Circondato da venti di guerra e, nei primi anni ‘60 del Novecento, dalla sua trasformazione possibile e da alcuni evocata, da ‘guerra fredda’ a conflitto globale nucleare, l’antropologo partenopeo intensificò i suoi studi e le sue analisi sulle apocalissi culturali e la ‘fine del mondo’, scritti e appunti che furono riordinati e pubblicati dodici anni dopo la sua morte, nel 1977, da Einaudi, con una prefazione di Clara Gallini. Erano, quegli appunti, uno sguardo sul mondo infinitamente grande e il microcosmo interiore, esistenziale, dell’essere umano. E la cultura, le culture, come mediatrici tra quello e queste. L’intento di superare, con lo sguardo etnologico filosofico, visioni parziali, a suo modo di vedere, della pluridimensionitá e onnilateralità dell’umano, proprio per la composizione di un necessario nuovo umanesimo, ha reso la sua riflessione non più solo legata e funzionale al riscatto dei gruppi subalterni, ma ‘disinteressata’ (fur ewig, aveva scritto Gramsci per se stesso) e profonda, perché capace di ipotizzare spiegazioni sulla ‘condizione umana’ che, sulla base delle indagini e ricerche documentali sulle classi subalterne del Mezzogiorno d’Italia e il loro mondo, durate per l’intera sua vita di studioso (e con le categorie interpretative in particolare dell’ethos del trascendimento e della destorificazione del negativo) si rivelava e manifestava nelle materiali condizioni dell’esistenza dei popoli e delle loro culture. Affatto una cesura, dunque, tra la ricerca e la riflessione analitica, ma una linea di continuità per l’indagine complessiva del rapporto tra storia, natura e cultura. A riprova di questo, un passo del primo testo impegnativo dell’antropologo, pubblicato da Laterza nel 1941, “Naturalismo e storicismo nell’etnologia”, in cui muove alla critica del naturalismo etnologico sperimentando gli strumenti dello storicismo crociano, dimostrando al contempo la sua inadeguatezza e insufficienza ermeneutica per l’auspicata apertura del confronto con le correnti antropologiche che si affacciavano alla contemporaneità, culturaliste e strutturaliste in primis. (+ cfr. Carla Pasquinelli, paragrafo in nota).
E’ bene
dunque che di questo grande autore dei Subaltern studies italiani, non venga
prodotto uno “spezzatino” [storicista crociano, meridionalista sul campo
(marxista, gramsciano), filosofo delle apocalissi culturali, dell’ontologia ed
esistenzialista (critico di Marx e Gramsci)], consegnandolo alle elucubrazioni
accademiche astratte e sterilmente sganciato dalla prassi e dunque da una
feconda interlocuzione con il presente. Possiamo sostenere che è proprio questo
passo scritto dal giovane de Martino a consegnarcelo per intero, tra l’inizio
del suo itinerario e l’apocalissi, tra l’angoscia esistenziale e il riscatto
dei subalterni, tra la fine dei paradigmi di civiltà e la ‘fine del mondo’.
IL DRAMMA
STORICO DELL’OCCIDENTE
“La nostra civiltà è in crisi: un
mondo accenna ad andare in pezzi, un altro si annunzia. Naturalmente, come
accade nelle epoche di crisi, variamente si atteggiano le speranze e variamente
si configura il “quid maius” che sta per nascere. Tuttavia una cosa è certa:
ciascuno deve scegliere il proprio posto di combattimento, e assumere le
proprie responsabilità. Potrà essere lecito agire male: non operare, non è
lecito. Ciò posto, quale è il compito dello storico? Tale compito è sempre
stato, ed ora più che mai deve essere, l’allargamento dell’autocoscienza per
rischiararare l’azione”.
E.de Martino, Naturalismo e storicismo nell'etnologia,
Laterza, 1941, pag.12
sul blog: Le
tre edizioni de ‘La fine del mondo’ di Ernesto de Martino
http://ferdinandodubla.blogspot.com/2020/07/interpretazioni-dellapocalisse-le-tre.html
Su Academia:
l’edizione Laterza 1941 di ‘Naturalismo e storicismo nell’etnologia” in formato
pdf
paragrafo in nota
Carla Pasquinelli su “Naturalismo e storicismo nell’etnologia” (1941) di
Ernesto de Martino
Cfr. anche http://ferdinandodubla.blogspot.com/2021/09/ernesto-de-martino-naturalismo-e.html
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