Barbara
Balzerani, Lettera a mio padre,
Derive e Approdi, 2020 - con prefazione di Vincenzo Morvillo /
IN NOMINE PATRIS
Ai livelli apicali dell’organizzazione
BR degli anni 70 e 80 del Novecento italiano, oggi la Balzerani non scrive solo
memorie o memorie traslitterate, ma si cimenta con la scrittura per
l’interpretazione della realtà sociale e la sua trasformazione strutturale e
perciò rivoluzionaria. Il suo ultimo lavoro tratta del lavoro. Schiavistico di
oggi, nel neoliberismo dell’arcano della forma di merce in cui il rapporto
umano è mediato-tediato dal denaro e rende gli esseri umani alienati. Per far
questo, interloquisce con la figura trasfigurata nel ricordo del padre, il suo.
Ma interloquisce anche con il suo padre ideologico -Karl Marx- e lo fa
attraverso le Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, un padre che
però, appunto, non amava l’ortodossìa, ma l’azione politica che aggiornava la
teoria perchè irrompeva nella storia.
Tra i limiti di una passata appartenenza
ortodossa anche quello di non aver compreso che la teoria critica marxista non
può avere ortodossia, pena lo scollegamento con la realtà sociale che si dice
di voler trasformare in senso rivoluzionario. È quanto può leggersi implicitamente
in filigrana in questo ultimo libro della Balzerani. / fe.d.
/scheda/
"Lettera
a mio padre" parla di lavoro, così cambiato dall’epoca delle mitiche tute
blu, di quel lavoro operaio e delle mani che oggi sembra scomparso. Con la
progressiva diminuzione del lavoro artigiano ciò che è andato perduto è,
infatti, un immenso patrimonio di conoscenze e di pratiche, di gesti e di
attività via via incorporati nelle macchine. Il racconto di Barbara Balzerani –
autrice conosciuta, certo, per le vicende legate alla sua militanza politica,
ma amata anche per la sua poetica capace di tradurre in forma letteraria temi
complessi – è un dialogo immaginario tra una figlia e un padre, alla ricerca di
una via di uscita dal nichilismo dell’astrazione delle merci che sovrasta le
relazioni sociali contemporanee. Una rilettura dei cambiamenti che il capitalismo
ha indotto nel mondo del lavoro e, in contraltare, di quelle forze vive che
continuano a contrapporsi.
Una scelta che il padre non ha mai potuto comprendere
- Barbara,
come Benjamin, ci dice di spezzare la linearità fisica del Tempo. Di sparare
agli orologi. Di interrompere l’accumulo progressivo di futuro tramutatosi in
accumulo sviluppista di produzione al presente. Altro che sviluppo delle forze
produttive! Siamo ormai giunti nel regno dell’ombra di Mordor. Dominato da un
bifronte Sauron-Rolex, Signore degli orologi. Il cui volto vorace assomiglia a
quello di un Amministratore Delegato. Una Mordor neoliberista, dove
macchine/orchi di odierni Talo hanno divorato la creatività umana del lavoro,
trasformando gli stessi individui in alienati profili avatar, deprivati di
spazio vitale. Macerie di corpi su macerie di corpi, nel segno dell’ideologia
tempestosa del progresso. Solo nuovi angeli o nuovi barbari rivoluzionari
potranno redimere il passato e riscattare le generazioni oppresse della Storia,
è Marx stesso a dircelo, dopotutto. E ancora, Tesi 11: (+) Il programma di
Gotha reca già tracce di questa confusione. Esso definisce il lavoro come «la
fonte di ogni ricchezza e di ogni cultura». Allarmato, Marx ribatte «che l’uomo
non possiede altra proprietà» che la sua forza-lavoro, «non può non essere lo
schiavo degli altri uomini che si sono resi... proprietari». Ciononostante la
confusione continua a diffondersi, e poco dopo Josef Dietzgen proclama: «Il
lavoro è il messia del tempo nuovo. Nel... miglioramento... del lavoro...
consiste la ricchezza, che potrà fare ciò che nessun redentore ha compiuto».
Questo concetto della natura del lavoro, proprio del marxismo volgare, non si
ferma troppo sulla questione dell’effetto che il prodotto del lavoro ha sui
lavoratori finché essi non possono disporne. Esso non vuol vedere che i
progressi del dominio della natura, e non i regressi della società; e mostra
già i tratti tecnocratici che appariranno più tardi nel Fascismo. Fra cui c’è
anche un concetto di natura che si allontana funestamente da quello delle
utopie socialiste anteriori al ’48. Il lavoro, come è ormai concepito, si
risolve nello sfruttamento della natura, che viene opposto – con ingenuo
compiacimento – a quello del proletariato. A suo padre, che dei padroni e della
fabbrica ha voluto fare a meno per tutta la vita, credendosi e sentendosi
libero del suo tempo, Barbara rimprovera l’ingenua illusione di una fede nel
progresso e nel lavoro che, malgrado tutto, avrebbe dovuto riscattare una
povertà dignitosa ma fredda. Vincenzo Morvillo / fine
estratto
(+) Walter
Benjamin, le cui Tesi di Filosofia della
Storia intridono tutto il libro di Barbara.
Stralci dal libro
Marx
dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le
cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al
freno d’emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno. Walter
Benjamin
In
linea di principio un facchino differisce da un filosofo meno che un mastino da
un levriero. È la divisione del lavoro che ha creato un abisso tra
l’uno e l’altro. Karl Marx
Faglie
potenti si sono aperte tra avanzate e ritirate. Dal Rojava al Chiapas, dal
confederalismo democratico allo zapatismo, lingue e tradizioni diverse si sono
mescolate e rafforzate su un’idea di società basata sull’autogoverno. L’eco
delle rivendicazioni risuonano tra i continenti, arricchendosi di esperienze
diverse, rimbalzando dagli indios e dalle città del sud America ai valligiani
di Susa, ai combattenti curdi del partito dei lavoratori. Alla resistenza di
baschi e catalani di cui si può leggere la storia seguendone le tracce nei
luoghi della memoria delle città, ascoltandone nella lingua d’origine il filo
dei racconti che tengono viva una lunga tradizione antifascista, di lotta per
la giustizia sociale, per la libertà dei prigionieri politici.
Chi
sono? Sono quelli che non si arrendono perché debbono raccontare la storia dei
vinti, mai sconfitti. Sono l’insurrezione che ritorna dalle profondità della
terra, dalla periferia della modernità.
Che
ne dici? Anch’io ho creduto che questi automi ci avrebbero liberato dalla
fatica come se le tecnologie fossero neutrali e buone di per sè. C’è voluto il
deragliamento delle locomotive rivoluzionarie del ‘900 per ricominciare a
ripensare altri modi di vita collettiva, soprattutto grazie al protagonismo
delle periferie dei tanti sud. Quelle che più hanno pagato i costi di un
progresso che ha viaggiato alla velocità necessaria a infettare il mondo con la
pandemia del «lavora, consuma, crepa».
La
divisione del lavoro è stata necessaria per rendere più redditizia la
produzione, assicurandosi lavoratori manuali impossibilitati di governarne il
processo, costretti alla ripetitività di un’unica mansione. È uno strumento di
potere e la tecnica c’entra poco e niente. Questo tu lo sai bene ma hai
preferito pensare di non essere stato sotto il suo dominio. Hai preferito pensarti
libero raccontando di esserti sottratto alla sua maledizione, solo perché non
hai mai creduto fosse possibile combatterla e uscirne vivo. Altri hanno osato,
hanno vinto, hanno perso ma sempre secondo il principio rivoluzionario che
l’abolizione della divisione del lavoro sia un cacciavite tra i più efficaci
per sabotare il comando e lo sfruttamento.
È
la storia della lotta di classe quando si esauriscono le possibili mediazioni e
si intravede una strada di ritorno a un riscatto di dignità. Narrata senza
risparmio di paradossi nella descrizione di personaggi, che sono sempre altro
perché è il padrone a decidere anche del sesso di chi è costretto a cercarsi un
lavoro e di impatto con lo strozzinaggio sulla loro miseria esercitato da
banche e finanza.
#BarbaraBalzerani #letteramiopadre
a cura di #SubalternStudiesItalia
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