Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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lunedì 9 novembre 2020

MAINSTREAM ha fatto BIDEN

 

Certo il mondo e gli USA si sono liberati del volto peggiore del capitalimperialismo, quello allo stato brado del ricco ignorante arrogante e idiota, ma l’entusiasmo per Viso Pallido dei media “mainstreams” tende al “politically correct”, in sostanza all’egemonia, per Gramsci, del senso comune di massa, con una faccia presentabile/perbene per un giudizio plaudente sui valori del sistema di dominio mondiale, quelli del liberismo protetto dal cordone “atlantico”, messo in crisi geopoliticamente ed economicamente innanzitutto dalla Cina, dalla Russia, e dai paesi che cercano di uscire dalla morsa del capitalimperialismo, Cuba, Vietnam e Venezuela in testa. 

Sappiamo per certo dunque ciò che Trump ha fatto ma anche ciò che Biden non farà. 

La politica estera di Joe Biden

L'arte della guerra. Le linee portanti del programma di politica estera che la nuova amministrazione Usa si impegna ad attuare sono espressione di un partito trasversale


di Manlio Dinucci 

Quali sono le linee programmatiche di politica estera che Joe Biden attuerà quando si sarà insediato alla Casa Bianca? Lo ha preannunciato con un dettagliato articolo sulla rivista Foreign Affairs (marzo/aprile 2020), che ha costituito la base della Piattaforma 2020 approvata in agosto dal Partito Democratico. Il titolo è già eloquente: «Perché l’America deve guidare di nuovo / Salvataggio della politica estera degli Stati uniti dopo Trump». Biden sintetizza così il suo programma di politica estera: mentre «il presidente Trump ha sminuito, indebolito e abbandonato alleati e partner, e abdicato alla leadership americana, come presidente farò immediatamente passi per rinnovare le alleanze degli Stati uniti, e far sì che l’America, ancora una volta, guidi il mondo».
Il primo passo sarà quello di rafforzare la Nato, che è «il cuore stesso della sicurezza nazionale degli Stati uniti». A tal fine Biden farà gli «investimenti necessari» perché gli Stati uniti mantengano «la più potente forza militare del mondo» e, allo stesso tempo, farà in modo che «i nostri alleati Nato accrescano la loro spesa per la Difesa» secondo gli impegni già assunti con l’amministrazione Obama-Biden.
Il secondo passo sarà convocare, nel primo anno di presidenza, un «Summit globale per la democrazia»: vi parteciperanno «le nazioni del mondo libero e le organizzazioni della società civile di tutto il mondo in prima linea nella difesa della democrazia». Il Summit deciderà una «azione collettiva contro le minacce globali». Anzitutto per «contrastare l’aggressione russa, mantenendo affilate le capacità militari dell’Alleanza e imponendo alla Russia reali costi per le sue violazioni delle norme internazionali»; allo stesso tempo, per «costruire un fronte unito contro le azioni offensive e le violazioni dei diritti umani da parte della Cina, che sta estendendo la sua portata globale».
Poiché «il mondo non si organizza da sé», sottolinea Biden, gli Stati uniti devono ritornare a «svolgere il ruolo di guida nello scrivere le regole, come hanno fatto per 70 anni sotto i presidenti sia democratici che repubblicani, finché non è arrivato Trump». Queste sono le linee portanti del programma di politica estera che l’amministrazione Biden si impegna ad attuare.
Tale programma – elaborato con la partecipazione di oltre 2.000 consiglieri di politica estera e sicurezza nazionale, organizzati in 20 gruppi di lavoro – non è solo il programma di Biden e del Partito Democratico. Esso è in realtà espressione di un partito trasversale, la cui esistenza è dimostrata dal fatto che le decisioni fondamentali di politica estera, anzitutto quelle relative alle guerre, vengono prese negli Stati uniti su base bipartisan.
Lo conferma il fatto che oltre 130 alti funzionari repubblicani (sia a riposo che in carica) hanno pubblicato il 20 agosto una dichiarazione di voto contro il repubblicano Trump e a favore del democratico Biden. Tra questi c’è John Negroponte, nominato dal presidente George W. Bush, nel 2004-2007, prima ambasciatore in Iraq (con il compito di reprimere la), poi direttore dei servizi segreti Usa.
Lo conferma il fatto che il democratico Biden, allora presidente della Commissione Esteri del Senato, sostenne nel 2001 la decisione del presidente repubblicano Bush di attaccare e invadere l’Afghanistan e, nel 2002, promosse una risoluzione bipartisan di 77 senatori che autorizzava il presidente Bush ad attaccare e invadere l’Iraq con l’accusa (poi dimostratasi falsa) che esso possedeva armi di distruzione di massa.
Sempre durante l’amministrazione Bush, quando le forze Usa non riuscivano a controllare l’Iraq occupato, Joe Biden faceva passare al Senato, nel 2007, un piano sul «decentramento dell’Iraq in tre regioni autonome – curda, sunnita e sciita»: in altre parole lo smembramento del paese funzionale alla strategia Usa. Parimenti, quando Joe Biden è stato per due mandati vicepresidente dell’amministrazione Obama, i repubblicani hanno appoggiato le decisioni democratiche sulla guerra alla Libia, l’operazione in Siria e il nuovo confronto con la Russia. Il partito trasversale, che non appare alle urne, continua a lavorare perché «l’America, ancora una volta, guidi il mondo».

fonte: https://ilmanifesto.it/la-politica-estera-di-joe-biden/

Non è dunque per rompere gli entusiasmi per la sconfitta del lercio, ma la documentazione inoppugnabile di Dinucci dimostra che politica e cultura imperialiste sono incardinate in un sistema, quello capitalista statunitense, che ammette solo un cambio di facciata, e che gli USA giocheranno ancora per l’egemonia mondiale “manu militari”. Dollari e armi sono l’essenza stessa di quel sistema, comunque al tramonto. - fe.d. 





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