taranto, uno e due
metto qui i due pezzi usciti sul manifesto (21/05/2013) per presentare il nuovo libro di Franco Arminio, GEOGRAFIA COMMOSSA DELL’ITALIA INTERNA, dal 23 maggio in libreria.
La città di ferro
Taranto è una città apocalittica, ma è un’apocalisse grigia, a lento rilascio. C’è una fabbrica che si è presa il mare, la terra, il cielo della città e adesso si prende anche il lavoro. Bisogna fermarsi e ragionare su Taranto, si può enfatizzare l’importanza del lavoro o quella della salute, comunque siamo di fronte a una vicenda cruciale, che spiega molto del nostro passato e anche del nostro futuro.
L’apocalisse di Taranto prima che nelle cartelle cliniche è nella forma della città: una bellissima città della Magna Grecia circondata da una cintura di ferro, simbolo estremo di come l’Italia sia passata dalla civiltà contadina alla modernità incivile. Una storia di trasformazioni che hanno cambiato il volto dell’Italia, ma non i rapporti tra dominati e dominanti.
Gli operai di Taranto provengono spesso dalle campagne ioniche, sono arrivati in città spinti dal mito del posto fisso. Negli anni sessanta in quella che allora si chiamava l’Italsider andò a dir messa anche il papa. E valenti documentaristi filmavano una fabbrica che aveva nella sua grandezza il suo mito. Insieme all’industria è cresciuta la città nuova, sono nati i negozi, sono nati gli uffici del terziario. Tutto si è mosso in una direzione che pareva di avanzamento e che col passare del tempo si è configurata come un abbraccio mortale, da città sviluppata a città impolverata: il quartiere Tamburi e il cimitero stanno uno a fianco all’altro.
Ora la faccenda non può essere risolta con un intervento pubblico teso a rendere la fabbrica meno nociva. E bisogna sempre considerare che magari fra vent’anni scopriremo che era inaccettabile ciò che adesso consideriamo accettabile. In ogni caso il punto di partenza deve essere la condizione degli operai. Perdere il posto è una beffa ulteriore e insopportabile, dopo aver sopportato per così lungo tempo un lavoro pesante e pericoloso per la salute. Pericoloso già solo perché pesante e poi perché il padrone fino a quando può preferisce massimizzare le entrate e minimizzare le uscite. Ed è singolare che lo stesso padrone abbia una fabbrica al Nord che inquina la metà di quanto inquina al Sud. Forse è la stessa logica che porta il padrone a indennizzare gli operai vittime del petrolchimico di Marghera e non di quello di Brindisi. La stessa logica che ha portato a riempire di rifiuti tossici le campagne del casertano e di tanti altri luoghi del Sud: c’è sempre stato qualcuno, camorrista o semplice cittadino, che ha pensato al denaro più che alla salute, anche perché il denaro si prende subito, le malattie arrivano più lentamente.
A Taranto non c’è solo la fabbrica, c’è anche un meraviglioso museo archeologico, c’è una città vecchia sopra un’isola. È lecito chiedersi se è giusto mettere soldi su una fabbrica che non sarà mai innocua: l’acciaio non si fa coi guanti bianchi. È lecito chiedersi se non è il caso di orientare l’investimento anche in un grande piano di recupero del centro antico, per restituire alla Puglia e all’Italia un luogo importante.
La città deve da subito ricostruire le macerie del suo centro storico: nessuna città italiana ha un centro che sembra reduce da un bombardamento. Ci vuole una politica all’altezza di un luogo straordinariamente bello e complesso: c’è la fabbrica, ci sono gli operai, ma ci sono anche i contadini intorno alla città, anche loro hanno un lavoro, anche loro hanno diritto a essere tutelati. E hanno diritto a essere tutelati i bambini e gli anziani di Taranto. E anche gli ipocondriaci: le persone che tendono a sviluppare malattie immaginarie trovano tutte le condizioni per accrescere le proprie ansie. Se una mattina ti svegli con un linfonodo ingrossato fai presto a pensare che il tumore è venuto a visitare pure a te, fai presto a pensare che non è stato fabbricato nel tuo corpo, ma nella fabbrica che produce l’acciaio e la polvere rossa che avvolge i quartieri popolari e l’aerosol criminale che si diffonde per decine di chilometri.
Ci sono tre città: la città nuova, la città fabbrica, la città antica. Negli ultimi decenni le prime due hanno esiliato la terza sulla sua isola, le hanno assegnato il ruolo di accogliere lo spirito accidioso della città. Questo modello che cammina su una gamba sola non è più sostenibile. Lo deve capire la classe dirigente locale e nazionale mettendo a disposizione risorse non solo per il padrone, ma per i tarantini, costruendo un nuovo modello basato sull’equilibrio tra le diverse opportunità: il porto, il museo, la città vecchia. Dare salute a queste tre realtà di fatto significa rendere la città meno dipendente dalla grande acciaieria. Come si dice in questi casi, è una grande sfida, una sfida che non può ridursi ai soliti aggiustamenti che non aggiustano niente. E nonostante gli errori di questi giorni le uniche figure meritevoli di rispetto restano gli operai: quello che stanno facendo ci dice che esiste anche l’egoismo degli sfruttati, ma è sempre meno grave dell’egoismo degli sfruttatori.
Tromba d’aria quotidiana
La notizia era il padrone che voleva chiudere la fabbrica. Oggi il padrone della notizia è stata la paura. La tromba d’aria sembra venuta a rammentare chi comanda veramente all’Ilva, a Taranto, altrove.
L’atmosfera è una cosa viva, qualunque capriccio è possibile, dovremmo sempre ricordarcelo. Gli esseri umani quando parlano delle loro vicende devono imparare a considerare che si svolgono dentro un ambiente che non possono controllare. Il vento soffia dove, come e quando vuole. Troppo spesso parliamo dei nostri problemi, a partire da quello di come riprendere la crescita, come se lavorassimo in un luogo inerte, come se tutto dipendesse da noi e solo da noi. Non è così. Non siamo padroni del nostro corpo e ce ne accorgiamo quando ci ammaliamo. Non siamo padroni del mondo, anche se abbiamo la velleità di considerarlo nostro.
In un certo senso la tromba d’aria all’Ilva si è seduta al tavolo delle trattative rubando per un giorno la scena agli attori. La furia del clima è più grande delle rivendicazioni degli operai, delle titubanze della politica, delle miserie dei padroni. La nube nera sembra essere il fiocco che chiude quella confezione di sventure che è l’acciaio a Taranto. Basti pensare ai familiari degli operai morti di tumore. Non è un lutto come un altro. Anzi il lutto si fa fatica a elaborarlo, perché si vorrebbe avere giustizia, si vorrebbe che da qualche parte fosse certificata la causa del decesso. Questo pensiero immediatamente s’intreccia con quello degli operai “messi in libertà”. Per loro oltre alla rabbia per le incertezze sul futuro lavorativo, c’è la paura di ammalarsi a causa del lavoro che si è svolto. In un certo senso la tromba d’aria viene a sancire che noi umani possiamo pure fare i nostri negoziati, ma dobbiamo sempre ricordarci che il nostro è un gioco piccolo, che si svolge ai margini del grande quadro dell’universo.
In fondo Taranto colpisce perché non è una fabbrica dentro la città, ma è un città dentro la fabbrica. Una città prigioniera dell’acciaio e che anche per colpa di questa prigionia adesso è considerata il luogo d’Italia dove si vive peggio. La politica dovrebbe ricordarsi che in tutta Italia c’è un’emergenza ambientale spaventosa. Cos’è la pianura padana se non una grande azienda con delle case dentro? E quella striscia nera che si vede nel cielo quando saliamo su qualche rilievo cos’è se non la prova che si vive e si lavora nel veleno?
Non si possono impedire fulmini e trombe d’aria, si possono rendere assai più severi i limiti del nostro sviluppo che troppo spesso è solo un trampolino per lo sviluppo dei tumori.
Taranto tornerà a non fare notizia. La natura darà appuntamento per le sue rivincite su un altro scenario: il mondo della tecnica e delle merci rimane un mondo fragile.
Siamo chiamati a una politica d’impronta chiaramente ecologista per contrastare la tromba d’aria quotidiana che è il capitalismo nell’era dell’economia come unica religione del pianeta. I terremoti, le alluvioni non avvengono in un contesto idilliaco, ma in un paesaggio divorato da una socialità sfinita. È come se i disastri compiuti dalla natura non fossero che piccole chiose, picchi episodici di un disastro più grande che l’umanità intera compie ogni giorno.
Taranto è un luogo in cui il disastro è più concentrato. Durante la tromba d’aria all’Ilva qualcuno avrà pensato alla fine del mondo: fiamme e nuvole vorticose, il mare che sbatteva con furia, le persone che fuggivano.
La natura da queste parti non conosce oltranze, davanti alla città non c’è l’oceano, il luogo è così potente che dopo tanto oltraggio la bellezza è ancora evidente. La luce ionica filtra anche dietro un manto di nuvole nere. Non sono loro che hanno sporcato il cielo.