Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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venerdì 11 aprile 2025

Sulla questione dello “storicismo”. Lo “storicismo” critico dialettico e l’”antistoricismo”

 

La natura teoretico-prassica del dibattito marxista italiano tra gli anni 50 e gli anni 60 del Novecento (Luporini, Panzieri e Galvano Della Volpe)


Galvano Della Volpe [1895/1968] e Cesare Luporini [1909/1993]


I Quaderni di Gramsci - recuperati dopo la sua morte e portati a Mosca - furono pubblicati dall'Editore Giulio Einaudi, organizzati e rivisti da Felice Platone sotto la guida di Palmiro Togliatti, in una prima edizione tra il 1948 e il 1951. Presentati originariamente secondo un ordine tematico, ottennero un enorme impatto nel mondo della politica, della cultura, della filosofia e delle altre scienze sociali dell'Italia del dopoguerra, permettendo al Partito Comunista di avviare una contesa egemonica nel mondo culturale e intellettuale dell'epoca. Questa contesa filosoficamente ebbe come punta di penna affilata la lettura, l’impostazione e l’interpretazione (ermeneutica) dello ‘storicismo’. Storicista infatti si definiva Gramsci, storicista si definì Togliatti. Ma storicismo era anche l’idealismo di Benedetto Croce, lontano e anzi, avversario del marxismo. Di qui, tutta una serie di dibattiti, fra i quali il ‘crocianesimo’ degli stessi Gramsci e Togliatti. Una grande ambiguità aleggiava su tutta la discussione, che era soprattutto politico-filosofica e lessicale. Come rimarcava nei suoi corsi il mio professore Cesare Luporini nell’ateneo fiorentino, nonchè tra i filosofi di punta del PCI, con il termine ’storicismo’ possono intendersi letture diverse della realtà (e delle idee): c’è quello idealistico, ma c’è anche quello critico-dialettico. Che comporta anche un allargamento espansivo all’essere umano, nè provvidenziale, nè deterministico. Per questo Luporini è passato come ‘anti storicista’ per antonomasia. Ma non corrispondeva filologicamente al suo pensiero, sempre critico e attento verso le posizioni volgarizzate e finalistiche del materialismo storico. Ma su questo torneremo, anche alla luce di un libro collettaneo (a cura di Matteo Cavalleri e Francesco Cerrato), “La battaglia delle idee, Il Partito comunista italiano e la filosofia nel secondo dopoguerra”, Sossella editore, 2024, 336 pp. - 


Antonio Labriola (Cassino, 1843 – Roma, 1904) si forma alla scuola di Bertrando Spaventa. Docente, pubblicista ed esperto di educazione, è tra i maggiori filosofi italiani di ogni tempo. Tra i primi a recepire in Italia l’opera di Marx, fu il principale corrispondente italiano di Engels, interlocutore di Sorel, Bernstein, Kautsky e del giovane Croce.

Labriola incarna un nuovo tipo di intellettuale, che Gramsci collocherà come "organico" alla classe proletaria (cioè frutto di un nuovo "blocco storico" alternativo, ma non "organico" a una milizia di partito), l'intellettuale che si rende conto dell'importanza di strumenti teorici adeguati per l'azione politica. E Labriola li trova, questi strumenti, nel marxismo. Ma un marxismo che deve essere "depurato" dalle degenerazioni (culturali, e quindi politiche) del presente, che sono il positivismo trasformato in metafisica, un evoluzionismo determinista che fa intendere le leggi economiche come fossero leggi naturali, una fede meccanicistica in un progresso scientifico indistinto, avulso dal segno di classe. Ecco allora il problema, di un'attualità straordinaria: l'autonomia teorica del marxismo e la rivendicazione di una pienezza interpretativa della concezione materialistica della storia.

La formazione storico-sociale borghese è destinata ad essere superata dalla nuova formazione storica di tipo socialistico: ma le forme che concretamente assumerà il processo rivoluzionario non sono determinate a priori. Un assunto, questo, che poneva Labriola in forte contrasto con le posizioni scientiste e passivamente deterministiche dello stesso movimento socialista.

 La nuova "dottrina", infatti, la nuova filosofia della prassi, era, nella lezione labriolana matura, sia metodo scientifico per l'interpretazione dei fatti storici sia strumento di azione politica.

FILOSOFIA DELLA PRASSI

Rileggendo Labriola e ripensando lo “storicismo”, da cui quello marxista italiano prende le mosse (cfr. la messa a punto di Nicola Badaloni, Marxismo come storicismo, Feltrinelli, 1962) si comprende come, pur ponendo al centro la storia, fra natura e cultura degli esseri umani, questa non possa essere concepita nè come disegno idealistico e provvidenziale, nè in senso deterministico, l’altra faccia dell’”astuzia della ragione” del ‘progresso lineare’ scientista e positivista. La ricaduta di questi vizi, nella dimensione politica, dà vita o all’attendismo o al riformismo, non all’elaborazione di un pensiero e di una prassi rivoluzionari.

cfr. http://ferdinandodubla.blogspot.com/2020/12/coscienza-critica.html

Il libro “La battaglia delle idee. Il Partito comunista italiano e la filosofia nel secondo dopoguerra”, a cura di Matteo Cavalleri e Francesco Cerrato per Luca Sossella Editore (2024) contiene, tra gli altri, ben due saggi su Cesare Luporini, di Sergio Filippo Magni e Giorgio Cesarale. Quest’ultimo si cimenta con la ricostruzione della polemica tra il filosofo marxista fiorentino di adozione e il filosofo della famiglia dei Conti Della Volpe, Galvano, nel corso degli anni ‘60. Precisamente, nel 1962, era stato Luporini che aveva aperto una polemica con Della Volpe e la sua “scuola” (con epicentro l’Università di Messina) sul ruolo in Marx della contraddizione e dell'"oggettività reale", che per Luporini testimoniavano, contrariamente alla lettura del filosofo imolese, un collegamento di Marx con Hegel anche dopo la fase giovanile della sua riflessione. Una ricostruzione difficile, meritorio lo sforzo di Cesarale per districarsi tra essere e logica, logica scientifica, logica dialettica, marxismo/empirismo/scientismo, piano ontologico, astrazioni ‘determinate’, circolo astratto-concreto-astratto o concreto-astratto-concreto, storicismo/antistoricismo (alle pagine 145-166, il saggio ha per titolo “Dialettica e positivismo nel marxismo italiano post-bellico: la polemica di Luporini e la scuola dellavolpiana). “Scuola dellavolpiana” che diventò moda culturale, come accade, attirò giovani intellettuali come Lucio Colletti e Mario Rossi, ‘prese’ la casamatta della rivista “Società”, particolarmente cara a Luporini che l’aveva co-fondata nel 1945 con Bianchi Bandinelli e Bilenchi. Qui, a nostro avviso, è il punto: l’egemonia culturale non all’esterno ma all’interno del partito dei suoi intellettuali di riferimento. Non è una battaglia ‘teoretica’ pura, disinteressata: c’è una ricaduta politica nella linea politica del PCI e delle sue scelte strategiche, in qualche modo ‘giustificate’ dalla teoria, se non dalla teoresi, nel caso in specie. (su questo cfr. Guido Liguori, “Dallo storicismo alla scoperta delle forme”, in AA.VV. “Il pensiero di Cesare Luporini”, Feltrinelli, Milano, 1994). Intellettuali di riferimento: un’altalena tra il ‘partito’ e  la ‘classe’. Organici. Il partito doveva funzionare gramscianamente da ‘intellettuale collettivo’ per aderire alla classe. Nella prospettiva della società socialista, studiare le tappe del processo rivoluzionario. Qui la vera dialettica del PCI in quegli anni e la natura teoretico-prassica, cioè politica, di quel dibattito. Un pò come la contesa teologica sugli universali che oppose nel Medioevo Abelardo, Roscellino e Guglielmo di Champeaux fino a Guglielmo di Ockham. C’era anche lì una dimensione politica, teologico-prassica, non subito evidente ma che dava alla disputa il suo valore cogente. C’è un antesignano di questo libro sulla battaglia delle idee (il titolo richiama Mario Alicata e una rubrica su Rinascita)  nel PCI degli anni a cavallo delle rivolte studentesche e operaie degli anni Sessanta e Settanta e di cui consigliamo la lettura alla nuova generazione; così come Luporini stesso, a noi giovani studenti di allora, consigliava la lettura di “Marxismo e filosofia in Italia : 1958-1971 : i dibattiti e le inchieste su Rinascita e il Contemporaneo / [a cura di] Franco Cassano, De Donato, 1973. - 




Cfr. Marxismo e filosofia in Italia : 1958-1971 : i dibattiti e le inchieste su Rinascita e il Contemporaneo / [a cura di] Franco Cassano, De Donato, 1973

Premessa e introduzione dell’autore.

Questo volume che raccoglie e organizza criticamente i testi dei dibattiti più significativi sulla natura teorica del marxismo comparsi sulle riviste del Pci, «Il Contemporaneo» e «Rinascita» – risponde all’intenzione di riproporre alle nuove generazioni, non meno che a coloro che di quelle discussioni furono tra i protagonisti, uno strumento per una riflessione e una storicizzazione del rapporto tra marxismo e movimento operaio negli anni ’60. Se infatti sarebbe estremamente schematico e riduttivo leggere gli schieramenti e le contrapposizioni che si definiscono nel dibattito filosofico sulla natura teorica del marxismo come un’immediata espressione di differenze politiche, sarebbe altrettanto impossibile ricostruire per intero il significato politico del dibattito teorico senza esplorare il suo nesso con i problemi che lo scontro di classe, a vari livelli, pone al movimento operaio italiano per tutto l’arco degli anni ’60. Da questo punto di vista infatti il dibattito filosofico non si configura più come una discussione tra gli addetti ai lavori, ma piuttosto come un dibattito sull’adeguatezza o meno di una forma teorica del marxismo allo sviluppo della lotta di classe e alla costruzione di un blocco sociale e politico capace di porsi come oggetto e artefice del processo rivoluzionario in Occidente. Se si può ricostruire una linea lungo la quale si collocano le varie cadenze della discussione, essa è quella della progressiva crisi della interpretazione del marxismo come storicismo. Questa crisi coincide con lo sviluppo della società italiana, con la divisione del movimento operaio e con il lancio della politica di centro-sinistra. Di fronte a questa fase nuova e più avanzata dello scontro di classe, si produce all’interno del movimento operaio una contrapposizione tra chi sottolinea l’organica incapacità del capitalismo italiano di praticare correntemente il terreno delle riforme e chi sostiene invece la necessità di dover spostare in avanti il fronte degli obbiettivi intorno ai quali articolare la strategia del movimento operaio. È sullo sfondo di questo dibattito politico che occorre leggere la disputa filosofica, ed è su questo piano e secondo questa intenzione che procede la premessa del curatore. Il bilancio che ne scaturisce è quello dell’esistenza di alcune linee importanti di ricomposizione di quella frattura intorno a una ridefinizione del marxismo come analisi sociale delle contraddizioni della società capitalistica, ma anche della persistenza di forti ritardi così nell’articolazione precisa di questa ridefinizione come nelle capacità concrete di bruciare ogni residuo filosofico-metodologico in direzione della costruzione politica delle contraddizioni e nell’organizzazione e ricomposizione politica delle forze produttive. Un primo contributo nella direzione della saldatura dell’anima dialettica e dell’anima analitica del marxismo intorno al tema dell’uso della scienza e della divisione del lavoro nel capitalismo maturo vuole essere il saggio che il curatore del volume ha premesso ai testi.

È sullo sfondo di questo dibattito politico che occorre leggere la disputa filosofica, ed è su questo piano e secondo questa intenzione che procede la premessa del curatore. Il bilancio che ne scaturisce è quello dell’esistenza di alcune linee importanti di ricomposizione di quella frattura intorno a una ridefinizione del marxismo come analisi sociale delle contraddizioni della società capitalistica, ma anche della persistenza di forti ritardi così nell’articolazione precisa di questa ridefinizione come nelle capacità concrete di bruciare ogni residuo filosofico-metodologico in direzione della costruzione politica delle contraddizioni e nell’organizzazione e ricomposizione politica delle forze produttive.

Franco Cassano, all’epoca, era assistente ordinario di Filosofia del diritto e professore incaricato di Metodologia delle scienze sociali all’università di Bari.


RENDERE “OGGETTIVA” LA CONTRADDIZIONE 



Raniero Panzieri (Roma, 1921 - Torino, 1964)

 

 La lettura classista di un Marx sganciato da Hegel, diventa critica allo storicismo come teoretica del gradualismo riformista vs. un reale processo rivoluzionario. Sebbene l’inchiesta sociale vedesse al centro la classe operaia settentrionale, torinese, con ondate sempre crescenti di forza-lavoro immigrata meridionale, che andrà a costituire in carne ed ossa la categoria della neosociologia critica dell’operaio-massa, quella di Panzieri è un’elaborazione politica che, proprio perché supportata dall’indagine sul campo, più che ‘operaista’ è classista in senso marxiano. A prescindere dai profondi legami che l’operaio-massa continuava ad avere con la propria terra, anche in termini antropologico-culturali, fondendoli con la ‘modernizzazione’ urbana industrial-capitalista, il metodo dell’inchiesta inverava il circolo dellavolpiano <concreto-astratto-concreto>, pena la ricaduta nell’idealismo metafisico (l’astrazione non-determinata) o nel determinismo neopositivista o scientista come nell’impostazione di Ludovico Geymonat. Scientista non è ‘scientifico’, ma assolutizzazione della scienza, e, come ogni assolutizzazione, cade nel suo opposto dialettico, che non è il relativismo, ma  un’ipostatizzazione dell’oggetto sul soggetto, una contraddizione che solo può essere compresa come “realtà oggettiva” e non legge di pensiero come nella ‘Scienza della logica’ hegeliana, un terreno di battaglia per il giovane Lucio Colletti, allievo di Della Volpe. Singolare che Panzieri partecipi alla critica ‘da sinistra’ allo storicismo, servito da collante ideologico della strategia politica della ‘democrazia progressiva’ del PCI (la linea continua De Sanctis-Labriola-Gramsci parallela a quella Spaventa-Croce-Gentile dell’hegelismo) in questo modo indiretto, comunque con una direttrice analitica che lo metterà in difficoltà nel suo partito, il PSI.

Minimum biblio.:

Lucio Libertini- Raniero Panzieri, Sette tesi sulla questione del controllo operaio, in “Mondo Operaio”, 1958 nr.2

Galvano Della Volpe, Logica come scienza positiva, ed. D’Anna, Messina,  1956

Sulle varie posizioni nel dibattito marxista italiano di quegli anni, sullo sfondo anche il ‘razionalismo critico’ di Antonio Banfi degli anni precedenti, cfr. Giuseppe Vacca (a cura di), Gli intellettuali di sinistra e la crisi del 1956. Un’antologia di scritti del “Contemporaneo”, Editori Riuniti, 1978

a cura di Ferdinando Dubla, Subaltern studies Italia


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martedì 8 aprile 2025

Quello strano triangolo: Raniero Panzieri, Rocco Scotellaro, Mao-Tse-Tung

 

Classe, inchiesta sociale e Mezzogiorno 



PARTITO E AUTONOMIA DI CLASSE

Panzieri si inserisce nel dibattito culturale e filosofico del movimento operaio e dei suoi partiti di riferimento, il PSI e il PCI, nel corso degli anni ‘50, spostando l’asse della elaborazione teorico-politica, dal partito strumento o parte della classe rappresentante di essa, all’autonomia di classe, attraverso il movimento e tutta la sua azione nell’autorganizzazione che riesce a costruire. La classe operaia è la forza motrice della lotta di classe rivoluzionaria ma il protagonismo sul campo della classe contadina in particolare nel Mezzogiorno + fa estendere il concetto di classe ai gruppi subalterni, la cui ‘disgregazione’ analizzata da Gramsci nel Quaderno 25 di Formia (1934-1935) diventa elemento di analisi politica. Fu questa impostazione che causò l’allontanamento di Panzieri dalla condirezione della rivista “Mondoperaio” dopo il 33º Congresso del PSI tenutosi a Napoli nel gennaio 1959 e successivamente dallo stesso partito.

(cfr. Giovanni Scirocco, La svolta autonomista, "Mondoperaio", n. 12/2018, p. 18).

“Panzieri avvia un’analisi sulle modalità di lotta delle classi subalterne che lo porta a concludere come queste costituiscano una realtà che non si confonde con le istituzioni nè con la coscienza espressa dal Partito, e come, pertanto, esse abbiano una loro indipendenza di movimento e di comportamento”.

(cfr. Giulia Dettori, “Dal marxismo ai marxismi”: Partito e intellettuali in Italia dal 1956 al 1967, in La battaglia delle idee - Il Partito comunista italiano e la filosofia nel secondo dopoguerra a cura di Matteo Cavalleri e Francesco Cerrato, Luca Sossella Editore, 2024, pag. 71).

PANZIERI A MEZZOGIORNO

Raniero Panzieri intellettuale del Mezzogiorno? Fu intellettuale ‘organico’ alla classe. La sua lettura dell’opera di Scotellaro (Matera, 1955), compagno di partito morto prematuramente e poeta del riscatto di quelle che De Martino chiamerà le ‘plebi rustiche‘ del Mezzogiorno, lo dimostra.

IL CONVEGNO DI MATERA DEL 6 FEBBRAIO 1955: ROCCO SCOTELLARO, INTELLETTUALE DEL MEZZOGIORNO 




Matera, Cine-teatro Impero, 6 febbraio 1955. Convegno su “Rocco Scotellaro, intellettuale della Mezzogiorno”. Al tavolo, da sn: Franco Fortini, Oronzo Manicone, Raniero Panzieri, Tommaso Fiore, Carlo Levi 


L’iniziatore della tendenza ‘operaista’ nel movimento di orientamento marxista italiano, con i suoi ‘Quaderni Rossi’, non solo fece esperienza diretta dell’occupazione delle terre in Sicilia, ma aveva, per il tramite dello strumento dell’inchiesta sociale (comune anche a Mao, che aveva guidato la classe contadina cinese, frantumata e dispersa nelle ampie zone rurali, a una rivoluzione vittoriosa)+ un concetto estensivo di ‘classe’, non determinista perchè non a-priori.

"In Cina tra il 1924 e il 1928, ebbero la prevalenza nel partito comunista coloro che erroneamente volevano impegnare il movimento di classe a sostenere incondizionatamente il Kuomintang di Ciang-Kai-Shek, aiutandolo a realizzare, dopo il crollo della dinastia Manciù e del sistema feudale, la seconda tappa (democrazia borghese): costoro non tenevano conto della inesistenza di una borghesia cinese capace di porsi come classe ‘nazionale’, e del fatto che le sterminate masse contadine di quel paese potevano lottare unicamente per la causa della propria emancipazione, e non per perseguire schemi astratti e incomprensibili.", Lucio Libertini -Raniero Panzieri, Sette tesi sulla questione del controllo operaio, in “Mondo Operaio”, 1958,  nr.2, pag.831-832.

+ “La campagna accerchia la città”, - a lungo nella memoria delle forze rivoluzionarie cinesi la dimensione della città si era coniugata con la sconfitta della Comune comunista di Shanghai (maggio 1927) quando gran parte dei sostenitori del giovane movimento marxista erano stati uccisi dalle forze nazionaliste. Da quella sconfitta i comunisti capiscono che per ricominciare occorre muoversi nelle campagne, lontano dalle città.

PANZIERI IN SICILIA

Nel dicembre del 1948 Panzieri è a Messina. Lo ha chiamato Galvano Della Volpe, che qui insegna e lo stima – entrambi provano a strizzare Marx fuori dagli schemi dell’hegelismo e dell’ossificazione ideologica –, gli vuole bene e ne conosce le ristrettezze economiche, offrendogli un incarico all’università, facoltà di Lettere: Filosofia del diritto (ne è rimasta la dispensa del corso 1949-50, Il problema dello Stato moderno – La crisi del giusnaturalismo, assemblata e revisionata tra appunti rimasti, pagine tra le carte di Norberto Bobbio e note di Nicolao Merker, che fu allievo di Panzieri e poi a sua volta professore a Messina). Pucci Saija, la moglie di Raniero di origini siciliane, che lo ha conosciuto a Roma dove lei svolgeva un piccolo incarico presso il Partito socialista e lui lavorava a una qualche rivista e si sono sposati, è incinta e non può seguirlo; arriverà nella primavera del 1949 (c’è una delicata e struggente intervista – La mia vita è stata bella – che racconta dell’entusiasmo e dei sacrifici di quegli anni, qui). Tra il 1949 e il 1951 Panzieri insegna all’università e partecipa delle attività della Federazione socialista messinese. Nel 1950 è stata varata la Riforma agraria, e anche la Cassa per il Mezzogiorno. Dopo il ciclo di occupazione delle terre legate ai decreti Gullo, ministro dell’Agricoltura di un governo ancora provvisorio e nel bel mezzo della guerra civile in corso, nel 1944, varati sotto il titolo “Concessioni ai contadini delle terre incolte”, la Riforma agraria sarà occasione per un nuovo ciclo di occupazioni. Nel mezzo c’è stata la repressione brutale della polizia – che ha spesso sparato sui contadini – e l’assassinio per mano di mafia di decine di sindacalisti impegnati nelle lotte per la terra. Continueranno, e l’una e l’altro. Nei Nebrodi del Messinese, contadini e braccianti si organizzano. Alla loro testa c’è questo giovane professore – l’aura di “leggenda” che presto lo avvolgerà racconta: alle quattro è sulle terre, alle dieci fa lezione all’università –, in prima fila anche quando si tratta di sfidare la polizia. Subirà arresti e processi.

(da Lanfranco Caminiti, Raniero Panzieri in Sicilia: le fondamenta dell’operaismo, in "Artudo", 15 febbraio 2017, on line in https://www.antudo.info/raniero-panzieri-in-sicilia/ 



Galvano Della Volpe, autore di “Logica come scienza positiva”, (Messina-Firenze, D'Anna, 1950; 1956) fece diventare l'Università di Messina epicentro della ricerca marxista fuori dai canoni storicisti troppo debitori della logica hegeliana.

Per chi è impegnato nella costruzione unitaria della sinistra di alternativa, Raniero Panzieri è una figura importante, di un’attualità straordinaria. Morto prematuramente nel 1964, a soli 47 anni, è stato considerato il padre teorico-politico dell’”operaismo”, che però, dopo l’abbandono di Mario Tronti dei “Quaderni Rossi” (1963) per divergenze con il suo fondatore, Panzieri appunto, prese strade diverse.

Cfr. Sull'operaismo, gli operaisti e Potere Operaio

http://ferdinandodubla.blogspot.com/2024/01/sulloperaismo-gli-operaisti-e-potere.html

Inoltre, a nostro avviso, rispetto a letture critiche stereotipate, Panzieri fu intellettuale meridionalista rivoluzionario sul campo. E il metodo dell’”inchiesta sociale”, che lo collega idealmente anche ai metodi di ricognizione politico-sociale di Mao-Tse-Tung

Cfr. RIBELLARSI QUANDO E' GIUSTO: l'inchiesta sociale nei 'Quaderni Rossi' di Panzieri e in Mao-Tse-Tung, http://ferdinandodubla.blogspot.com/2023/03/linchiesta-sociale-nei-quaderni-rossi.html

lo pone oltre la centralità operaia come categoria a priori, sebbene la sua analisi si incentri sul cosiddetto ‘operaio-massa’ degli anni '60 del Novecento. Per estensione, la classe diventa l’insieme dei gruppi subalterni che debbono tracciare il percorso della trasformazione antagonista al sistema capitalista.

A cura di Ferdinando Dubla, Subaltern studies Italia

 

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mercoledì 2 aprile 2025

LIMES-FINES

 



Un’antica e cadente porta semiaperta lascia intravedere il passato e il futuro. Forse sono i confini del mondo che non ci appartiene più o forse ciò che ci appartiene ancora quando accogliamo i sedimenti e le tracce di coloro che accolsero il tempo della storia restando muti.

foto Francesca Cianciulli

 

La stratificazione di civiltà è l’ispessimento della storia. Se le parole sono pietre, come scrisse Carlo Levi, le pietre sono parole. Della storia non più muta. Ed è essa che indica, al ricercatore attento, la tortuosa strada dell’essere.

La storia la devi respirare sul campo. Se non alzi lo sguardo dalle carte essa ti sfuggirà incuneandosi tra le pietre. Ma le pietre, i ruderi in macerie, le case diroccate, sono uno scrigno prezioso per il ricercatore di quel tanto astratto apparentemente “paradigma di civiltà” ora perduto o con tracce in via di estinzione o omologazione culturale che è la civiltà contadina dell’Italia meridionale.

Necessaria è una nuova narrazione, necessario è un nuovo paradigma che parta dalle macerie per ricostruire una nuova soggettività storica. Nelle giornate di sole, quasi sempre dunque, se si presta attenzione a quei ruderi, si vedrà nitidamente il sangue dei vinti, non più assorbito dalla terra.  



Muro Lucano - salita e scesa  - foto Francesca Cianciulli



Visioni Meridiane- foto Fabio Giove

 

I gruppi subalterni subiscono sempre l'iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria "permanente" spezza, e non immediatamente, la subordinazione. (..) Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di valore inestimabile per lo storico integrale., Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, Quaderno 25, ed. Einaudi, 1975, pag.2283/2284. -

 

La complicità tra l’imperialismo e la storia del mondo, (..), non rappresenta solo una questione di espropriazione del passato dei colonizzati da parte dei colonizzatori. Essa equivale anche alla globalizzazione di uno sviluppo locale specifico dell’Europa moderna, ovvero il superamento della prosa del mondo da parte della prosa della storia., Ranajit Guha, La storia ai limiti della storia del mondo, Sansoni, 2003, pag.64



Arturo Zavattini, tra i più grandi fotografi italiani, ci regala questo scatto capolavoro firmato nel 1952 a Tricarico, in provincia di Matera, durante il suo viaggio etnologico-etnografico in Basilicata con Ernesto de Martino. Emozioni.

Nello scrivere questa storia, secondo l’antropologo Ernesto de Martino, materiale e tecnica etnografica di indagine sono preziosi, per la loro capacità di cogliere «i depositi alluvionali lasciati in queste terre dal millenario fluire delle civiltà» (Introduzione a “La terra del rimorso”, Il Saggiatore, 1961, pag.28), ma restano – quel materiale e quei metodi di ricerca – subordinati a una conoscenza che è per sua natura storica.

Il progetto di “storicizzare il ‘popolare’ e il ‘primitivo’ “, si rivelerà essere lo strumento attraverso il quale pensare il processo di emancipazione dei popoli e delle classi oppresse, ovvero, come ebbe felicemente ad esprimersi de Martino, “l’irrompere nella storia del mondo popolare subalterno”. È nello sviluppo di questi presupposti che de Martino si verrà a incontrare nel dopoguerra con il pensiero gramsciano, in particolare collegando la propria riflessione alle note sul folklore e più in generale all’analisi dei rapporti egemoni tra classi dominanti e classi subalterne.


a cura di Ferdinando Dubla, Subaltern studies Italia 



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 Formato digitale sfogliabile di Subaltern studies Italia 1. Saggi su Guha, Gramsci, de Martino e i margini della storia. A cura di Ferdinando Dubla. Barbieri edizioni, Manduria, 2024

venerdì 28 marzo 2025

Il Quaderno 12: Gramsci e la ricerca del principio educativo

 


Il Quaderno 12 fu redatto da Gramsci a Turi nel 1932. Può considerarsi un vero compendio della sua filosofia dell’educazione, con concrete proposte di trasformazione rivoluzionaria delle politiche scolastiche adottate dalle classi dirigenti del Regno d’Italia, liberal conservatrici prima, fasciste dopo. Ma anche di critica delle pedagogie idealistiche, spontaneiste e/o attivistiche che non delineavano nessuna vera trasformazione rivoluzionaria, legate a schemi astratti affatto concreti. Il Quaderno profila infatti una vera e propria “pedagogia della praxis”. Riprendiamo di seguito alcune citazioni.

Il titolo complessivo del Quaderno 12 (XXIX) è “Appunti e note sparse per un gruppo di saggi sulla storia degli intellettuali”. Il suo compendio pedagogico è in particolare il § 2. Osservazioni sulla scuola: per la ricerca del principio educativo.

 

[cit.] Il concetto dell’equilibrio tra ordine sociale e ordine naturale sul fondamento del lavoro, dell’attività teorico-pratica dell’uomo, crea i primi elementi di una intuizione del mondo, liberata da ogni magia e stregoneria, e dà l’appiglio allo sviluppo ulteriore di una concezione storica, dialettica, del mondo, a comprendere il movimento e il divenire, a valutare la somma di sforzi e di sacrifizi che è costato il presente al passato e che l’avvenire costa al presente, a concepire l’attualità come sintesi del passato, di tutte le generazioni passate, che si proietta nel futuro.

[cit.] Se il corpo magistrale è deficiente e il nesso istruzione-educazione viene sciolto per risolvere la quistione dell’insegnamento secondo schemi cartacei in cui l’educatività è esaltata, l’opera del maestro risulterà ancor piú deficiente: si avrà una scuola retorica, senza serietà, perché mancherà la corposità materiale del certo, e il vero sarà vero di parole, appunto retorica. (..) un mediocre insegnante può riuscire a ottenere che gli allievi diventino piú istruiti, non riuscirà ad ottenere che siano piú colti.

[cit.] Nella scuola attuale, per la crisi profonda della tradizione culturale e della concezione della vita e dell’uomo, si verifica un processo di progressiva degenerazione: le scuole di tipo professionale, cioè preoccupate di soddisfare interessi pratici immediati, prendono il sopravvento sulla scuola formativa, immediatamente disinteressata. L’aspetto piú paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi.

[cit.] L’impronta sociale è data dal fatto che ogni gruppo sociale ha un proprio tipo di scuola, destinato a perpetuare in questi strati una determinata funzione tradizionale, direttiva o strumentale. Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare-media) che conduca il giovinetto fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come persona capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige.

[cit.] il discente non è un disco di grammofono, non è un recipiente passivamente meccanico. Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza. [*]

Negli anni ‘30 dunque Antonio Gramsci sistemerà, nei Quaderni dal carcere, i propri principi pedagogici (non separabili dall‟impianto generale della sua analisi teorico-politica complessiva) in forme non dissimili nella sostanza dalle concezione della didattica del collettivo di Makarenko, sviluppando una vera e propria pedagogia della praxis che, da una parte si collegava alle intuizioni di Antonio Labriola, dall’altra motivava la sua avversione al neoidealismo di marca crociana e specificatamente riguardo la cosiddetta “Riforma”, di marca gentiliana; e criticava il profilo educativo dei metodi attivistici che si erano diffusi in Europa grazie all’opera di Ferriére che aveva reso egemone la filosofia dell’educazione deweyana nel più generale slancio di rinnovamento delle metodologie educative, necessario per rompere una tradizione stantia e regressiva volta solo a selezionare le future classi dirigenti e a perpetuare la discriminazione e la divisione di classe.

 

*Antonio Gramsci, Quaderni dal carcere, cit. da edizione digitale Einaudi su Edizione 1975 curata da Valentino Gerratana. Le pos. relative sono da pag. 2133 a pag. 2141. 



 

a cura di Ferdinando Dubla 



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giovedì 6 marzo 2025

Storia e redenzione nelle Tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin

 



Ferdinando Dubla - Francesco Morello, PERDERSI PER SALVARSI. NELLA STORIA / soggettivazione ed ‘escatologia’ dei subalterni in Walter Benjamin ed Ernesto De Martino (parte 2)

http://ferdinandodubla.blogspot.com/2025/02/perdersi-per-salvarsi-nella-storia.html

 

Storicismo/antistoricismo e la dialettica della storia

Se si pone la lotta di classe come motrice della storia, i marxisti non possono non dirsi storicisti. Il materialismo di Marx è storico in quanto levatrice della storia è la trasformazione rivoluzionaria in senso e prospettiva storica. La storia si pone come ponte tra la natura e la cultura. E la natura è sia quella esterna dell’ambiente, sia quella interna dell’essere umano, non riducibile ad un’unica ratio pre-figurata.

Dunque tutto ciò che è nella natura, è nella storia. E la cultura, prodotta dagli esseri umani, diventa parte integrante della loro storia.

Ma se per storicismo intendiamo l’idea della storia, e non la dialettica rivoluzionaria nel conflitto delle classi, oppressi/oppressori, subalterni e dominanti, esso si configura allora come l’”astuzia della ragione” hegeliana, come filosofia presupposta alla storia, come disegno vichiano provvidenziale, che razionalizza l’imponderabile; che pensa i concetti di ‘progresso’, ‘regresso’, ‘civiltà’ o ‘barbarie’, ‘sviluppo’ e ‘sottosviluppo’, secondo una linea del tempo inesorabile che determina il fluire degli eventi; allora i marxisti non possono non dirsi antistoricisti. Perchè le braghe del pensiero idealista non si calzano alla storia. La dialettica tra natura e cultura è nella storia. Dunque, o lo ‘storicismo’ è dialettico, oppure non è.

Comparazioni triangolari

* Lo storicismo autodefinito ‘assoluto’ di Antonio Gramsci è un umanesimo integrale, una filosofia della prassi storica. L’antistoricismo di Benjamin è lo sguardo della storia all’essere umano che trascende se stesso. Lo storicismo antropologico di Ernesto de Martino è il riscatto collettivo della presenza tra natura e cultura, è umanesimo etnografico, è etnocentrismo critico. In tutti è presente la dialettica della storia. / Convergenze parallele nel ‘riscatto-redenzione-escatòn‘. Un marxismo critico dialettico nel nome della storia. 



Storia e redenzione nelle Tesi sul concetto di storia di Walter Benjamin

Francesco Morello

Una certa tradizione critica ritiene indiscernibile la sfera della storia, in cui si svolge la lotta politica dei gruppi subalterni, dall’idea di redenzione e dalla dimensione dell’eschaton. Per citare solo i nomi più noti, basti pensare a Ernst Bloch, Jacob Taubes, Giorgio Agamben. D’altro canto, una linea più sotterranea, trasversale e ancora da esplorare resta quella dell’antropologo Ernesto De Martino che, con il suo concetto di “ethos del trascendimento” coniugato alla ricerca sulla cultura dei gruppi subalterni, offre spunti inediti alla riflessione su questo tema[1].

Uno dei testi fondanti di questa tradizione sono le Tesi sul Concetto di Storia di Walter Benjamin. Testo arduo, a tratti impervio, ma dall’indubbio fascino stilistico, questo scritto in forma di diciotto brevi tesi assume un significato tragico alla luce del contesto in cui è stato scritto e ritrovato. Si tratta di pochi fogli ritrovati nella valigetta che Benjamin portava con sé quando, in fuga dalla Francia ormai occupata dai nazisti, si tolse la vita a Portbou, in Catalogna, il 26 settembre 1940, disperando di riuscire a sfuggire alle guardie franchiste per salpare alla volta degli Stati Uniti. L’amara ironia della storia volle che alcuni dei suoi amici e collaboratori intellettuali, tra cui Theodor Adorno, Hannah Arendt e Bertold Brecht, riusciranno in seguito a raggiungere indenni la loro destinazione d’oltreoceano.

In queste tesi Benjamin offre una concezione della storia e della rivoluzione estremamente originale, in grado di stimolare ancora oggi prospettive critiche e posture di lotta che scuotono molte delle rassicuranti certezze del pensiero progressista. Vi troviamo il caratteristico e “scandaloso” intreccio di materialismo storico e messianismo ebraico che rappresenta la cifra della sua filosofia politica.

Alla definizione del rapporto tra i due elementi, Benjamin dedica la prima, suggestiva tesi:

 

E’ noto che sarebbe esistito un automa costruito in modo tale da reagire ad ogni mossa di un giocatore di scacchi con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un manichino vestito da turco, con un narghilè in bocca, sedeva davanti alla scacchiera, posta su un ampio tavolo. Con un sistema di specchi veniva data l'illusione che vi si potesse guardare attraverso da ogni lato. In verità c'era seduto dentro un nano gobbo, maestro nel gioco degli scacchi, che guidava per mezzo di fili la mano del manichino. Un corrispettivo di questo congegno si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il manichino detto «materialismo storico». Esso può competere senz'altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com'è a tutti noto, è piccola e brutta, e tra l'altro non deve lasciarsi vedere.[2]

 

In una contemporaneità contraddistinta dalla secolarizzazione, la teologia è piccola e brutta, ma soltanto il suo motore segreto consente alla lotta di classe di riportare le sue vittorie. Il materialismo storico non deve recidere il suo legame con la dimensione messianica, con una sfera di pienezza di senso della storia, pena la sconfitta delle classi subalterne. La teologia è il nucleo segreto che alimenta un inaggirabile bisogno di riscatto delle classi oppresse.

Il tempo storico, secondo Benjamin, è caratterizzato da un’intrinseca aspirazione alla redenzione e da un indice messianico, radicati dialetticamente proprio nella sua costitutiva caducità e incompiutezza. La storia è cosparsa di schegge messianiche, frammenti incompiuti, possibilità inespresse, che devono raccogliersi e salvarsi in una dimensione escatologica e di apocatastasi che Benjamin pensa come atto rivoluzionario.

 

[…] l'immagine di felicità che custodiamo in noi è del tutto intrisa del colore del tempo in cui ci ha oramai relegati il corso della nostra esistenza. Felicità che potrebbe risvegliare in noi l'invidia c'è solo nell'aria che abbiamo respirato, con le persone a cui avremmo potuto parlare, con le donne che avrebbero potuto darsi a noi.

A conferire alla storia la sua apparente continuità è l’immedesimazione dello storico con le classi dominanti, che nasce da una sua complice e viziosa forma di accidia. Lo storico che si immedesima nel corso lineare della storia si immedesima nel vincitore. A lui si contrappone il materialista storico, che coglie nel passato i frammenti incompiuti che non sono stati assimilati dalla tradizione dominante, i sentieri interrotti, le spinte abortite di un possibile mondo alternativo. Così li fa suoi nel presente in cui scrive, mai neutrale, sempre intento a “spazzolare la storia contropelo”.

 

[…] se ci si chiede con chi poi propriamente s'immedesimi lo storiografo dello storicismo. La risposta non può non essere: con il vincitore. Quelli che di volta in volta dominano sono però gli eredi di tutti coloro che hanno vinto sempre. L'immedesimazione con il vincitore torna perciò sempre a vantaggio dei dominatori di turno. Con ciò, per il materialista storico, si è detto abbastanza. Chiunque abbia riportato sinora vittoria partecipa al corteo trionfale dei dominatori di oggi, che calpesta coloro che oggi giacciono a terra. Anche il bottino, come si è sempre usato, viene trasportato nel corteo trionfale. Lo si designa come il patrimonio culturale. Esso dovrà tener conto di avere nel materialista storico un osservatore distaccato. Infatti tutto quanto egli coglie, con uno sguardo d'insieme, del patrimonio culturale gli rivela una provenienza che non può considerare senza orrore. Tutto ciò deve la sua esistenza non solo alla fatica dei grandi geni che l'hanno fatto, ma anche al servaggio senza nome dei loro contemporanei. Non è mai un documento della cultura senza essere insieme un documento della barbarie. E come non è esente da barbarie esso stesso, così non lo è neppure il processo della trasmissione per cui è passato dall'uno all'altro.[7]

 

E’ interessante notare a questo punto una sorprendente convergenza tra questo concetto benjaminiano di una storia degli oppressi che, abbandonata alla discontinuità e alla frammentazione, aspira alla reintegrazione messianica, e un passaggio chiave del quaderno 25 di Gramsci, proprio dedicato alla costruzione di una lettura della storia basata sulla categoria dei “subalterni”.

 

"§ Criteri metodologici. La storia dei gruppi sociali subalterni è necessariamente disgregata ed episodica. È indubbio che nell’attività storica di questi gruppi c’è la tendenza all’unificazione sia pure su piani provvisori, ma questa tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti, e pertanto può essere dimostrata solo a ciclo storico compiuto, se esso si conchiude con un successo. I gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria «permanente» spezza, e non immediatamente, la subordinazione. In realtà, anche quando paiono trionfanti, i gruppi subalterni sono solo in istato di difesa allarmata (questa verità si può dimostrare con la storia della Rivoluzione francese fino al 1830 almeno). Ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di valore inestimabile per lo storico integrale; da ciò risulta che una tale storia non può essere trattata che per monografie e che ogni monografia domanda un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da raccogliere." [8]

 

Senza voler appiattire l’una sull’altra le riflessioni dei due autori, non si può fare a meno di notarne la prossimità persino lessicale (quando si parla di “cumulo di […] materiali difficili da raccogliere”). Anche in Gramsci la tradizione degli oppressi è disgregata, e allo stesso tempo anela ad una sotterranea unificazione storiografica e rivoluzionaria che la strappi dall’oblio riscattandola.

Fare storia non significa ricostruire oziosamente il passato, ma raccogliere da esso quelle schegge messianiche nell’attimo del pericolo, rappresentato dal rischio che la tradizione degli oppressi si dissolva o venga mistificata. «Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince»[9].

Ad una storia intesa come ricostruzione di un’immagine eterna del passato, Benjamin contrappone la costruzione di una costellazione di significato a partire da un’immagine del passato che “guizza via”, e che spetta al materialista storico afferrare con prontezza nel suo presente. Ogni determinato punto del passato attende di essere raccolto da un determinato, specifico, presente. Salvare il passato, riscattarlo, significa riconoscere il presente come “significato” da esso, come destinatario del suo appello alla redenzione[10]. Bisogna recuperare l’”altro” del passato, riaprendo in questo modo la storia al possibile, strappandola alla sua reificazione. In questo modo il passato, lungi dal manifestarsi come un passaggio necessario e transitorio per giungere al presente, appare come una serie di momenti irripetibili che gridano il loro appello alla salvezza, in attesa che qualcuno ne colga il lato nascosto, quello che non è stato incorporato nella tradizione dominante.

La rivoluzione deve essere pensata secondo la stessa struttura messianica di recupero dell’inespresso e del suo compimento. L’attività dello storico materialista e del rivoluzionario finiscono così con il convergere, anche se su piani differenti. Ciò rende particolarmente originale e spiazzante il concetto benjaminiano di rivoluzione. Invece di essere orientata verso il futuro, essa guarda verso il passato; naturalmente non per restaurarlo, ma per raccogliere in esso i frammenti sparsi della storia degli oppressi, e vendicare nell’attimo rivoluzionario tutte le generazioni passate di subalterni. Egli ritiene di poter ricondurre questa concezione della rivoluzione allo stesso Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844. 

 

Il soggetto della conoscenza storica è di per sé la classe oppressa che lotta. In Marx essa figura come l'ultima classe resa schiava, come la classe vendicatrice, che porta a termine l'opera di liberazione in nome di generazioni di sconfitti.[11]

 

Tuttavia, nelle note preparatorie alla stesura del testo, è lo stesso Benjamin a segnalare un potenziale elemento di distanza dal pensatore di Treviri. La rivoluzione, a differenza della nota espressione di Marx, non è la “locomotiva della storia”, ma il suo “freno d’emergenza”[12].

La rivoluzione arreca un arresto messianico al continuum della storia; è una frattura che sospende nell’istante del kairos (l’attimo dell’opportunità) la sua precipitosa corsa verso la catastrofe. Il gesto rivoluzionario si compie in quello che Benjamin chiama Jetztzeit (tempo-ora, tempo dell’adesso), in cui i frammenti e le possibilità irrisolte del passato entrano in una congiunzione diretta con il presente, che li porta a compimento rovesciando l’esistente. Così come il materialista storico non scrive la storia come se essa si svolgesse in un tempo “omogeneo e vuoto”[13], allo stesso modo il rivoluzionario agisce in un adesso carico di senso, e ricapitola in un’istante tutti i frammenti disparati della storia, portandola a compimento. Robespierre strappava a forza l’antica Roma dalla tradizione dominante per consegnarla ai rivoluzionari; durante la rivoluzione di luglio c’è chi testimonia di aver visto i rivoluzionari sparare sugli orologi dei campanili per scardinare il tempo[14]. La rivoluzione accade nell’attimo in cui l’intera storia umana si cristallizza in una monade[15].

Con queste tesi Benjamin lascia in eredità una prospettiva feconda e ricca di spunti per il pensiero critico, deciso ad interrogarsi sul significato e sul senso della storiografia e della lotta rivoluzionaria. Come ogni pensatore vitale e storicamente decisivo, il terreno da lui dissodato lascia aperte diverse questioni, interrogando il nostro presente e stimolandolo a cercare nuove risposte.

Il progressismo costituisce uno strumento adeguato alla lotta dei subalterni contro l’egemonia delle classi dominanti? La dimensione teologica, per quanto secolarizzata, è davvero inaggirabile per lasciar sprigionare la scintilla dell’anelito al riscatto di popoli e classi oppresse? Gli sfruttati in conflitto organizzato contro gli sfruttatori possono fare a meno di prospettive progettuali per il futuro, nel loro tentativo di invertire il corso catastrofico della storia?

 

NOTE

[1] Per una lettura originale del pensiero di Ernesto de Martino in chiave subalternista, anche in rapporto all’ethos del trascendimento, si veda il saggio di Ferdinando Dubla contenuto nel IV capitolo dei «Subaltern Studies Italia.1», Barbieri, 2024,  pp. 31-37

[2] W. Benjamin, Angelus Novus, tr. it. di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 75, Tesi 1.

[3] ivi, pp. 75-76, Tesi 2.

[4] ivi, Tesi 13, 17. Sul conformismo e il determinismo economicistico della socialdemocrazia, cfr. anche Tesi 11.

[5] ivi, p. 79, Tesi 8.

[6] ivi, p. 80, Tesi 9.

[7] ivi, pp. 78-79, Tesi 7.

[8] Antonio Gramsci, Q.25 (XXIII), §2, Ai margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni, Einaudi, 1975, p.2290

[9] W. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 78, Tesi 6.

[10] ivi, p. 77,  Tesi 5.

[11] ivi, p. 82, Tesi 12.

[12] W. Benjamin, Sul concetto di storia. Scritti 1938-1940, in Opere complete. VII , a cura di Hermann Schweppenhäuser, Rolf Tiedemann, Enrico Ganni, Einaudi, Torino, 2006, p. 497.

[13] W. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 83, Tesi 14.

[14] ivi, p. 84, Tesi 15.

[15] ivi, p. 85, Tesi 17.

 

Come nella scrittura dei Subaltern studies a citazioni invertite, cioè la fonte autoriale è primaria, l’ermeneutica secondaria, “adattamento” necessario del testo all’interpretazione. *

WEB BLOG

- Walter Benjamin ed Ernesto de Martino: due personalità filosofiche accomunate dall’analisi ‘emozionale’, potremmo dire, dei gruppi subalterni. Il doppio sguardo, se partiamo dal Marx dell’onnilateralità dell’essere umano e la reintegrazione dalla frammentarietà e disgregazione dei gruppi subalterni nel Gramsci del Quaderno 25. Nonostante le ‘ermeneutiche’ in gran parte accademiche, sempre a induzione di narrazioni dominanti di tipo metafisico e idealista, che contorcono i testi, la comparazione è, non solo possibile, ma feconda di suggestioni per il pensiero (e la prassi) rivoluzionari. I percorsi di liberazione costituiscono, di per sè, atti rivoluzionari, perchè inducono a una narrazione altra, eversiva, quella dei dominati che si costruiscono come soggetto storico.

http://ferdinandodubla.blogspot.com/2021/07/ranajit-guha-ladattamento-di-gramsci.html

http://ferdinandodubla.blogspot.com/2021/08/la-questione-del-metodo-filologico.html

Cit. da Peter D.Thomas sui ‘fraintendimenti creativi’ e i ‘laboratori dialettici’ riferiti a Gramsci e gli studi internazionali. Quello di ‘far finta’ che non esista un soggetto interpretante che utilizza il testo filologico degli autori [acribia filologica] con una tesi dunque precostituita sul soggetto di studio, magari in chiave di ‘interpretazione’ del presente [filologia vivente] è vizio di storicismo idealistico, di carattere metafisico, subalterno alle narrazioni dominanti, a cui i Subaltern studies diretti da Ranajit Guha, metodologicamente, hanno contrapposto la dialettica soggetto/oggetto, la fonte, il testo, l’adattamento e l’ermeneutica, per ricostruire una narrazione altrimenti afasica.

http://ferdinandodubla.blogspot.com/2021/07/i-fraintendimenti-creativi-e-il.html

La storia non è lineare, non è progressiva, non v’è nessuna ‘astuzia della ragione’. Il ‘progressismo’ è infatti deriva-azione dello storicismo idealistico. Lo storicismo marxista è dialettico.

http://ferdinandodubla.blogspot.com/2020/06/storicismo-dialettico.html

 

* a cura di Ferdinando Dubla e Francesco Morello - laboratorio di filosofia politica - Filosofia Pop -Arci Calypso (Sava), anno antiaccademico 2024/2025, anno filosofico 425 d.GB., (dopo Giordano Bruno) 



Sava (TA), 20 febbraio 2025