La politica estera di Joe Biden
L'arte della guerra. Le linee portanti del programma di politica estera
che la nuova amministrazione Usa si impegna ad attuare sono espressione
di un partito trasversale
di
Manlio Dinucci Quali sono le
linee programmatiche di politica estera che Joe Biden attuerà quando si
sarà insediato alla Casa Bianca? Lo ha preannunciato con un dettagliato
articolo sulla rivista Foreign Affairs (marzo/aprile 2020), che ha
costituito la base della Piattaforma 2020 approvata in agosto dal
Partito Democratico. Il titolo è già eloquente: «Perché l’America deve
guidare di nuovo / Salvataggio della politica estera degli Stati uniti
dopo Trump». Biden sintetizza così il suo programma di politica estera:
mentre «il presidente Trump ha sminuito, indebolito e abbandonato
alleati e partner, e abdicato alla leadership americana, come presidente
farò immediatamente passi per rinnovare le alleanze degli Stati uniti, e
far sì che l’America, ancora una volta, guidi il mondo».
Il primo
passo sarà quello di rafforzare la Nato, che è «il cuore stesso della
sicurezza nazionale degli Stati uniti». A tal fine Biden farà gli
«investimenti necessari» perché gli Stati uniti mantengano «la più
potente forza militare del mondo» e, allo stesso tempo, farà in modo che
«i nostri alleati Nato accrescano la loro spesa per la Difesa» secondo
gli impegni già assunti con l’amministrazione Obama-Biden.
Il
secondo passo sarà convocare, nel primo anno di presidenza, un «Summit
globale per la democrazia»: vi parteciperanno «le nazioni del mondo
libero e le organizzazioni della società civile di tutto il mondo in
prima linea nella difesa della democrazia». Il Summit deciderà una
«azione collettiva contro le minacce globali». Anzitutto per
«contrastare l’aggressione russa, mantenendo affilate le capacità
militari dell’Alleanza e imponendo alla Russia reali costi per le sue
violazioni delle norme internazionali»; allo stesso tempo, per
«costruire un fronte unito contro le azioni offensive e le violazioni
dei diritti umani da parte della Cina, che sta estendendo la sua portata
globale».
Poiché «il mondo non si organizza da sé», sottolinea
Biden, gli Stati uniti devono ritornare a «svolgere il ruolo di guida
nello scrivere le regole, come hanno fatto per 70 anni sotto i
presidenti sia democratici che repubblicani, finché non è arrivato
Trump». Queste sono le linee portanti del programma di politica estera
che l’amministrazione Biden si impegna ad attuare.
Tale programma –
elaborato con la partecipazione di oltre 2.000 consiglieri di politica
estera e sicurezza nazionale, organizzati in 20 gruppi di lavoro – non è
solo il programma di Biden e del Partito Democratico. Esso è in realtà
espressione di un partito trasversale, la cui esistenza è dimostrata dal
fatto che le decisioni fondamentali di politica estera, anzitutto
quelle relative alle guerre, vengono prese negli Stati uniti su base
bipartisan.
Lo conferma il fatto che oltre 130 alti funzionari
repubblicani (sia a riposo che in carica) hanno pubblicato il 20 agosto
una dichiarazione di voto contro il repubblicano Trump e a favore del
democratico Biden. Tra questi c’è John Negroponte, nominato dal
presidente George W. Bush, nel 2004-2007, prima ambasciatore in Iraq
(con il compito di reprimere la), poi direttore dei servizi segreti Usa.
Lo conferma il fatto che il democratico Biden, allora presidente della
Commissione Esteri del Senato, sostenne nel 2001 la decisione del
presidente repubblicano Bush di attaccare e invadere l’Afghanistan e,
nel 2002, promosse una risoluzione bipartisan di 77 senatori che
autorizzava il presidente Bush ad attaccare e invadere l’Iraq con
l’accusa (poi dimostratasi falsa) che esso possedeva armi di distruzione
di massa.
Sempre durante l’amministrazione Bush, quando le forze
Usa non riuscivano a controllare l’Iraq occupato, Joe Biden faceva
passare al Senato, nel 2007, un piano sul «decentramento dell’Iraq in
tre regioni autonome – curda, sunnita e sciita»: in altre parole lo
smembramento del paese funzionale alla strategia Usa. Parimenti, quando
Joe Biden è stato per due mandati vicepresidente dell’amministrazione
Obama, i repubblicani hanno appoggiato le decisioni democratiche sulla
guerra alla Libia, l’operazione in Siria e il nuovo confronto con la
Russia. Il partito trasversale, che non appare alle urne, continua a
lavorare perché «l’America, ancora una volta, guidi il mondo».
fonte: https://ilmanifesto.it/la-politica-estera-di-joe-biden/
Non è dunque per rompere gli
entusiasmi per la sconfitta del lercio, ma la documentazione
inoppugnabile di Dinucci dimostra che politica e cultura imperialiste
sono incardinate in un sistema, quello capitalista statunitense, che
ammette solo un cambio di facciata, e che gli USA giocheranno ancora per
l’egemonia mondiale “manu militari”. Dollari e armi sono l’essenza
stessa di quel sistema, comunque al tramonto. - fe.d.
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