove" in cui pensarsi
diversi. Fattasi mondo, la crisi dell'Occidente ha sanzionato insieme alla
propria "fine del mondo" (o all'idea di fine del proprio mondo) la
fine di ogni altro mondo possibile ponendo la deriva nichilistica come statuto
essenziale dell'intera umanità (...).
Un secondo fattore (ma
non è che il risvolto del primo) può essere individuato nella parallela
"rivoluzione temporale" che ha accompagnato la rivoluzione spaziale
contemporanea risultandone una componente costitutiva: nella vertiginosa
accelerazione del tempo sociale da cui è derivata, appunto, l'altrettanto
vertiginosa compressione dello spazio sociale di riferimento, la riduzione
spasmodica delle distanze (dei tempi di attraversamento dello spazio
socialmente significativo). Ora, una delle condizioni fondamentali per
sostenere una soluzione escatologica delle apocalissi culturali, per mantenere
aperta una possibilità di re-integrazione nelle dinamiche dissolutive, era
l'attribuzione di una qualche linearità e processualità della dimensione
temporale.
La possibilità di
trattare il tempo come un continuum lineare lungo il quale correlare un prima e
un dopo, un già stato e un non ancora ritrovando, come si è visto, nel primo
una qualche promessa o garanzia del secondo. Assicurandosi un qualche grado di
apertura del tempo storico verso un altrove (celeste, prima, ma poi storico) in
cui proiettare l'idea della reintegrazione. Solo così il tempo in cui si vive
può mantenere, insieme, il carattere della domesticità (dell'"essere a
casa", del consueto e del sicuro) e dell'operabilità (dell'essere "in
situazione", della decidibilità e della trasformabilità). Condizioni,
tutte, che cadono non appena il tempo si fa - come ora - puntiforme e
istantaneo. Si riduce per eccesso di velocità e si chiude per mancanza di
continuità. Allora esso perde il carattere della domesticità, si fa luogo
dell'incertezza e dell'insicurezza, in cui nessuna radice può essere posta e nessuna
direzione trovata (dunque nessuna decisione su se stessi men che
occasionalistica e infondata può essere presa), terreno in cui ogni
appaesamento si sgretola e svanisce per mancanza di sostanza esistenziale. E
anche di ogni materia sociale in qualche misura "resistente". (...)
Ma allora se è così
(...) è su questo terreno che occorre concentrare la terapia (individuale ma
soprattutto pubblica, collettiva). E' sul terreno di una nuova antropologia
reintegrativa del legame sociale - più che su quello di una politica sempre più
implicata nella crisi di decidibilità strategica e nel delirio da spaesamento -
che può essere trovato il bandolo della matassa che possa, ancora una volta,
piegare la deriva della crisi verso una qualche direzione di riscatto e reintegrazione.
#SubalternStudiesItalia
in collaborazione con #ArchivioStoricoIlManifesto
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