un articolo di Mario De Pasquale sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 13 ottobre 2015
giovedì 15 ottobre 2015
L'insegnamento della filosofia--il pericolo è la "società ignorante"
un articolo di Mario De Pasquale sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 13 ottobre 2015
SE
L’OCCIDENTE LIQUIDA LA FILOSOFIA
DI MARIO DE PASQUALE
L’Occidente mette in liquidazione la filosofia? Nel mondo
anglosassone non c’è posto per l’insegnamento della filosofia nelle scuole
secondarie. Rimane ancora in Grecia, Francia e Spagna, dove il governo Rajoi
intende ridurre le ore di insegnamento della filosofia e rendere obbligatorio
l’insegnamento della religione. Nel nostro paese si insegna filosofia per tre
ore settimanali solo nei licei classici e nei licei delle scienze umane, per
due ore in tutti gli altri indirizzi liceali. Nelle Università gli insegnamenti
filosofici tendono verso la marginalizzazione. Come mai? L’ethos neo-liberale economicistico negli ultimi decenni ha
alimentato una visione pragmatica e produttivistica del sapere e della formazione,
ritenuti come elementi di un processo di razionalizzazione e di innovazione del
modello sociale vigente di sviluppo, di per sé dato per scontato.
In questa prospettiva si può fare a meno della filosofia? La
risposta è ovvia: sì. L’insegnamento della filosofia contribuisce, alla pari di
altre discipline, alla formazione, alla promozione di competenze utili allo
studio, al lavoro, alla comunicazione, alla ricerca, all’esercizio della
cittadinanza. Non è indispensabile per implementare l’innalzamento del Pil.
Tuttavia, bisogna avere il coraggio di farsi un’altra domanda. Nei nostri tempi
difficili quale contributo possono dare la ricerca filosofica e l’insegnamento
della filosofia all’ampliamento della dignità umana, alla valutazione critica
delle attuali forme di vita e alla progettazione di altre migliori e più
giuste, alla formazione di persone e cittadini responsabili capaci di
contribuire alla loro costruzione?
Socrate, a chi gli diceva di giustificare il suo impegno di
filosofo, rispondeva: la vita gli sembrava degna di essere vissuta solo facendo
ricerca. Ricerca su cosa? Su chi siamo, sul senso delle cose e su come vivere,
su cosa è giusto
Siamo liberi se possiamo usare i sensi, immaginare e
ragionare in modo informato e coltivato
dall’istruzione
e cosa è buono, su qual è la forma migliore di vita. Qual è
la strada per la felicità? Aristotele rispondeva: quella di conoscere e
realizzare al meglio, nelle situazioni date, quello che si è, quello che si ha
dentro e quello che si desidera. La filosofa Martha Nussbaum riprende la strada
di Socrate e di Aristotele e cerca di individuare una funzione altamente civile
per l’impegno filosofico: tradurre concretamente in diritti universali i
contenuti di un’idea di dignità della vita umana. La vita è degna di essere
vissuta quando è consapevolmente interrogata, autenticamente progettata e
agita, quando consente alle donne e agli uomini uno sviluppo di capacità
fondamentali per la realizzazione di sé all’interno di una comunità e per la
ricerca della giustizia. Le donne e gli uomini sono liberi e vivono degnamente
se possono usare i propri sensi, immaginare, pensare e ragionare in modo
informato e coltivato da un’istruzione adeguata, comprendendo le cose per come
stanno, individuando o attribuendo loro un senso e un valore. La vita è degna
di essere vissuta quando ognuno è in grado di provare consapevolmente
sentimenti per persone e cose, è capace di esercitare la ragion pratica, di
formarsi un’idea di ciò che è bene e di ciò che è male, secondo cui progettare
il proprio modo di vita insieme con gli altri, le proprie scelte umane e
professionali, etiche e politiche.
In questa prospettiva, anche se può sembrare superficialmente
inattuale, bisogna avere il coraggio di dire che la pratica di ricerca chiamata
“filosofia” può essere per tutti una forma di chiarificazione consapevole, di
riappropriazione del personale sforzo di esistere secondo un senso (Ricoeur), e
un mezzo per realizzare una vita degna, a livello individuale e sociale. E non
appare chiaro che una disciplina così debba far parte del processo formativo
dei nostri giovani? Gli appelli in difesa della filosofia nel nostro Paese
hanno assunto di solito una veste difensiva; i filosofi prendono voce quando le
battaglie sono quasi perdute e spesso si distinguono per un’astratta difesa
dell’umanesimo, come sacrosanta reazione contro ogni riduzione tecnocratica
della complessità dell’esistere e contro
una “razionalità degli egoisti” che governa il presente (cfr. l’appello, del tutto condivisibile, uscito sul sito “La
Scuola” il 19 febbraio 2015, firmato da Roberto Esposito, Adriano Fabris e
Giovanni Reale, sottoscritto da moltissimi filosofi e associazioni
professionali dei filosofi e dei docenti di filosofia).
Ma il problema è più generale e non è solo dei filosofi. La
filosofia e il suo insegnamento seguono i destini tracciati dall’impotenza
della cultura nel progettare e nel
costruire per il presente e per il futuro le forme di vita e i modelli di
società più degni e più giusti.
mercoledì 14 ottobre 2015
Oskar Lafontaine scrive alla sinistra italiana
COME DIMOSTRA IL CASO-SYRIZA, NON C'E' POSSIBILITA' SE....
Care compagne, cari compagni,
la sconfitta del governo greco guidato da Syriza davanti all’Eurogruppo ha portato la sinistra europea a domandarsi quali possibilità abbia un governo guidato da un partito di sinistra, o un governo in cui un partito di sinistra sia coinvolto come partner di minoranza, di portare avanti una politica di miglioramento della condizione sociale di lavoratrici e lavoratori, pensionate e pensionati, e delle piccole e medie imprese, nel quadro dell’Unione europea e dei trattati europei.
La risposta è chiara e brutale: non esistono possibilità per una politica tesa al miglioramento della condizione sociale della popolazione, fintanto che la Bce, al di fuori di ogni controllo democratico, è in grado di paralizzare il sistema bancario di un paese soggetto ai trattati europei.
Non esistono possibilità di mettere in atto politiche di sinistra se un governo cui la sinistra partecipi non dispone degli strumenti tradizionali di controllo macroeconomico, come la politica dei tassi di interesse, la politica dei cambi e una politica di bilancio indipendenti.
Per migliorare la competitività relativa del proprio paese sotto l’ombrello dell’euro, restano al singolo paese sottoposto alle condizioni dei trattati europei solo la politica salariale, la politica sociale e le politiche del mercato del lavoro. Se l’economia più forte, quella tedesca, pratica il dumping salariale dentro un’unione monetaria, gli altri paesi membri non hanno altra scelta che applicare tagli salariali, tagli sociali e smantellare i diritti dei lavoratori, così come vuole l’ideologia neoliberista. Se poi l’economia dominante gode di tassi di interesse reali più bassi e dei vantaggi di una moneta sottovalutata, i suoi vicini europei non hanno praticamente alcuna possibilità. L’industria degli altri paesi perderà sempre più quote sul mercato europeo e non europeo.
Mentre l’industria tedesca produce oggi tanto quanto produceva prima della crisi finanziaria, secondo i dati Eurostat, la Francia ha perso circa il 15% della sua produzione industriale, l’Italia il 30%, la Spagna il 35% e la Grecia il 40%.
La destra europea si è rafforzata anche perché mette in discussione l’Euro e i trattati europei, e perché nei paesi membri cresce la consapevolezza che i trattati europei e il sistema monetario europeo soffrano di alcuni difetti costitutivi.
Come dimostra l’esempio tedesco, la destra europea non si preoccupa della compressione dei salari, dello smantellamento dei diritti dei lavoratori e delle politiche di austerità più severe. La destra vuole tornare allo Stato nazionale, offrendo però soluzioni economiche che rappresentano una variante nazionalistica delle politiche neoliberiste e che porterebbero agli stessi risultati: aumento della disoccupazione, aumento del lavoro precario e declino della classe media.
La sinistra europea non ha trovato alcuna risposta a questa sfida, come dimostra soprattutto l’esempio greco.
Attendere la formazione di una maggioranza di sinistra in tutti i 19 Stati membri è un po’ come aspettare Godot, un autoinganno politico, soprattutto perché i partiti socialdemocratici e socialisti d’Europa hanno preso a modello la politica neoliberista.
Un partito di sinistra deve porre come condizione alla sua partecipazione al governo la fine delle politiche di austerità.Tuttavia ciò è possibile solo se in Europa prende forma una costituzione monetaria che conservi la coesione europea, ma che riapra ai singoli paesi la possibilità di ricorrere a politiche capaci di aumentare la crescita e i posti di lavoro; anche se la più grande economia opera in condizioni di dumping salariale.
Presupposto imprescindibile a questo scopo è il ritorno a un sistema monetario europeo (Sme) migliorato, che consenta nuovamente di ricorrere alla rivalutazione e alla svalutazione. Tale sistema restituirebbe ai singoli paesi un ampio controllo sulle rispettive banche centrali e offrirebbe loro i margini di manovra necessari per conseguire una crescita costante e l’aumento dell’occupazione attraverso maggiori investimenti pubblici, così come per contrastare, tramite la svalutazione, l’ingiusto dumping salariale operato dalla Germania o da un altro Stato membro.
Questo sistema ha funzionato per molti anni e ha impedito l’emergere di gravi squilibri economici, come ne esistono attualmente nell’Unione europea.
Rivolgendomi ai sindacati italiani, tengo a sottolineare che lo Sme non è mai stato perfetto, dominato come era dalla Bundesbank. Ma nel sistema Euro la perdita del potere d’acquisto delle lavoratrici e dei lavoratori attraverso salari più bassi (svalutazione interna) è maggiore.
A me, osservatore tedesco, risulta molto difficile capire perché l’Italia ufficiale assista più o meno passivamente alla perdita del 30% delle quote di mercato delle sue industrie.
Silvio Berlusconi e Beppe Grillo hanno messo sì in discussione il sistema Euro, ma ciò non ha impedito all’Eurogruppo di imporre il modello delle politiche neoliberiste alla politica italiana.
Oggi la sinistra italiana è necessaria come non mai.La perdita di quote di mercato, l’aumento della disoccupazione e del lavoro precario, con la conseguente compressione dei salari, possono rientrare nei miopi interessi delle imprese italiane, ma la sinistra italiana non può più stare a guardare questo processo di de-industrializzazione.
Lo sviluppo in Grecia e in Spagna, in Germania e in Francia, dimostra come la frammentazione della sinistra possa essere superata non solo con un processo di unificazione tra i partiti di sinistra esistenti ma soprattutto con l’incontro di tante energie innovative fuori dal circuito politico tradizionale.
Solo una sinistra sufficientemente forte nei rispettivi Stati nazionali potrà cambiare la politica europea. La sinistra europea ha bisogno ora di una sinistra forte in Italia.
Vi saluto calorosamente dalla Germania e vi auguro ogni successo per il processo di costruzione di una nuova sinistra italiana.
* Oskar Lafontaine è stato ministro delle Finanze della Germania ed è l’ex presidente del Partito socialdemocratico tedesco (Spd e del Partito della Sinistra (die Linke)
pubblicato da Il Manifesto, 14 ottobre 2015
venerdì 9 ottobre 2015
Antonio Gramsci: relazione pedagogica ed egemonia
nel nuovo nr. di Lavoro Politico di ottobre, dedicato al nuovo umanesimo marxista, un articolo di Gramsci (dai Quaderni) su relazione pedagogica ed egemonia
Nota
La costruzione egemonica richiede, per Gramsci, una relazione pedagogica. Si tratta di formare le coscienze ed egli utilizza, nei Quaderni,
- il rapporto scolaro-maestro inteso in maniera contrapposta all’"atto" gentiliano che aveva informato tutta la riforma scolastica del fascismo; Gramsci si dimostra attento alle eco delle teorizzazioni pedagogiche attivistiche originate dal pensiero di J.Dewey (non sappiamo esattamente quanto conoscesse di quelle pratiche), ma soprattutto alla sua concezione dialettica dell’educazione e della formazione scolastica e intellettuale, che avrebbe dovuto avere come obiettivo l’"uomo onnilaterale" di Marx, sostanziato con un’emancipazione culturale delle classi subalterne.
- La concezione del partito come "intellettuale collettivo". Il moderno Principe forgia i suoi militanti, quadri e dirigenti nella lotta comune e nella discussione partecipata, nell’elaborazione che nasce dal continuo confronto con la finalità di ri-orientare il senso comune. Il partito che emancipa culturalmente è il partito comunista, che cura la formazione interna perché i ‘nuovi intellettuali’ possano svolgere il loro ruolo come ‘organici’ alla classe nelle fitte trame della società civile, dove, appunto, si costruisce l’egemonia. I diretti diventano dirigenti, prima della presa del potere, nello stesso processo rivoluzionario.
- (ferdinando dubla, LP ottobre 2015)
RELAZIONE PEDAGOGICA ED EGEMONIA
"(..) ogni atto storico non può non essere compiuto dall’"uomo collettivo", cioè presuppone il raggiungimento di una unità "culturale-sociale" per cui una molteplicità di poteri disgregati, con eterogeneità di fini, si saldano insieme per uno stesso fine, sulla base di una (uguale) e comune concezione del mondo (generale e particolare, transitoriamente operante – per via emozionale – o permanente, per cui la base intellettuale è così radicata, assimilata, vissuta, che può diventare passione). Poiché così avviene, appare l’importanza della quistione linguistica generale, cioè del raggiungimento collettivo di uno stesso "clima" culturale. Questo problema può e deve essere avvicinato all’impostazione moderna della dottrina e della pratica pedagogica, secondo cui il rapporto tra maestro e scolaro è un rapporto attivo, di relazioni reciproche e pertanto ogni maestro è sempre scolaro e ogni scolaro maestro. Ma il rapporto pedagogico non può essere limitato ai rapporti specificatamente "scolastici", per i quali le nuove generazioni entrano in contatto con le anziane e ne assorbono le esperienze e i valori storicamente necessari "maturando" e sviluppando una propria personalità storicamente e culturalmente superiore. Questo rapporto esiste in tutta la società nel suo complesso e per ogni individuo rispetto ad altri individui, tra ceti intellettuali e non intellettuali, tra governanti e governati, tra élites e seguaci, tra dirigenti e diretti, tra avanguardie e corpi di esercito. Ogni rapporto di "egemonia" è necessariamente un rapporto pedagogico e si verifica non solo nell’interno di una nazione, tra le diverse forze che la compongono, ma nell’intero campo internazionale e mondiale, tra complessi di civiltà nazionali e continentali." (..)
Cit. da Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, II, ed.critica a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, 1975, pag. 1331
domenica 4 ottobre 2015
Alberto Burgio: così fu travolta la sinistra comunista
da Il Manifesto edizione del 4 ottobre 2015
Ha fatto bene il manifesto a pubblicare il discorso in
memoria di Pietro Ingrao — un testo breve ma denso di implicazioni —
pronunciato da Alfredo Reichlin in piazza Montecitorio.
Colpisce in primo luogo il riferimento all’attenzione che il gruppo dirigente comunista e Ingrao in particolare sempre riservarono alla costruzione di strutture sindacali, politiche e culturali adeguate alle forme di vita che via via venivano affermandosi nell’esperienza della classe operaia e dei ceti subalterni. Si trattava dell’idea gramsciana del radicamento del partito nella vita reale del «soggetto». Ed era, forse più semplicemente, il riflesso della consapevolezza della necessità di trarre dal contatto diretto col mondo del lavoro gli elementi essenziali della lettura critica della società e, di qui, le direttrici della battaglia per l’emancipazione e la trasformazione.
Non è un passaggio trascurabile. Spesso e non senza unilateralità si parla di Ingrao come del dirigente comunista più attento alla fecondità dei movimenti e più interessato al dialogo con le forme emergenti della soggettività. E altrettanto spesso lo si ricorda come l’uomo del dubbio, insofferente al conformismo e alla disciplina imposta — non sempre per buoni motivi — nei partiti comunisti plasmati dall’esperienza della Terza Internazionale e della guerra antifascista. Una disciplina che Ingrao contrastava non in linea di principio, per assunti precostituiti. Ma perché vi ravvisava un pericolo di ripiegamento su sterili certezze, una clausola avversa alla ricerca fuori dagli schemi, all’ascolto spregiudicato della realtà. Nonché una modalità incompatibile con la libertà dei soggetti: al punto di scorgere proprio in quella rigidità ideologica e nella cifra autoritaria delle organizzazioni due tra le principali cause della sconfitta storica del movimento comunista nel secondo dopoguerra.
Quel che spesso tuttavia si dimentica è che quell’apertura e quella curiosità si coniugavano con la cura per la comunità del partito e con la coscienza della sua funzione indispensabile nell’elaborazione del soggetto e nella costruzione del conflitto di classe. Un’attitudine che si pone letteralmente agli antipodi dell’ideologia del partito leggero nel cui nome, dalla seconda metà degli anni Ottanta, si provvide a smantellare la struttura articolata del Pci, a sradicarlo dai territori e dalle maglie della relazione sociale, ad avviarne la trasformazione in partito d’opinione prima, in campo di concorrenza tra leader a fini elettorali poi e, finalmente, in uno strumento di comando politico scalabile dai più agguerriti portavoce dei poteri forti. Stavano a cuore a Ingrao l’apertura al confronto come la pratica del dubbio e la ricchezza della ricerca concreta. Ma non gli premevano di meno la saldezza dell’organizzazione come trama viva di relazioni umane, la sua compattezza e persino la salvaguardia delle sue ritualità tramandate e condivise nel corso del tempo.
Questo abito fu una delle ragioni della sua radicale estraneità alla metamorfosi imposta al Pci e poi alla sua liquidazione. Sulla scelta di Ingrao di «restare comunque nel gorgo» non si smetterà di discutere. Si trattò di una decisione pesante che molto influenzò le sorti del nascente movimento della rifondazione comunista e della sinistra di alternativa tutta nel lungo periodo. Ma quel dato di fatto, l’appartenenza culturale e antropologica alla storia delle grandi organizzazioni di massa del movimento comunista, resta. E getta sulla sua figura una luce forse, in qualche misura, tragica, se è vero che la decisione di stare nel Pds ne alimentò un non risolto travaglio.
C’è un secondo passaggio nell’orazione di Reichlin che merita un breve commento. A proposito della mondializzazione neoliberista egli ricorda come la sinistra italiana ne sia stata «travolta». Si trattò di una cesura epocale, che forse per questo Reichlin definisce «materia ormai degli storici». In effetti, così sulla profondità del mutamento, come su quel travolgimento non sussistono dubbi. Epperò ciò non può voler dire che il giudizio su quei processi e appunto su quel venirne travolti — quale che sia la lettura che si ritenga di darne — non sia anche squisitamente politico. Quindi urgente, qui e ora, per le responsabilità che coinvolge, rivela e pone in evidenza.
Ad ogni buon conto proprio su quel passaggio storico Ingrao insistette con forza a più riprese, invocando una revisione profonda dei quadri analitici ma al tempo stesso ribadendo l’esigenza di rilanciare la lotta per l’alternativa. La consapevolezza della portata della svolta conservatrice e della necessità di riaprire una ricerca lo indusse a respingere la proposta di restare alla presidenza della Camera alla fine degli anni Settanta, mentre già si avviava lo sfondamento neoliberista. E mai egli ebbe tentennamenti — questo oggi va ricordato, senza rifugiarsi in formule elusive o ecumeniche — nel valutare dove stessero le ragioni della modernità e del progresso, dove quelle della reazione e della violenza.
Questo è un nodo al quale a nessuno è concesso di sfuggire. Che va discusso senza reticenze. La vicenda dei gruppi dirigenti post-comunisti dagli anni Ottanta a oggi non si comprende senza riconoscere limpidamente che il giudizio da essi formulato sulla mondializzazione neoliberista fu clamorosamente sbagliato. E che esso non ha soltanto portato alla mutazione genetica delle maggiori organizzazioni politiche nate dallo smantellamento del Pci — al loro sradicamento dal terreno delle lotte del lavoro — ma ha anche, per ciò stesso, contribuito a stabilizzare l’egemonia della destra e a segnare, nella storia del paese, gravi regressi sul terreno delle conquiste sociali e delle garanzie democratiche. E del resto lo stesso Reichlin pare riconoscerlo là dove pensosamente ammette che chi ha diretto le forze maggiori della sinistra italiana non ha saputo custodire la storia del movimento operaio e di quella sinistra comunista di cui Ingrao è stato una delle guide più autorevoli e amate.
Colpisce in primo luogo il riferimento all’attenzione che il gruppo dirigente comunista e Ingrao in particolare sempre riservarono alla costruzione di strutture sindacali, politiche e culturali adeguate alle forme di vita che via via venivano affermandosi nell’esperienza della classe operaia e dei ceti subalterni. Si trattava dell’idea gramsciana del radicamento del partito nella vita reale del «soggetto». Ed era, forse più semplicemente, il riflesso della consapevolezza della necessità di trarre dal contatto diretto col mondo del lavoro gli elementi essenziali della lettura critica della società e, di qui, le direttrici della battaglia per l’emancipazione e la trasformazione.
Non è un passaggio trascurabile. Spesso e non senza unilateralità si parla di Ingrao come del dirigente comunista più attento alla fecondità dei movimenti e più interessato al dialogo con le forme emergenti della soggettività. E altrettanto spesso lo si ricorda come l’uomo del dubbio, insofferente al conformismo e alla disciplina imposta — non sempre per buoni motivi — nei partiti comunisti plasmati dall’esperienza della Terza Internazionale e della guerra antifascista. Una disciplina che Ingrao contrastava non in linea di principio, per assunti precostituiti. Ma perché vi ravvisava un pericolo di ripiegamento su sterili certezze, una clausola avversa alla ricerca fuori dagli schemi, all’ascolto spregiudicato della realtà. Nonché una modalità incompatibile con la libertà dei soggetti: al punto di scorgere proprio in quella rigidità ideologica e nella cifra autoritaria delle organizzazioni due tra le principali cause della sconfitta storica del movimento comunista nel secondo dopoguerra.
Quel che spesso tuttavia si dimentica è che quell’apertura e quella curiosità si coniugavano con la cura per la comunità del partito e con la coscienza della sua funzione indispensabile nell’elaborazione del soggetto e nella costruzione del conflitto di classe. Un’attitudine che si pone letteralmente agli antipodi dell’ideologia del partito leggero nel cui nome, dalla seconda metà degli anni Ottanta, si provvide a smantellare la struttura articolata del Pci, a sradicarlo dai territori e dalle maglie della relazione sociale, ad avviarne la trasformazione in partito d’opinione prima, in campo di concorrenza tra leader a fini elettorali poi e, finalmente, in uno strumento di comando politico scalabile dai più agguerriti portavoce dei poteri forti. Stavano a cuore a Ingrao l’apertura al confronto come la pratica del dubbio e la ricchezza della ricerca concreta. Ma non gli premevano di meno la saldezza dell’organizzazione come trama viva di relazioni umane, la sua compattezza e persino la salvaguardia delle sue ritualità tramandate e condivise nel corso del tempo.
Questo abito fu una delle ragioni della sua radicale estraneità alla metamorfosi imposta al Pci e poi alla sua liquidazione. Sulla scelta di Ingrao di «restare comunque nel gorgo» non si smetterà di discutere. Si trattò di una decisione pesante che molto influenzò le sorti del nascente movimento della rifondazione comunista e della sinistra di alternativa tutta nel lungo periodo. Ma quel dato di fatto, l’appartenenza culturale e antropologica alla storia delle grandi organizzazioni di massa del movimento comunista, resta. E getta sulla sua figura una luce forse, in qualche misura, tragica, se è vero che la decisione di stare nel Pds ne alimentò un non risolto travaglio.
C’è un secondo passaggio nell’orazione di Reichlin che merita un breve commento. A proposito della mondializzazione neoliberista egli ricorda come la sinistra italiana ne sia stata «travolta». Si trattò di una cesura epocale, che forse per questo Reichlin definisce «materia ormai degli storici». In effetti, così sulla profondità del mutamento, come su quel travolgimento non sussistono dubbi. Epperò ciò non può voler dire che il giudizio su quei processi e appunto su quel venirne travolti — quale che sia la lettura che si ritenga di darne — non sia anche squisitamente politico. Quindi urgente, qui e ora, per le responsabilità che coinvolge, rivela e pone in evidenza.
Ad ogni buon conto proprio su quel passaggio storico Ingrao insistette con forza a più riprese, invocando una revisione profonda dei quadri analitici ma al tempo stesso ribadendo l’esigenza di rilanciare la lotta per l’alternativa. La consapevolezza della portata della svolta conservatrice e della necessità di riaprire una ricerca lo indusse a respingere la proposta di restare alla presidenza della Camera alla fine degli anni Settanta, mentre già si avviava lo sfondamento neoliberista. E mai egli ebbe tentennamenti — questo oggi va ricordato, senza rifugiarsi in formule elusive o ecumeniche — nel valutare dove stessero le ragioni della modernità e del progresso, dove quelle della reazione e della violenza.
Questo è un nodo al quale a nessuno è concesso di sfuggire. Che va discusso senza reticenze. La vicenda dei gruppi dirigenti post-comunisti dagli anni Ottanta a oggi non si comprende senza riconoscere limpidamente che il giudizio da essi formulato sulla mondializzazione neoliberista fu clamorosamente sbagliato. E che esso non ha soltanto portato alla mutazione genetica delle maggiori organizzazioni politiche nate dallo smantellamento del Pci — al loro sradicamento dal terreno delle lotte del lavoro — ma ha anche, per ciò stesso, contribuito a stabilizzare l’egemonia della destra e a segnare, nella storia del paese, gravi regressi sul terreno delle conquiste sociali e delle garanzie democratiche. E del resto lo stesso Reichlin pare riconoscerlo là dove pensosamente ammette che chi ha diretto le forze maggiori della sinistra italiana non ha saputo custodire la storia del movimento operaio e di quella sinistra comunista di cui Ingrao è stato una delle guide più autorevoli e amate.
-- Alberto Burgio -- [Il Manifesto, 4 ottobre 2015]
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