LA CAREZZA DI SAVASTA
Il pentimento di Antonio
Savasta e della sua compagna, Emilia Libéra, due dei leggendari ragazzi di
Centocelle, era stato un colpo definitivo per le Brigate Rosse.
Sostanzialmente, aveva liquidato l’organizzazione. Anche dal punto di vista
strettamente umano fu molto difficile accettare che Antonio avesse tradito.
Savasta era giudicato un compagno esemplare, zelante e attivo, ma anche allegro
e leale. Era amatissimo. Venne torturato scientificamente, è accertato: i
poliziotti che inflissero questo trattamento ai rapitori di Dozier, di cui lui
era il capo, sono stati processati e condannati per questo. La pena, però, fu
sospesa, il capo della squadretta dei torturatori, Rino Genova, venne poi
eletto deputato nelle fila del Psdi.
da Anna Laura Braghetti- Paola
Tavella, Il prigioniero, Feltrinelli,
2003, pag.101.
Commenterà Moretti: <Ho
visto gli avvenimenti di quel periodo come l’impossibilità di smettere, di
trovare una via d’uscita. Prendete uno come Savasta, che ha ammesso ancora più
di Peci e fatto molti più danni. Noi su Savasta mettevamo la mano sul fuoco,
era uno che ci credeva, di quelli che sarebbero andati fino alla morte. Non so
che cosa sia scattato in lui. Le torture sono state determinanti…. ma c’è
altro: il fallimento dell’azione Dozier segnava il tracollo della ipotesi
politica del Pcc>, cfr. https://raccontidilibri.it/lottarmata-50/
La personalità di Antonio
Savasta, nome di battaglia nelle BR- per la costruzione del PCC (Partito
Comunista Combattente, la vecchia guardia rimasta intorno a Mario Moretti
mentre si consumava nel dicembre 1981 la scissione del Partito Guerriglia del
criminologo Giovanni Senzani) “Emilio” o
“Diego”, è intrecciata ad eventi politici drammatici per la parabola
discendente delle organizzazioni della lotta armata in nome del comunismo in
Italia: lo scollamento totale con i movimenti di massa, che fece avvolgere in
una spirale perversa e devastante anche il dibattito interno; le torture e i
tormenti ai militanti politici catturati, che però portarono a un criminale
regolamento di conti contro coloro che, secondo i più esaltati fra i coatti
imprigionati e, in particolare, dell’”ala” di piombo, essa sì terribilmente
fanatica e mortifera
(si pensi alla vicenda macabra
di Ennio Di Rocco, ucciso il 27 luglio 1982 nel supercarcere di Trani, da sei
detenuti, armati di punteruoli, cfr. https://raccontidilibri.it/lottarmata-51/
- stralcio in nota 1)
di Senzani, avevano ‘ceduto’;
il disfacimento finale proprio con le rivelazioni di Savasta e Libéra, ben più
risolutive del pentitismo precedente (Patrizio Peci in particolare) o della dissociazione di Valerio Morucci ed
Adriana Faranda dopo il loro arresto il 30 maggio 1979.
Nota 1) “L’uccisione del
compagno Di Rocco, che voleva costruire un mondo migliore e che è finito con
l’ammazzare come un cane un altro compagno, per poi essere massacrato lui
stesso dai suoi compagni, non produce alcun “respiro strategico”, e invece
fallisce miseramente i suoi obiettivi. I pentiti e i dissociati diverranno
sempre più numerosi e l’omicidio susciterà sconcerto e critiche all’interno
delle stesse Br.
Qualche tempo dopo le Br-Pcc,
accusate di essere un puntello del pentitismo, rispondono con un loro
comunicato, nel quale definiscono gli omicidi dei pentiti “fatti sciagurati“,
parlano di “clima mafioso, di intimidazioni e di minacce, di processi sommari e
faide interne“. E ancora: “definire il cedimento di un torturato mancanza
di coscienza di classe e la tortura come un alibi, è un errore madornale>.
In risposta all’accusa di aver scelto la resa, scrivono che i brigatisti del
PG: “accecati da un infantile estremismo trionfalista… cercano un nemico interno
come panacea per il tracollo di una linea politica“.
Stefano Petrella, che assieme a
Di Rocco uccise Peci e assieme a lui fu arrestato e torturato dirà, ma solo 12
anni dopo: <Ennio è stato ucciso dal fanatismo, dalla miseria umana e dalla
presunzione personale di qualche dirigente e dall’ignoranza e la vigliaccheria
di molti compagni… si è trattato di uno dei gesti più abietti e scellerati
della nostra storia>.”
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Un personaggio storicamente
molto importante, dunque, al momento del suo arresto a Padova il 28 gennaio 1982 aveva 26
anni, nel comitato esecutivo delle BR-PCC
con Mario Moretti e Barbara Balzerani era tra i capi indiscussi
dell'organizzazione, ma il parziale racconto della sua militanza è stato
raccolto solo da Nicola Rao e naturalmente può evincersi dalle sue deposizioni
ai processi. In realtà Savasta rappresenta insieme il sogno infranto di un
avventurismo politico pericoloso ed omicidiario che negli anni ‘70 attraversò
molte centinaia di militanti della sinistra antagonista e una presa di coscienza
post-factum del velleitarismo
strategico e ideologicamente ‘fossile’ dell’interpretazione di una possibile
‘guerra di movimento’ nel cuore dell’Occidente capitalista e nella catena
imperialista. Paradossalmente, Savasta (e la colonna veneta del PCC di cui era
stato delegato alla guida) è quello che riuscì a colpire, pur in una parabola
degradante della sua e delle altre organizzazioni di lotta armata in nome del
comunismo, uno dei rappresentanti della catena del ‘cuore dell’imperialismo’
NATO, il generale Dozier. Dopo il rapimento e la sciagurata scelta di
assassinare Aldo Moro per colpire il ‘cuore dello Stato’, era un tentativo
proprio di riavvicinare i movimenti di massa, per la pace e antimperialisti,
antagonisti, al progetto avventurista militarista, tentativo destinato a
naufragare nella potenza dispiegata della repressione e della ‘controrivoluzione
preventiva’ che un pugno di visionari si era messo in testa di poter battere militarmente. Savasta se ne era reso conto anche prima delle torture a cui fu sottoposto, ma
incapace di uscire da solo dalla spirale autoreferenziale, se non quando fu
‘ostaggio del nemico’: riempirà centinaia di pagine di verbali, con effetti
peggiori di quelli di Peci, provocando oltre cento arresti. Nel marzo del 1982
le BR comunicheranno la "ritirata strategica" ("A tutto il
movimento rivoluzionario", Roma, 13-3-1982, in: Controinformazione 23, Milano, 1982) ribadita nel dicembre da un
opuscolo (Opuscolo nr.18, "Difesa della politica rivoluzionaria e ritirata
strategica", Roma, dicembre 1982).
- Come Giuda, che adempie ad un
crudele ma necessario ‘disegno divino’ per permettere al Cristo di salvare
l’umanità, il suo lato umano è nella carezza che sa dare alla storia politica
di quel movimento che si presumeva rivoluzionario ma destinato in partenza ad
una sconfitta senza ritorno, trascinando con sè purtroppo, per il riflusso dei
movimenti di massa, anche l’intera sinistra di classe e antagonista che
non ne aveva condiviso le scelte. In quanto al PCI, che pure si era distinto
nella "lotta al terrorismo" come maggior 'partito della fermezza'
contro ogni trattativa nel sequestro Moro e nessun riconoscimento politico alle
BR, non potè sfuggire agli attacchi reazionari
sull'"album di famiglia" e fu in grande difficoltà difensiva per le
scorie del 'compromesso storico'; oltre che dall'esterno, fu colpito
dall'interno, colpito al cuore dei suoi ideali e valori fondanti, e, dopo il
crollo del muro berlinese, si consegnerà, con la sua autoliquidazione,
all’avversario.
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La liberazione del generale Dozier (28 gennaio 1982) e le confessioni di
Emilia Libéra e soprattutto di Antonio Savasta, diedero il colpo di grazia a
quanto restava dell'organizzazione BR, ormai priva di una guida centralizzata.
“Lo lasciarono seduto sulla sedia, legato e incappucciato. Quella notte
alcuni agenti della Celere, incaricati di custodire i brigatisti, si
scatenarono. Calci, minacce, pugni,
sputi a Emilio, a Fabrizio e a Giorgio. Minacce di stupro, simulazioni di
violenza alle due brigatiste. Una notte d’inferno. La mattina dopo, quando
tornarono quelli dell’Ucigos, i prigionieri gli raccontarono delle violenze e
delle minacce. Gli dissero che gli aguzzini si definivano i «vendicatori della
notte» e che avevano avuto la mano davvero pesante. Genova si incazzò di brutto
e pretese subito che i brigatisti fossero liberati dalle bende, spostati dalle
sedie e sistemati su delle brandine da campo. Ma poi gli interrogatori
ricominciarono. Quello su cui si concentrarono era ovviamente Emilio. «Allora,
pezzo di merda, dove cazzo sta quella troia della Balzerani? Ce lo dici o no?»
lo incalzavano. Poi toccò a Genova, che provò a farlo ragionare. «Scusa
Savasta», gli disse, «se siamo arrivati a voi, evidentemente qualcuno dei tuoi
compagni vi ha tradito. E allora vuol dire che la vostra organizzazione non è
così granitica e coesa come volete farci credere. Che senso ha continuare a
difenderla?» Emilio psicologicamente era finito. Aveva cominciato a svuotarsi
dopo aver assassinato Taliercio. E ogni giorno che passava, il suo vuoto interiore
aumentava. L’assalto a via Pindemonte, la loro cattura e la liberazione
dell’ostaggio erano stati il colpo di grazia. Certo, ora c’erano le minacce e
le botte, ma lui neanche le avvertiva. Era chiuso dentro se stesso. Con la
testa ormai lontana anni luce da tutto questo. Era stanco, sfinito, esausto, e
non vedeva l’ora di liberarsi, di chiuderla una volta per tutte con la lotta
armata, la clandestinità, le Brigate Rosse, i pedinamenti, i sequestri, le
uccisioni.”, da Nicola Rao, Colpo al
cuore. Dai pentiti ai «metodi speciali»: come lo Stato uccise le BR. La storia
mai raccontata., Sperling e Kupfer, 2011, cit. da formato e.book,
§corrispondente
nella foto (da Prima Verona, in rete, 2016) Antonio Savasta si inginocchia
per accarezzare una compagna di militanza prigioniera, Emanuela Frascella, tra le sbarre nel processo per il sequestro
Dozier, prima udienza 8 marzo 1982. Accanto anche Emilia Libéra, sua ex compagna di vita. Gli altri imputati erano Giovanni Ciucci, Armando Lanza, Roberto Zanca, Ruggero Volinia, più altri otto latitanti, tra cui Pietro Vanzi, Marcello Capuano e Remo Pancelli. In un’altra gabbia gli “irriducibili” Cesare di Lenardo e Alberta Biliato.
LA CAREZZA DI SAVASTA
Lì tra le sbarre di grida antiche
fermo sta ad aspettare
il tempo
ti vedo complice di un
assetto nuovo
la vedo dolce la
dolorosa scelta e poso lo sguardo
dove gli altri non vede.
Ma ciò che non si vede è.
La mia carezza ti
avvolge languida prostrata al tuo sorriso.
Vengo da te, ma il tempo
è andato via, il tempo non ci aspetta.
(fe.d.)
Emanuela Frascella e Antonio Savasta - processo Dozier
(8-25 marzo 1982)
Non mi ritenevo né un traditore né
un infame. Ma solo un militante rivoluzionario che aveva preso atto della
propria sconfitta e che voleva evitare nuovi morti e nuove tragedie.
/ smarrimento, paura, confusione,
solitudine. Un dolore indescrivibile. Mi sentivo sottoterra. L’ultima ruota del
carro dell’umanità. E forse lo ero. Prima avevo assassinato delle persone e poi
avevo tradito i miei compagni. Assassino e infame./
L’unica cosa di cui ero certo era
che la mia militanza nelle Br era finita. Per sempre.
Antonio Savasta, da Nicola Rao, cit.
su questo stesso blog
PROLETARI “CON” RIVOLUZIONE - ‘ali’ di
piombo in occidente
http://ferdinandodubla.blogspot.com/2023/02/proletari-con-rivoluzione.html
IL CIELO
IN UNA GABBIA: il volo della Faranda
http://ferdinandodubla.blogspot.com/2023/05/il-cielo-in-una-gabbia-il-volo-della.html
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