L'idea di progresso unilineare è cresciuta insieme al paradigma della civiltà industrialista del produttivismo e della mercificazione, inevitabilmente connessi al sistema capitalistico. La sensibile antenna pasoliniana (questo sviluppo è senza vero progresso) incontra l'apocalissi di de Martino nella "mutazione antropologica", risultato delle insanabili contraddizioni di quel sistema e di quel modello paradigmatico. La crisi del determinismo positivista è la crisi di una filosofia della storia: perchè nella storia c'è sia la natura sia la cultura dell'essere umano, strettamente intrecciate tra loro. La luce, dunque, per Pasolini, è solo della cultura ed è dentro di noi, nella rinuncia alle false consolazioni. Per mutazione antropologica, allora, cosa deve intendersi? La trasformazione dell’essere umano da naturale ad artificiale, nella crisi apocalittica della perdita di senso del suo rapporto con la natura, che dunque cambia la sua natura interna. Il produttivismo, la mercificazione, l’alienazione del sistema capitalista (P.P.Pasolini) o l’ancestrale timore della fine del mondo “per entro” un paradigma di civiltà al tramonto (E. de Martino) od entrambe, nella ricerca comunque dell’escaton (riscatto) e definitiva liberazione? -fe.d.
di Daniele
Balicco
Il
rito, ogni rito, è un condensato di storia e preistoria: è un nocciolo dalla
struttura fine e complessa, è un enigma da risolvere; se risolto, ci aiuterà a
risolvere altri enigmi che ci toccano più da vicino. (Primo Levi)
La cultura contemporanea occidentale immagina il proprio futuro
con molta difficoltà. Non a caso la
forma più comune di rappresentazione simbolica del futuro è la catastrofe.
Naturalmente esistono ragioni oggettive che possono giustificare questo impulso
simbolico autodistruttivo. Prima fra tutte, la percezione fisica, percettiva,
estetica della distruzione dell'ecosistema e della biosfera; ma, subito dopo,
potremmo enumerare una serie di condizioni di pericolo a cui ci stiamo
abituando ad essere esposti, per lo meno a livello ipotetico: caos sociale,
crisi economiche, povertà, violenza politica, guerre, terrorismo, se la nostra
sensibilità è soprattutto storico politica; contaminazioni radioattive, manipolazioni
genetiche, epidemie, avvelenamenti di massa, disastri tecnologici, se ci
spaventano di più quelli che Ivan Illich avrebbe chiamato gli esiti
contro-produttivi della produttività. [1]
Anche solo l'elenco
sommario di queste condizioni di pericolo mostra come, in questi ultimi
decenni, la cultura occidentale abbia sperimentato, con intensità crescente, la
crisi dell'idea di progresso non tanto a livello teorico, quanto a livello percettivo- sensibile.
(..)
La fine del mondo non è dunque semplicemente la catastrofe
ambientale, benché sia anche questo. Il nostro mondo sta finendo perché
l'alfabeto simbolico con cui l'uomo ha imparato ad interpretarlo da millenni
non funziona più. Nel suo capolavoro incompiuto, il volume intitolato La fine del mondo. Contributo all'analisi
delle apocalissi culturali, [2] l'antropologo italiano Ernesto De Martino
ha ricostruito una storia dei rituali della fine del mondo (nella cultura
classica, in antropologia, nella storia delle religioni) comparandola con
alcune forme simboliche della vita moderna (romanzi, quadri, musiche, teorie
critiche, movimenti politici, referti psichiatrici). La tesi di fondo del
volume è che già a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, la cultura
occidentale ha iniziato a riprodurre, con intensità crescente, forme e tematiche sorprendentemente simili a quelle sperimentate, in altri
tempi e in altre parti del mondo, dai rituali della fine del mondo. Con una
differenza, però. La cultura occidentale sta esprimendo con forza la volontà di
"perdere la presenza", di sperimentare cioè la conoscenza degli
abissi sensoriali ed emotivi che si aprono al di là dell'esperienza quotidiana,
fino alla possibilità dell'autodistruzione, senza tuttavia possedere i rituali,
le tecniche simboliche, e soprattutto il controllo
qualitativo del tempo con cui tanto la cultura classica quanto le culture
non occidentali hanno sempre protetto queste forme di conoscenza dalla
possibilità che si trasformassero, realmente, nella fine della vita,
individuale e collettiva. De Martino lavorava a questo volume nella prima metà
degli anni sessanta, quando l'autodistruzione della specie, per il possibile
scoppio di una guerra atomica fra Unione Sovietica e Stati Uniti, era
un'ipotesi remota, ma non del tutto impossibile. Pier Paolo Pasolini non ha
potuto leggere La fine del mondo, che è stato pubblicato postumo nel 1977, ma
conosceva molto bene il lavoro di De Martino e, soprattutto, l'articolo che
anticipa le tesi del volume: Apocalissi culturali e apocalissi
psicopatologiche.[3]
Lo fece pubblicare nel 1964
sulla rivista Nuovi Argomenti, di cui
era lui stesso condirettore, insieme ad Alberto Moravia. La riflessione di
Pasolini sulla mutazione antropologica della cultura italiana risente
fortemente della lettura di questo saggio. [4]
Ma mentre De Martino si limita ad un'analisi comparata tra rituali
della fine del mondo, referti psichiatrici e forme simboliche della cultura
contemporanea, Pasolini individua la causa di questa apocalisse dell'uomo nel
capitalismo a lui contemporaneo. Per Pasolini, il capitale come forma di potere
è capace, infatti, attraverso la coazione al consumo e alla diffusione di una
comunicazione mediatica ubiquitaria, di addomesticare l'umano, di plasmare i
sogni, i desideri, la capacità lavorativa, la sessualità, la vita corporea. E',
in altre parole, un potere mutageno in grado di produrre una forma di vita
propria.
NOTE
[1] Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni. Un messaggio o
una sfida, Armando, Roma, 1973
[2] Ernesto de Martino, La
fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali, Einaudi,
Torino, 1977
[3] Id., Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, in "Nuovi Argomenti", 69-71 (1964),pp.105-41
4]
Sul rapporto tra Pasolini e De Martino si vedano, almeno: Nicola Gasbarro, Sacralità come éthos del trascendimento
in Pasolini e l'interrogazione del sacro
a.c. di Angela Felice, Gian Paolo Gri, Padova, 2013, pp.39-54; Giacomo Tinelli,
Pasolini e De Martino. Uno studio di
Giacomo Tinelli, http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/pasolini-e-de-martino-una-ricerca-di-giacomo-tirelli-parte-i/
da Daniele
Balicco, Letteratura e mutazione - Pier
Paolo Pasolini, Ernesto De Martino, Franco Fortini, ed.Artemide, 2018, pp.
30 e 33-34
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