Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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venerdì 31 luglio 2020

IN PUGLIA L’ALTERNATIVA C’È: la lista unitaria della sinistra di classe


CONTROCORRENTE ma nella giusta direzione
l’unità della sinistra di classe perche’ i suoi valori, i programmi, le idee, la lotta, vengano rappresentate nel Consiglio regionale Pugliese. Nella storia e nell’innovazione, tradizione e rivoluzione.
UNIRE è DIFFICILE, ma necessario.
Non delegare più il proprio destino, i propri bisogni, le proprie speranze, che torni la rappresentanza del lavoro, dell’ambiente e della democrazia costituzionale nel Consiglio regionale pugliese. Ricostruire la sinistra è possibile, bisogna dare forza alle idee, ai valori, ai programmi della vera sinistra di classe e di opposizione.
dateci la mano, saremo con voi ogni giorno.




giovedì 30 luglio 2020

Ernesto de Martino: Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, 1949


L'articolo che la rivista Società pubblicò nel nr. 3 del 1949 di Ernesto de Martino, rappresenta uno snodo fondamentale per la stessa biografia dell'etnologo napoletano e per plurime ragioni legate in generale alla storia dell'antropologia culturale: la ricezione del pensiero di Gramsci nel nostro paese attraverso l'utilizzo multidisciplinare di alcune importanti categorie concettuali, l'influenza dell'etnografia sovietica e delle sue metodologie, lo sviluppo di studi etnoantropologici per la ricerca sul campo nel Mezzogiorno d'Italia, la genesi del concetto di folclore (o folklore) "progressivo" (che sarà ripresa, discussa e allargata successivamente da A.M. Cirese e Luigi M. Lombardi Satriani ). Le monografie che de Martino studia per questo saggio (anni di collaborazione con Cesare Pavese per la "Collana Viola" di Einaudi) sono "La scuola sovietica nell'etnografia" di S.P. Tolstov e "Trent'anni di folkloristica sovietica" di L. Hippius e V. Cicerov, studiosi, tra l'altro, del linguista e antropologo russo Vladimir Jakovlevič Propp, analista e fenomenologo delle fiabe popolari, apparso nella Rassegna della stampa sovietica, nr.4-5, aprile-maggio 1949. 
La stessa avvertenza preliminare della redazione di Società è emblematica della ricezione degli studi demartiniani tra gli intellettuali impegnati nel PCI, tra cui Cesare Luporini, filosofo sempre aperto alle nuove suggestioni teoriche purchè rigorose e documentate, ma che in quel periodo storico stentava a renderle completamente 'organiche' alla linea politica piuttosto che funzionali alle classi subalterne in senso più ampio. 
- ferdinando dubla, luglio 2020



segnaliamo anche la recensione più documentata a riguardo 

su JSTOR

  • Stefania Cannarsa, 

Genesi del concetto di folklore progressivo. Ernesto De Martino e l'etnografia sovietica

da La Ricerca Folklorica, nr.25 (aprile 1992), pp.81-87

venerdì 24 luglio 2020

UNIRE comunisti e sinistra di classe


I comunisti e la sinistra di classe e d’opposizione difendono il lavoro, autonomo e subordinato,
nei settori pubblico e privato. Oggi essi non hanno rappresentanza.
Nessuna libertà umana è possibile senza la dignità del lavoro.
Nessuna democrazia è reale senza questa rappresentanza. Unire comunisti e sinistra di classe è compito necessario e urgente per la qualità della democrazia del nostro paese.
~ fe.d.

giovedì 23 luglio 2020

LO SGUARDO DI ROCCO


Nella 1^ed. del 2003 per i tipi della Nuova Editrice Oriente del libro di Ferdinando Dubla: A fare il giorno nuovo-Il nuovo ruolo dell'intellettuale meridionalista in Gramsci e Scotellaro e breve percorso antologico, è presente in allegato la postfazione di Peppe Bovino, scrittore esordiente, che non compare nella 2^ed. del 2015 (Chimienti ed.). 
Academia.edu la riproduce dalla copia-autore in quanto reperibile solo in alcune biblioteche. Citando Fortini, Pasolini e Dario Bellezza, Bovino coglie l'essenza poetico-letteraria dell'intellettuale di una civiltà contadina al tramonto, ma che apre la sua anima ad "istantanee che si fanno poesia in divenire, tesori da salvare dalle grinfie dell'omologazione dominante".

leggi o scarica il file 
https://www.academia.edu/43689463/Peppe_Bovino_lo_sguardo_di_Rocco_--_postfazione_a_Ferdinando_Dubla_A_fare_il_giorno_nuovo_1_ed.200

"A fare il giorno nuovo", 1ed. Nuova Editrice oriente, 2003


copertina e IV cop. della copia-autore





sabato 18 luglio 2020

Interpretazioni dell'apocalisse: le tre edizioni de LA FINE DEL MONDO di Ernesto de Martino


Le tre edizioni dell’opera postuma di de Martino, La fine del mondo-Contributo all'analisi delle apocalissi culturali (1977/2002/2019), meriterebbero un saggio bibliografico utilizzando lo stesso metodo storicistico dialettico tanto caro all’etnologo-filosofo napoletano. In particolare, le interpretazioni della sua allieva Clara Gallini, così diverse a distanza di 25anni (le prime due ed.). E’ merito dell’Accademia di Francia (École des hautes études en sciences sociales+) se l’ultima edizione del 2019, curata da Marcello Massenzio (presidente dell’Istituto Internazionale Ernesto de Martino) e studiata e introdotta anche da Daniel Fabre (l’antropologo francese, scomparso a Tolosa il 23 gennaio 2016, non ha però potuto completare il suo prezioso contributo) e Giordana Charuty, direttrice di studi in Etnologia religiosa dell’Europa all’ École pratique des hautes études di Paris + , ha potuto vedere la luce dopo anni di ricerche e riordino di carte,+ inglobando anche gli “scritti filosofici” pubblicati separatamente da R. Pastina per Il Mulino nel 2005 (e alcuni altri inediti, con qualche altra esclusione).
+“Un seminario organizzato all’École pratique des hautes études (EPHE), poi all’École des hautes études en sciences sociales (EHESS) ha accompagnato, dal 2013 al 2015, questo lavoro di edizione e di traduzione”, si legge nell’introduzione, pag.73. 

- Da ricercatore e appassionato studioso di de Martino, vorrei soltanto che di questo grande autore della cultura italiana, che si spera l’ed.2019 de La fine del mondo consacri definitivamente anche presso un pubblico più largo, non si faccia uno “spezzatino” [storicista crociano, meridionalista sul campo (marxista, gramsciano), filosofo delle apocalissi culturali, dell’ontologia ed esistenzialista (critico di Marx e Gramsci)], consegnandolo alle elucubrazioni accademiche astratte sterilmente sganciato dalla prassi e dunque da una feconda interlocuzione con il presente. 

Proponiamo, dall'ultima edizione, un passaggio importante di M.Massenzio sul "doppio sguardo", che ci sembra il tentativo più convincente di leggere olisticamente l'antropologia filosofica demartinaniana nel suo complesso unitario, sebbene non esaustivamente comprensiva dello sguardo storico-politico nel passaggio dall'umanesimo classico all'umanesimo etnografico; e una recensione del 2012 di Fabiana Gambardella alla prima edizione del 1977 sulla rivista "Scienza e Filosofia" (nr.8/2012). Quest'ultima rende conto di come sia importante, ancora per il presente, la celebre (e oggi contestata dagli autori di "scuola francese", ma la stessa ne riscriverà un'altra e diversa per l'edizione del 2002) introduzione della allieva demartiniana antropologa e prima presidentessa dell'Associazione Internazionale "De Martino", Clara Gallini, che colse gravi discontinuità nello scritto del suo maestro, proprio in riferimento al suo rapporto con l'impegno politico-sociale di impronta gramsciana e più generalmente marxista della triade "meridionalistica".

E se lo sguardo dell'etnologo napoletano non abbracciasse invece sia l'aspetto esistenziale-teoretico sia quello dell'impegno al riscatto delle classi subalterne, e, per questa via, dell'intera umanità liberata dalle paure apocalittiche e quindi in direzione di una liberazione da tutte le catene che la opprimono? Ad ogni modo, oltre le interpretazioni, è proprio questa la sua eredità oltre che il suo testamento. 

 ~ fe.d.


1. Il «doppio sguardo» dell’etnologo.(..) 

Per De Martino, l’etnologia raggiunge il suo scopo nella misura in cui la comprensione delle culture non occidentali suscita una nuova consapevolezza critica della civiltà occidentale, delle sue prerogative come dei propri limiti, nella prospettiva di superarli. In altri termini, lungi dall’essere un fine in sé, la conoscenza delle civiltà non occidentali deve stimolare il confronto critico fra «noi occidentali» e «gli altri», per far luce sulle scelte culturali che governano i percorsi storici degli uni e degli altri. De Martino resta fedele a tale approccio fondato sulla dialettica del «doppio sguardo», l’uno diretto verso l’esterno e l’altro verso l’interno; si tratta, piuttosto, di un solo sguardo, nel quale l’interno e l’esterno, il sé e l’altro da sé, sono coesistenti e complementari. La fine del mondo contiene alcune pagine, in particolare quelle sull’«umanesimo etnografico», che rappresentano il punto culminante di questo sistema di pensiero.“, Marcello Massenzio, intr. 2019 

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Pur nella sua frammentarietà quest’opera postuma può a buon diritto essere considerata, come afferma Chiara Gallini nella sua introduzione, un libro Summa, all’interno del quale confluiscono in veste di appunti sparsi, l’insieme delle tematiche che nel corso degli anni hanno occupato la ricerca di Ernesto de Martino. Il fascino di queste pagine sta tutto nel fatto che esse riescono, malgrado la loro incompiutezza, a comunicare in maniera coerente i maggiori punti di approdo teoretici dello scrittore. «L’opera si inscrive quindi in quel moto umanistico che, dopo l’epoca delle scoperte e della fondazione dei grandi imperi coloniali, trapassa dall’umanesimo filologico-classicistico all’umanesimo etnografico. Inoltre l’opera consente di riconsiderare in una più matura prospettiva la tematica del Mondo magico (il rischio di non poterci essere in nessun mondo culturale possibile), di Morte e pianto rituale nel mondo antico (la crisi del cordoglio nel mondo antico e nella civiltà cristiana), le ricerche etnografiche nell’Italia meridionale […] ma anche spunti e motivi di Naturalismo e storicismo nell’etnologia» (pp. 5-6).
L’analisi è sempre tesa a scandagliare mondi “altri”, da quello della psicopatologia, al cristianesimo delle origini, alle culture extra-europee, nell’intento preciso di indagare sulla più ampia questione dell’esserci nel mondo. Come sostenuto all’interno dell’introduzione dalla Gallini, da buon filosofo della morale il problema di de Martino: «non è più quello del “perché” l’uomo stia al mondo: al contrario, egli si chiede “come” l’uomo ci possa e ci debba stare. La sua istanza ontologica è di fatto vivificata e resa plausibile da un’altra più reale e attuale: quella etica, alla ricerca di nuove motivazioni storiche e laiche, dell’essere uomo nella storia» (p. XCII). L’attenzione rivolta a quel “come”, alle modalità attraverso cui la presenza stabilisce e ripristina di continuo il suo essere nel mondo, porterà de Martino a postulare quel principio trascendentale che fonda l’esistente, a priori inderivabile che consente all’umano di essere sempre e pienamente se stesso, movimento alla base di tutti i trascendimenti: «L’ethos del trascendimento è il compito primordiale e inderivabile che appunto fa passare dall’ordine della vitalità a quello dell’umanità cioè della valorizzazione intersoggettiva della vita. La vita come tale è incapace di prender distanza da se stessa oltrepassandosi nella cultura: l’energia oltrepassante che fonda l’umanità è quindi un élan moral primordiale, senza del quale la stessa base vitale, i singoli in quanto corpi, non potrebbero esistere indenni come singoli corpi umani» (p. 15). L’uomo in quanto tale, in ogni epoca storica è già sempre oltrepassante la natura, e il mondo che egli costruisce, per quanto precariamente posseduto, è già un mondo culturale: «L’uomo è sempre distaccantesi dalla natura, e non può mai saltare questo suo distaccarsi storico-culturale per raggiungere definitivamente la natura in sé» (pp. 645-646).
Ora tale tensione oltrepassante implica in sé anche il rischio di non esserci, che rappresenta per de Martino una possibilità antropologica permanente, che travaglia tutte le culture umane (p. 669). Nonostante ciò la fede che l’autore nutre rispetto alle possibilità dell’esserci, capace di restaurare orizzonti in crisi, risulta fuori discussione: «Certo il mondo “può” finire: ma che finisca è affar suo, perché all’uomo spetta soltanto rimetterlo sempre di nuovo in causa e iniziarlo sempre di nuovo […] il pensiero della fine del mondo, per essere fecondo, deve includere un progetto di vita, deve mediare una lotta contro la morte, anzi, in ultima istanza, deve essere questo stesso progetto e questa stessa lotta» (p. 629).
Se negli scritti precedenti l’ethos del trascendimento rappresenta l’energia valorizzante che emerge sempre e solo in momenti critici dell’esistenza, all’interno delle note preparatorie a La fine del mondo, l’elaborazione teoretica dell’ethos si fa più complessa: l’energia oltrepassante non è una risorsa a cui si attinge episodicamente per ripristinare una presenza a rischio di perdersi; essa rappresenta invece il movimento trascendentale che fonda l’individuo e che pertanto emerge sempre, giacché costituisce la sua modalità di stare presso il mondo, e si manifesta nella quotidianità, che è a ogni istante oltrepassamaento della vita nel valore, e che ci consente di guardare al mondo come casa, dimora, di sentirci in esso appaesati.
L’ethos postulato da de Martino è “trascendentale”. In realtà tale formulazione risulta abbastanza controversa: per de Martino difatti il trascendentale, più che identificarsi con la condizione gnoseologica di ascendenza kantiana, costituisce un a priori operativo, che consente a ogni istante all’umanità di costruire la propria impresa, di plasmare e disfare il mondo, per continuare a ricostruirlo nuovamente. Ma se tale ethos viene delineato secondo connotati storici, culturali, allora cessa di essere trascendentale. Tale aporia conferma, seppure in un contesto diverso, la tendenza dell’autore a rimanere in bilico tra un’esigenza di trascendentalismo (di chiara matrice crociana), e uno storicismo integrale.
La tensione etica è qualcosa che oltrepassa le singole individualità, consentendo la creazione di infiniti orizzonti culturali, che permangono al di là dell’esistenza dei singoli, garantendo loro, attraverso l’opera, l’immortalità.
Un filo rosso sembra tenere insieme tutta la riflessione demartiniana: esso si snoda coerente a partire dall’opera del 1948, Il mondo magico fino a La fine del mondo. Il mondo magico e La fine del mondo, l’inizio e la fine, quasi a voler indicare una sorta di percorso ideale, che si snoda attraverso la crisi di un mondo e di un io ancestrali, descritti come realtà condende, tutte ancora da costruire, sino a giungere alla crisi di un mondo già costruito e autocosciente che rischia di sprofondare nel baratro del non senso e del nichilismo.
Se c’è un filo che unisce le due opere, è possibile tuttavia delineare i contorni di una speculazione che va mutando nel corso del tempo e che prova ad attualizzarsi e a riflettere sul proprio presente. Anzitutto tra Il mondo magico La fine del mondo corre un arco di tempo di quasi un ventennio. Nella prima opera si descrive una realtà primigenia nella quale la presenza ancora tutta da costituire, si comporta come una eco del mondo. In tale dimensione storica la crisi si manifesta come “perdita nel mondo”: l’esserci, non ancora costituito come presenza unitaria, non percepisce il mondo come insieme di utilizzabili in virtù di un progetto, ma è al contrario assalito da un’ipersignificatività, nella quale tutto è simbolo, premonizione, tutto rimanda a qualcos’altro. Nell’ultima opera sono analizzati invece i caratteri di un mondo e di una presenza maturi, sentiti come dati, definiti e delineati. In tale dimensione di autocoscienza, la crisi si manifesta al contrario come “perdita del mondo”: esso perde di significatività, e quand’anche sia gravido di un eccesso semantico, rinvia a una significatività caotica e ostile, sfociante allo stesso modo nel nichilismo e nell’incapacità di azione costruttiva. La disincantata autocoscienza occidentale, dopo aver perso Dio, i simboli e i valori a esso connessi, sembra non riesca a trovare in se stessa quell’energia valorizzante capace di superare la crisi, e continua a trascinarsi, crogiolandosi nell’esperienza del non-senso.
Il mondo magico è stato scritto tra il 1944 e il 1945, in un’Italia devastata dalla guerra. De Martino fu protagonista attivo di quelle vicende, e proprio a questo periodo risale la sua militanza sul fronte del Senio: l’esperienza della guerra lo pose dinnanzi a un mondo in rovina, un mondo che sembrava aver dimenticato il patrimonio di esperienze e di valori di cui è intrisa la sua storia.
Le note preparatorie a La fine del mondo sono state redatte invece per la maggior parte nella prima metà degli anni ‘60, anche se alcuni di questi appunti sono precedenti. Siamo in pieno boom economico, nell’età della tecnica totalmente dispiegata, in cui la crisi della presenza si manifesta anche come alienazione dai prodotti del lavoro; siamo inoltre in un mondo diviso nei due blocchi politico-ideologici Usa-Urss, nel quale la guerra nucleare rappresenta una minaccia gravante sull’umanità intera. De Martino registra in questi appunti la crisi della civiltà borghese e dei valori che l’hanno lungamente sorretta, una crisi che l’antropologo definisce senza éschaton: «La “crisi” nelle arti figurative, nella musica, nella poesia, nella filosofia e nella vita etico-politica dell’occidente è crisi nella misura in cui la rottura con un piano teologico della storia e con il senso che ne derivava […] diventa non già stimolo per un nuovo sforzo di discesa nel caos e di anabasi verso l’ordine, ma caduta negli inferi, senza ritorno, e idoleggiamento del contingente, del privo di senso» (p. 471).
Sebbene l’attenzione all’apocalisse moderna sia l’esito di un excursus che si snoda attraverso lo studio delle apocalissi psicopatologiche, passando per il dramma dell’apocalisse cristiana, fino a giungere ai movimenti di decolonizzazione dei paesi in via di sviluppo e all’apocalisse marxiana, per de Martino la crisi che si sviluppa nel suo tempo manifesta caratteri inediti, che vengono analizzati attraverso l’analisi della cosiddetta letteratura della crisi, di matrice più o meno esistenzialistica. L’antropologo sottolinea il «diabolico gusto di descrivere con meticolosa accuratezza il disfarsi del configurato, lo spaesarsi dell’appaesato, il perder senso del significante, l’inoperabilità dell’operabile» (p. 468). In quest’opera cresce il numero degli interlocutori di de Martino: «Dal momento in cui è riconosciuto, l’assurdo è una passione, la più lacerante di tutte. Da Jaspers a Heidegger, da Kierkegaard a Chestov, dai fenomenologi a Scheler, sul piano logico e su quello morale, tutta una famiglia di spiriti […] si sono ostinati a sbarrare la via reale della ragione e a ritrovare il giusto cammino della verità» (p. 543). Esemplare a tal proposito risulta l’analisi de La nausea di Sartre, opera nella quale è descritto, in ogni sua manifestazione, quel sentimento dell’assurdo, dello spaesamento, che per de Martino incombe sull’intera civiltà occidentale. Il protagonista, Antoine Roquentin avverte che qualcosa è mutato nel suo mondo quotidiano; ciò che era abitudinario e domestico assume un senso di estraneità, di distanza. Questo “spaesamento” risulta evidente nella mutata percezione degli oggetti: spesso essi sembrano svuotati di realtà, inconsistenti, il mondo appare come un fasullo scenario di cartapesta smontabile da un momento all’altro. A questo “difetto semantico” degli oggetti, si contrappone il vissuto di “eccesso semantico”, in cui le cose diventano onniallusive, cariche di un’intenzionalità ostile, il mondo appare gravido di una miriade di significati caotici, indecifrabili e distruttivi. Per de Martino entrambi i vissuti rifletterebbero la crisi dell’energia del trascendimento, nella quale gli oggetti perdono la loro progettabilità operativa.
L’epilogo de La fine del mondo mostra chiaramente gli esiti della visione demartiniana «La costituzione fondamentale dell’esserci non è l’essere-nel-mondo ma il doverci essere-nel-mondo […] La mondanità dell’esserci rinvia al doverci essere nella mondanità, al doverci essere secondo un progetto comunitario dell’essere […] La catastrofe del mondano non appare dunque nell’analisi come un modo di essere al mondo, ma come una minaccia permanente, talora dominata e risolta, talora trionfante» (pp. 669-70). 




venerdì 17 luglio 2020

IL NOSTRO GRAMSCI -- Gramsci per leggere e cambiare il nostro presente


Nel 1991 diversi intellettuali del PCI che erano contrari al suo scioglimento, aderirono prima al Movimento poi al Partito della Rifondazione Comunista e si impegnarono a preservare l'eredità gramsciana da letture e interpretazioni moderate-riformiste (che iniziarono proprio dall'allora Fondazione Istituto Gramsci) funzionali alla liquidazione di una forte organizzazione comunista con autonomia teorico-politica. Tra questi, Andrea Catone (oggi direttore di Marx XXI) e Ferdinando Dubla (oggi direttore di Lavoro Politico), intellettuali impegnati dalla Puglia nella ricostruzione di un partito comunista di quadri e di massa. Il saggio, di Andrea Catone e Ferdinando Dubla, pubblicato sulla rivista Marx 101, nr.6/ottobre 1991, fu tradotto in portoghese sulla rivista Vertice! sul nr.43 dell'ottobre 1991 ("O NOSSO GRAMSCI - GRAMSCI PARA LER , E MUDAR, O NOSSO PRESENTE") e in catalano sulla rivista Realitat, nr.34 del gennaio 1993 ("NUESTRO GRAMSCI - GRAMSCI PARA LEER Y CAMBIAR NUESTRO PRESENTE"). Si compone dei seguenti paragrafi: - La concezione del partito comunista - Per l’analisi del capitalismo contemporaneo - La concezione del socialismo - Le contraddizioni insuperabili (la teoria della crisi) - Critica al sistema capitalista e alla sua egemonia culturale - Gramsci e le forme della transizione in Occidente (e limiti della prassi riformista) - Internazionalismo e vie nazionali (a proposito di "interdipendenza") - Una critica moderna dell’alienazione (un altro esito possibile dell’antieconomicismo).
 ora disponibile su Academia.edu

lunedì 13 luglio 2020

magazine di Lavoro Politico nr.1/ luglio 2020


nel numero 1 del magazine della rivista Lavoro Politico on line, luglio 2020, gli articoli introduttivi all’e.book e.pub in progress “Il doppio sguardo - marxismo e antropologia filosofica in Gramsci e de Martino” di Ferdinando Dubla: storicismo/antistoricismo superati dallo storicismo dialettico marxista, l’officina demartiniana e la filosofia della prassi, la formazione genetica della coscienza di classe in Gramsci.
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sfoglia e leggi su https://www.sfogliami.it/fl/206881/p4yz6ee3pmfh63t6sdtnptt6rvydg

sabato 11 luglio 2020

La libertà dell'intellettuale, la necessità del partito


CUMPANIS, rivista diretta da Fosco Giannini, numero 2 luglio 2020

 di Ferdinando Dubla
(storico del movimento operaio)
I temi della corrispondenza tra l’antropologo e filosofo Ernesto De Martino e il dirigente comunista Pietro Secchia

- Il libero pensiero nell'organizzazione comunista, centralismo e democrazia dell'intellettuale collettivo, la forma-partito adeguata alla nuova linea politica (evidentemente risultato di analisi differenziate rispetto alle fasi precedenti), sono solo alcuni, ma cruciali temi della corrispondenza tra il grande antropologo Ernesto De Martino e il dirigente comunista Pietro Secchia. Sintetizzando, l’antropologo, che rivendica un’autonomia della ricerca, uno spazio aperto per la cultura, meno centralismo e più democrazia, e il dirigente comunista considerato il più partigiano perché orgogliosamente “di parte”, nonché già esponente di primo piano del Comando generale delle brigate “Garibaldi”, che ritiene necessario anteporre il noi all’io, e il legame della cultura con le lotte politiche e sociali, in un partito che, se è giusto superi lo ‘stalinismo’ (lo voglia o no, perché la situazione storica è cambiata) vivifichi e attualizzi la lezione di Lenin.

Una corrispondenza che è particolarmente intensa in anni cruciali, nel 1956-1957, gli anni della crisi di Suez e dei processi di decolonizzazione, gli anni del XX Congresso del PCUS e del rapporto Krusciov, le scosse politico-sociali in Polonia e Ungheria e l'intervento sovietico, che provocano un dissenso nel partito italiano (e nella CGIL), l'VIII Congresso del PCI delle “vie nazionali” al socialismo.
Alcune note biografiche di contesto sono necessarie.

continua a leggere sulla rivista CUMPANIS 




Pietro Secchia (1903/1973)


sabato 4 luglio 2020

ANTROPOLOGIA e POESIA della CITTÀ OPERAIA ovvero la terra del rimorso nell’età del ferro (Pasquale Pinto)


presentazione:
Taranto: la città spogliata della sua vocazione culturale, la terra e il mare, con cui ha un rapporto atavico/ancestrale, per la sua mutazione antropologica nell’età del ferro, dal rimorso antico, nei versi del poeta-operaio Pasquale Pinto. (fe.d.)
“Taranto è vivace e mossa, la sua vita stradale è euforica; vi spira un’aria esilarante, stimolante, direi cantabile…Vive tra i riflessi in un’atmosfera traslucida adatta a straordinari eventi di luce. Questo porticciolo orientale, questa popolazione di pesci e molluschi, è uno dei miei migliori ricordi italiani’’
(Guido Piovene, Viaggio in Italia, 1957)
Chi parlerà di voi uomini rossi
senza età senza bestemmie?
Chi parlerà dei vostri Natali
accanto alla ghisa lontano dai canneti
ove vivono gli ultimi gabbiani?
Pasquale Pinto è solo un uomo
costantemente denunciato
dai rivoli delle vostre fronti

Pasquale Pinto, Il capo sull’agave, Edizioni Centro sociale Magna Grecia Taranto, 1979


TARANTO: “LA TERRA DI FERRO” DI PASQUALE PINTO
di Stefano Modeo 


Quando si parla di Taranto, bisognerebbe sempre fare un salto indietro nel passato, ricucire lentamente, passo dopo passo, i fili che l’hanno condotta al suo complesso e tragico presente. Ovviamente, la storia di questa città negli ultimi sessant’anni è strettamente intrecciata con quella della grande fabbrica e della sua produzione d’acciaio, per questo parlare di ogni cosa che riguarda la vita e la sua rappresentazione, come la letteratura ad esempio, non è possibile senza considerare la presenza all’orizzonte dallo stabilimento Italsider prima, Ilva poi e Arcelor Mittal oggi. Cercherò in queste righe di riconnettere i fili di un poeta, Pasquale Pinto, operaio dell’Italsider scomparso nel 2004 e di cui difficilmente si riescono a recuperare opere e memoria; con quelli della più grande fabbrica siderurgica d’Europa.

Partiamo dunque da un territorio di quasi duemila ettari, una superficie più estesa di quella dell’intera città, un paesaggio ferroso e fumante fatto di cemento e ciminiere, nastri e carriponte, carrelli e gru, colline di minerale e palazzine da cui non s’intravede niente e nessuno. Un luogo che di notte s’illumina come una città e da cui si sollevano nubi arancioni che colorano il cielo, cancellando le stelle, il nero del buio. E che al proprio interno contiene una comunità enorme di lavoratori, operai, maestranze, tecnici, che pullula e si muove in un’ulteriore città attraverso autobus, automezzi, camion, furgoni.

A sera gli altiforni si infiocchettano di luci
i loro ventri rossi commuovono la sera
scesa a spalmarli di fresco.

Un carro – siluro
da circa venti minuti
allevia in silenzio le loro pance.

Come una lucciola
che colleziona giacigli di luna
un addetto con la tuta d’argento
scruta il colorito della ghisa.[1]

Erano gli anni Cinquanta quando, in un Mezzogiorno che arrancava, dopo la guerra, bisognava intervenire con pratiche massicce d’industrializzazione, le quali potessero sopperire al gap esistente nei confronti di un Nord in volata verso il boom economico. I governi democristiani dell’epoca immaginavano che, attraverso procedure d’investimenti pubblici, costruzioni di strutture e infrastrutture, si potessero fronteggiare: emigrazione, criminalità e disoccupazione. Taranto, dopo essere stata funzionale durante la guerra attraverso la Marina Militare, si ritrovò dimezzati gl’investimenti al proprio Arsenale Militare e di conseguenza dovette fare i conti con la disoccupazione.

L’intuizione politica di quegli anni era di far emergere, attorno al colosso industriale, piccole e medie imprese capaci di sviluppare un mercato locale. Tuttavia quest’idea non tenne conto in alcun modo del tessuto cittadino, composto da pochi oziosi nobili e pescatori, ma anche della storia che l’aveva portata a quella conformazione. Fu dunque un’idea calata dall’alto che rivelò ben presto, l’assenza di una classe imprenditoriale capace e volenterosa di rischiare.
Nel 1960 si pose la prima pietra dell’Italsider, ma la produzione cominciò nel 1964 raggiungendo immediatamente un’enorme capacità produttiva: dai 3 milioni di tonnellate all’anno del 1964 si passò alle 4,5 milioni di tonnellate del 1970 e alle 11,5 milioni del 1975. Nel 1980 all’Italsider ci lavoravano 21.791 unità. Da quest’iniezione massiccia di modernità, Taranto subì uno sviluppo incontrollato sotto ogni aspetto: nacquero ad esempio numerosi quartieri periferici che accoglievano lavoratori da ogni parte del meridione, soprattutto dalla Basilicata, dalla Calabria e dal Salento, generando un’espansione edilizia su cui si cominciò a speculare. All’inizio del Novecento la città contava 60.000 abitanti, negli anni Ottanta circa 245.000.
Il giornalista Walter Tobagi in un lungo reportage su Taranto apparso sul Corriere della sera nel 1979 scriveva: « Taranto è la più prospera fra le città del Meridione: il reddito pro capite sfiora il milione e 300 mila lire, che grosso modo corrisponde alla media nazionale. »

Antonio Cederna invece, nel 1972, sempre dalle colonne del Corriere della sera la descriveva come: « Una città disastrata, una Manhattan del sottosviluppo e dell’abuso edilizio, tale appare Taranto allo sbalordito visitatore. Stretta nella morsa della speculazione privata e di un processo di industrializzazione che si realizza al di fuori di qualsiasi piano di interesse generale, essa può ben essere presa a simbolo degli errori della politica fin qui seguita per il Mezzogiorno. » e concludeva osservando: « Quello che più colpisce è la grettezza, la corta veduta, la mediocrità culturale che ha presieduto, a Taranto come altrove, alla politica per il Mezziogiorno. Bastava che, dei duemila miliardi investiti nell’industria, una percentuale anche modesta venisse destinata alla soluzione dei problemi della città (traffico, verde pubblico, lotta all’inquinamento, eccetera), per garantire ad essa un’ambiente, una qualità di vita quotidiana meno inumani dell’attuale. Invece per dirla in due parole, nemmeno un albero è stato piantato a difesa dei cittadini dei quartieri popolari affumicati dal centro siderurgico ».
Ma facciamo nuovamente un salto indietro agli anni Cinquanta. Taranto vive ancora il sogno di essere una sorta di capitale del Mezzogiorno. Legata alla grandezza appunto della Marina Militare, compare spesso nelle sale cinematografiche ne La settimana Incom ed è una delle piazze culturalmente più ambiziose del meridione. Da qui passano e scrivono: Carlo Bo, Giuseppe Ungaretti, Alberto Savinio, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Battista Angioletti, Aldo Palazzeschi, Felice Casorati.


“Taranto è vivace e mossa, la sua vita stradale è euforica; vi spira un’aria esilarante, stimolante, direi cantabile…Vive tra i riflessi in un’atmosfera traslucida adatta a straordinari eventi di luce. Questo porticciolo orientale, questa popolazione di pesci e molluschi, è uno dei miei migliori ricordi italiani’’
 (Guido Piovene, Viaggio in Italia, 1957)


In questo contesto culturale, infatti, comincia a muovere i primi passi Pasquale Pinto, classe 1940, il quale al termine degli anni Cinquanta, quasi ventenne, osserva la città attraversare una delle sue numerose svolte epocali. Scrive poesie, sulla rotta di Orazio e Virgilio. Tuttavia dai paesaggi bucolici magnogreci, dai tramonti e dai prati verdeggianti, nel 1964 è tra i primi a entrare in fabbrica come operaio e fare i conti con un mutamento antropologico, con quella realtà industriale. È per noi un punto di vista privilegiato Pinto, per diversi motivi.

Il primo è sicuramente quello di aver vissuto questo passaggio: dalla città umbertina e militare, che si cullava nelle idilliache sensazioni di trasporto lirico con una visione mediterranea e nostalgica, a quella in costante espansione, industriale e moderna.
E infatti appare in tutta la sua asettica manifestazione, nella sua poesia, il passaggio alla realtà nuova tecnologica: cattedrali di ferro, altoforni, colate di ghisa. E ancora il lavoro e la denuncia politica, le morti bianche.
È un momento epocale per il meridione, in cui si assiste al passaggio dall’artigiano, dal pescatore, dal contadino alla catena di montaggio, alla ripetitività, alla tecnica.
Sono le città stesse che cominciano a plasmarsi sul lavoro della fabbrica e a richiamare famiglie dalle campagne.

È nell’ora in cui la ghisa
scende in giallo nelle pance dei siluri
che io vedo uomini senza capo né braccia
prestarsi animo nei riverberi degli altiforni

Lì le aste di colate
sono carne rosa che la ghisa
avverte da tempo senza scomporre le sue vene

Chi parlerà di voi uomini rossi
senza età senza bestemmie?
Chi parlerà dei vostri Natali
accanto alla ghisa lontano dai canneti
ove vivono gli ultimi gabbiani?

Pasquale Pinto è solo un uomo
costantemente denunciato
dai rivoli delle vostre fronti[2]

Pinto in un decennio febbrile pubblica: Jonica nel 1971, poi In fondo ad ogni specchio nel 1976, Il Capo sull’Agave nel 1979. Infine dopo una lunga pausa La terra di ferro nel 1992. Di una pubblicazione, Il parco depresso, non conosciamo la data di pubblicazione, mentre grazie alle Edizioni della Provincia di Taranto vengono pubblicati Poemetti nel 1994 e I mari della corte nel 2003.

Lo notano e scrivono di lui Giacinto Spagnoletti, Libero de Libero, Michele Pierri, il quale lo definisce « poeta del macabro fiorito » e la sua poesia come una « ghigliottina sempre pronta a troncare le esaltazioni romantiche. ». Ma anche Giorgio Caproni, il quale scrive: « I versi di Pasquale Pinto hanno il pregio della genuinità, della schiettezza non offuscata da inutili orpelli o inquinamenti letterari. Un pregio certamente non comune che gli riconosciamo noi abituati a leggere quintali di versi. Dalle ultime raccolte poetiche trovo anzi questo poeta meridionale decisamente in progresso per le immagini che una volta lette rimangono indelebili nella mente. Nella poesia di Pasquale Pinto trovo intero ‘’l’incanto’’ della sua poetica che porrei in un’area tra Laforghe e Corazzini. Una poesia trasparentemente propria. Un altro punto a favore di questo poeta è la sua modestia: modestia che vuol dire coscienza e quindi maturità intellettuale. Sono certo che (per dirla con una orrenda parola) farà carriera. »

Un operaio
è caduto l’altro giorno
da un altoforno
70 metri
sempre in giù
sempre più giù
verso la terra dei vivi
salutata finalmente dal cielo.
La loppa tiepida
ha ripreso a fumare
col sangue delle narici.
Un tecnico
forse del nord
forse del sud
pieno di vita come il sole
gli si è chinato
con le mani di una madre
con le mani di tutte le madri
che attendono sugli usci gialli
come terra la pioggia di
settembre.

Sulle mense
c’è sempre un piatto
che non si decide a togliere
una giacca d’aria
e un viso in fondo ad ogni specchio.
Ed un cartellino con nessun orario.

Mentre
un addetto alle ferrovie
corre davanti ai vagoni
verso uno scambio
bollente d’estate
ghiacciato d’inverno
con vecchie parole
su una bandiera rossa.
In direzione gli uffici si gonfiano di carte
si dattiloscrive la nascita
la morte
l’infortunio accaduto
mentre tutti erano a tavola
e si discuteva sugli anni
da vivere.

Così comincia La terra di ferro. Probabilmente è la prima volta che in poesia, intesa come letteratura della città, si cominciano a denunciare le morti sul lavoro. La Taranto degli ori e della cultura magnogreca non esiste più. Ciò che si comincia a raccontare è la vita in fabbrica, l’alienazione della macchina, la figura dell’operaio e delle sue rivendicazioni politiche. Si rappresentava cioè quello che al nord esisteva già da diversi anni, la figura dell’operaio-massa: lavoratore generico di linea, scarsamente professionalizzato, posto alla catena di montaggio. Andava nascendo quella cultura industriale in cui gli operai si riconoscevano e rivendicavano i loro diritti. Tuttavia a Taranto non nacque una vera e propria classe operaia come potremmo immaginare quella torinese, ad esempio. Sempre Tobagi, infatti, a proposito della città ionica scriveva: « Il vero protagonista sommerso si chiama metalmezzadro. È metalmeccanico, lavora nello stabilimento Italsider grande due volte e mezzo la città. Abita nei paesi della provincia e trova il tempo per coltivare il pezzo di terra. Su trentamila stipendiati della più grande industria del Sud, almeno la metà appartiene alla categoria dei metalmezzadri. » e ancora « Nell’incredibile crogiolo dell’Italia sommersa, il metalmezzadro è una figura emblematica. È figlio della prima riuscita industrializzazione del Sud, dei diritti sindacali acquisiti in fabbrica, dei servizi sociali che garantiscono trasporti rapidi all’operaio pendolare. Ma documenta anche una tendenza nuova: il rapporto fra città e campagna, in certi casi, si va rovesciando a favore della campagna. »

È questo un punto cruciale della questione Taranto, che lascia le sue tracce ancora oggi. Buona parte degli operai infatti, vivono e sono della provincia. Questi, terminato il proprio turno di lavoro, mantengono vivo un rapporto con la campagna, con il proprio piccolo lotto di terra, con il paese e non con la città che non riconoscono in alcun modo come luogo identitario.

Ci trucchiamo di coke.
Dietro colline di carbone
abbiamo nascosto la nostra ombra
su un piazzale
un operaio
forse un ex contadino
rimuove una terra di ferro.
Da un pezzo
ha terminato
le sue
sigarette.
Una gru
si è capovolta sui binari.
40 cavalli
rovesciati senza un grido
nessun ventre è da ricucire.
Su un fianco
il suo numero
si meraviglia
del cielo.

I soccorritori
hanno evitato
di guardare in cabina.
Qualcuno è scivolato
sull’olio.
Il gruista
s’è inventato un titolo di giornale.

I versi di Pinto qui sembrano avere voce profetica, se ricordiamo la tragica fine di Francesco Zaccaria, ventinovenne, gruista, che nel 2012 in un giorno di novembre vide un tornado abbattersi sulla gru sulla quale lavorava. Non fece in tempo a scappare, il suo corpo fu cercato in mare per giorni. Solo sette anni dopo, sulla stessa identica gru, in condizioni meteo simili, trovò la morte allo stesso modo Cosimo Massaro, quarantaduenne, collega di Francesco Zaccaria. O Ciro Moccia, 42 anni, operaio dell’indotto, il quale mentre era a lavoro su un ponteggio senza parapetto, venne trascinato nel vuoto dal crollo di quest’ultimo. O ancora Claudio Marsella caduto dalla piattaforma di una motrice urtando il torace contro i respingenti di un vagone, durante le operazioni di aggancio di un carro ferroviario.
Potremmo andare avanti, la lista purtroppo è lunga.
Ma non è profezia, bensì uno stato troppo comune di cose.

In questo senso Pinto si iscrive a pieno titolo anche in un filone di letteratura operaia, insieme ad altri nomi illustri, pensiamo a Paolo Volponi, Ottiero Ottieri, Goffredo Parise o al più recente Luigi Di Ruscio. Poeti capaci di tradurre la condizione operaia in condizione umana. Il suo verso è breve, tagliente, scarno di figure retoriche, ritmato, essenziale, come la sua produzione. Un uomo dal carattere schivo, solitario, al riparo dalla mondanità e dai corteggiamenti letterari. Egli inaugura, probabilmente, una ricca letteratura che dall’insediamento della grande fabbrica ha cominciato a muovere i propri passi, consapevole di raccontare un luogo emblema della crisi ambientale ed ecologica, ma anche lavorativa, del diritto alla salute e alla vita. Sono numerosi i nomi di autori che, figli della generazione di Pinto, hanno compreso che Taranto potesse parlare al mondo: Alessandro Leogrande, Girolamo De Michele, Giancarlo De Cataldo, Cosimo Argentina, per citarne alcuni.

Soprattutto dunque, questo poemetto, La terra di ferro, è una testimonianza importante per chi vuole leggere le violente contraddizioni della questione Taranto, ma più in generale dell’industrializzazione al meridione alla luce della grave crisi sistemica ambientale – economica- politica e per quello che deve ancora venire. Affinché si possa recuperare la capacità di costruire una visione complessiva del Sud, partendo da un’analisi critica delle cose che possa stimolare la politica. Quello che vediamo oggi è il prodotto di ciò che è stato deciso addirittura sessant’anni fa. Da allora quella crisi non ha mai cessato il suo processo, continuando a generare: morte, criminalità, emigrazione, disoccupazione. E questo ci porta a riflettere, quanto meno, su come sono e saranno importanti e incisive le azioni prese oggi. Sarebbe importante riuscire a recuperare memoria del poeta Pasquale Pinto attraverso le sue opere, curarne nuove ristampe, affinché si rintreccino i fili di una narrazione che ora risulta spesso parziale, ma soprattutto esterna ai fatti e a quel mondo industriale.

Chiamo a raccolta i vivi
che vivono sui morti
per verificare tutte le vene
per aprire un dialogo di sguardi
perché da qualche parte si dice
le parole non servono più.
Forse la Poesia è terra di morti
tanto i vivi la chiamarono a giudizio
con la saliva amara dei loro denti d’oro.
O c’è qualcuno
che ha imparato a vivere senz’occhi
senza cuore per la sua terra
che confina coi pali nelle radici?

Bibliografia e sitografia


  • La terra di ferro, Pasquale Pinto, 1992, Comune di Taranto – Assessorato alla Cultura

  • Fumo sulla città, Alessandro Leogrande, 2013, Fandango libri

  • Dalle macerie, Alessandro Leogrande, 2018, Feltrinelli

  • Tarentinità, un’identità residuale, Roberto Nistri, 2012, Scorpione Editrice







[1] Pasquale Pinto, La terra di ferro, 1992, Comune di Taranto – Assessorato alla Cultura
[2] Pasquale Pinto, Il capo sull’agave, Edizioni Centro sociale Magna Grecia Taranto, 1979




venerdì 3 luglio 2020

LE ANTROPOLOGIE PARALLELE (le affinità elettive tra Gramsci e de Martino)


DOPPIO SGUARDO
è quello di ANTONIO GRAMSCI ed ERNESTO DE MARTINO, necessario per il riscatto delle classi subalterne, l’uno attraverso la scienza politica e la filosofia della prassi, l’altro attraverso la ricerca sul campo e l’antropologia filosofica, l’uno e l’altro impegnati in uno sforzo di interpretazione, sviluppano categorie ermeneutiche che attraversano l’essere-umano in tutte le sue dimensioni, implicitamente alla ricerca di quell’”uomo onnilaterale” di Marx, in cui convivono razionalità e irrazionalità, sentimento e ragione, e si intrecciano natura, storia e cultura. 
Non si tratta, a nostro avviso, di "accostare" le categorie di egemonia, senso comune o folclore con la crisi della presenza e l'ethos del trascendimento o la destorificazione del negativo, ma di leggerle in senso olistico, come "doppio sguardo" dell'unitarietà umanistica, storica ed esistenziale, che abbraccia la ricca molteplicità e la pluridimensionalità dell'essere umano, nella sfera materiale, relazionale, "spirituale", senza residui "misterici", se non l'occultamento tramite l'apparenza fenomenologica, segno dialettico strutturale e sovrastrutturale insieme della società alienata e mercificata del sistema capitalistico. E' così che il "doppio sguardo" può cogliere quello del bracciante di Minervino.
Il raffronto è diretto (esplicito) quando de Martino studia Gramsci sulle edizioni degli scritti del 1947, 1948 e del 1951, ma è indiretto (implicito) quando l'etnologo partenopeo riflette sui temi dell'antropologia legata alla sua ricerca sul campo e sull'antropologia filosofica che, in particolare negli ultimi anni, si rivolge più analiticamente alla cultura filosofica europea e internazionale. Ma è soprattutto uno sguardo parallelo, come ben articolato nell'interpretazione di Giovanni Pizza, che va nella direzione non tanto della continuità-discontinuità comunque ben rappresentate dall'analisi filologica, ma in senso olistico, unitario, in uno sguardo che, su entrambi i suoi lati, converge sul riscatto-liberazione della vita reale vissuta dagli esseri umani, dalla schiavitù delle condizioni materiali così come da quella riveniente dal tentativo costante di trascendere il proprio essere. (fe.d.)


da Giovanni Pizza: Gramsci e de Martino. Appunti per una riflessione.
in Quaderni di teoria sociale nr.13/2013, Morlacchi ed. 2013

estratti dalle pp. 81-86, 89-90, 96, 100,102,104, 106-107,110-111
"(..)
a partire dallo studio etnografico di comportamenti magici, de Martino giunse a problematizzare le stesse nozioni di realtà, di follia e di normalità.
Quando incontrò la pagina gramsciana, dunque, lo studioso del Mondo magico era ormai pronto a rivolgere lo sguardo antropologico dal mondo esotico a quello endotico: il «mondo grande e terribile», secondo la nota espressione gramsciana ricorrente nelle lettere a Tatiana Schucht [L 44, 52, 158, 217, 423]. (..)
In seguito all’amorevole e appassionata lettura [nota: avvalendosi della testimonianza di Vittoria de Palma, Pietro Angelini ricorda “l’amore con cui tenne per anni sul suo comodino le Lettere dal carcere” [Angelini 1995, 58]  delle Lettere [Gramsci 1947] e del primo volume dei Quaderni nella edizione Einaudi [Gramsci 1948], de Martino visse un momento di intensa condivisione delle tesi di Gramsci. La sconfitta del movimento operaio e contadino alle elezioni lo spinse a valorizzare maggiormente la centralità della questione culturale, strategica per valutare il ruolo degli intellettuali nella dialettica egemonica, nel privilegiare un’analisi dei rapporti di forza e di potere rispetto alla ortodossa sopravvalutazione dei rapporti di produzione.
L’emozione della lettura è restituita nei toni di alcuni brevi suoi scritti del 1948, che riflettono la “scoperta” di Gramsci. Scritti considerati minori, nella produzione dello studioso napoletano, ma che nel nostro caso appaiono molto utili in quanto direttamente rivolti a valorizzare nello spazio pubblico italiano alcuni propositi dell’autore dei Quaderni. Mi riferisco all’articolo Cultura e classe operaia, in Quarto Stato, la rivista di Lelio Basso [de Martino 1948b], e a tre scritti quotidiani: Guerra ideologica, La civiltà dello spirito e Il mito marxista, apparsi nell’Avanti! rispettivamente l’8, il 18 e il 29 agosto dello stesso anno [de Martino 1948cde]. In questi scritti, una prima acuta lettura demartiniana di Gramsci si offre non solo come elogio tempestivo dell’innovativo progetto di scrittura carceraria del prigioniero di Turi, ma anche come indicazione di una nuova via da percorrere, in ragione della comprensione immediata da parte di de Martino del carattere vivente del laboratorio italiano di Gramsci.(..)
"Attraverso Gramsci per la prima volta da parte di un militante italiano della classe operaia venne effettuato il tentativo di fare i conti con la storia culturale della nazione, con l’Italia che ebbe la Rinascenza, che non ebbe la Riforma, che dopo il Rinascimento ebbe la Controriforma, che cercò di risollevarsi a una funzione culturale universale attraverso il Risorgimento, e che tuttavia, dopo il 1870, si ripiegò quasi su se stessa, lasciando disperdere e isterilire i fermenti dell’età precedente; con l’Italia che si inserì di nuovo nella grande tradizione culturale europea attraverso l’idealismo storicistico, svolgendo e mandando innanzi la coscienza culturale della filosofia classica tedesca; con l’Italia concreta, storica, hic et nunc, determinata, con le sue strutture sociali, col suo Mezzogiorno disgregato e col suo Cristo fermo ad Eboli, secondo l’immagine che piacque a Levi. 
Per questa Italia Gramsci operò e scrisse, senza tuttavia mai spezzare il legame con “Ilici”, cioè col movimento proletario più avanzato, con l’avanguardia e la guida del movimento. Questo lavoro, appena iniziato da Gramsci, è ora che sia portato innanzi, sistematicamente svolto, sì da formare tradizione culturale, ma tradizione vivente, che aspiri a diventare ordine e organismo e si muova senza sosta verso questa meta" [de Martino 1993, 109].
È in questo saggio che egli evoca il programma intellettuale e civile di una “tradizione vivente”, l’esigenza di un “incremento del marxismo come esperienza vivente della classe operaia” in grado di porsi “in rapporto con la infinita varietà delle situazioni storiche concrete in cui la classe operaia è chiamata ad operare”.(..)
Il discorso avviato proseguì nei tre articoli apparsi sull’Avanti!. In Guerra ideologica, de Martino sottolineava come nella strategia di attacco che le classi reazionarie conducevano contro il movimento operaio assumesse “un particolare rilievo la lotta sul terreno culturale”. La fabbricazione degli stereotipi reazionari contro  i comunisti “trinariciuti” e “ottusi”, volti alla demonizzazione dell’avanguardia operaia designata come “malefica procuratrice di una sorta di imbestiamento generale” [de Martino 1993, 111],  ancora una volta era perseguita attraverso l’analisi delle ragioni che avevano determinato l’unificazione in blocco egemonico dell’idealismo e del cattolicesimo. Il tentativo demartiniano di aprire una lucida analisi di controffensiva è avviato nel nome di Gramsci: (..)
il “vivente” gramsciano è reso in chiave etnografica, si incarna in Puglia dove de Martino lavora come funzionario del partito socialista [cfr. Merico 2000].
Egli, infatti, richiama un enunciato di un bracciante di Minervino, un frammento di storia di vita, che ha immediatamente l’effetto di incastrare nella esperienza quella “immensa ipocrisia” della accusa idealista nei confronti del materialismo storico di “ricaduta nella barbarie della materia”, accusa che de Martino, attraverso le parole del bracciante delle Murge, sofferente per le sue drammatiche condizioni
materiali di esistenza, ritorce contro l’alta cultura italiana: “Noi dobbiamo metterci dal punto di vista del bracciante di Minervino, per il quale il mondo storico nel quale viviamo “dipende” di fatto dalla zolla, dal cibo e dal sudore: ma col bracciante di Minervino dobbiamo avvertire tutta l’angoscia connessa alla precarietà di una vita così poco umanamente vissuta” [ivi, 115]. Mettersi dal punto di vista del bracciante, non è un semplice invito a cambiare la prospettiva dello sguardo. Per un antropologo,  politicamente impegnato, è la indicazione di un nuovo progetto di studio e di lavoro, il cui fine è una comprensione concreta, etnograficamente fondata, della dialettica egemonica italiana. (..) 
 Lo studioso che più di ogni altro incarnava, in quel momento genetico italiano, l’esigenza di un “passaggio dal sapere al comprendere al sentire e viceversa dal sentire al comprendere al sapere” [Gramsci 1948 (1996, 148), Q 451]. Si trattò di un passaggio dalla filosofia all’antropologia, dalla politica all’etnografia e viceversa, nell’intento di situare la conoscenza in contesti reali e costruire la teoria sempre a partire dalla esperienza di una ricerca vivente, condivisa, quindi impegnata e democraticamente incisiva già sul piano epistemologico.
Quelle parole dovettero costituire un incontro straordinario per lo studioso del mondo magico che muoveva dal presupposto di “sentire e comprendere” le più remote presenze umane, individuali e collettive, prodotte da diverse forme di vita culturale.(..)
Dalla lettura di Gramsci de Martino trasse un decisivo sostegno e alcune specifiche direzioni di marcia. Fu in quegli anni che egli maturò definitivamente la consapevolezza di come la centralità della critica culturale gramsciana potesse coincidere con l’etnografia, la “prassi” della ricerca antropologica. (..)
L’intero decennio che va dal 1949 al 1959 è quello delle sue più importanti ricerche sul Mezzogiorno,
fra la Lucania e la Puglia, nelle quali si riflette in più di una occasione una assimilazione personale e creativa della impostazione gramsciana. Nelle opere che costituiscono l’esito della ricerca etnografica nel Mezzogiorno, Gramsci non è sempre riferimento centrale, ma appare agente spesso in maniera non secondaria, ancorché implicita, in una metodologia di ricerca storica e antropologica.(..)
Si trattava in fondo della messa a punto etnografica del progetto gramsciano di una antropologia degli intellettuali, che de Martino seguì al punto da criticare espressamente ogni tentativo degli studiosi del folklore e delle tradizioni che lo avevano preceduto di separare una dimensione colta ed egemone da una dimensione popolare e subalterna. Questa dicotomia egemone-subalterno (pure spesso erroneamente attribuita a Gramsci anche nella antropologia italiana post-demartiniana), era totalmente inesistente nell’autore dei Quaderni, e de Martino ne fu nettamente consapevole. Nelle pagine stese a Turi, Gramsci deliberatamente non aveva mai delineato in maniera compiuta, sistematica o teorico-scientifica, la nozione di egemonia e men che meno la aveva identificata con la categoria di dominio. La complessa accezione dialettica gramsciana dei processi egemonici non prevedeva certo una contrapposizione egemonia-subalternità essendo l’egemonia un processo incessantemente in divenire, caratterizzato quindi dalla lotta per la ricomposizione delle forze disperse attraverso iniziative di volontà collettiva volte al mutamento dei rapporti di forza vigenti e alla fabbricazione di un senso comune nuovo, fondato su un progresso intellettuale critico di massa. L’insofferenza per gli schematismi dicotomici rappresenta dunque una affinità elettiva fra Gramsci e de Martino (..)
 de Martino sembra seguire una linea gramsciana quando nella Terra del rimorso scrive della necessità di studi antropologici “molecolari”.
Il termine molecolare ricorre nel testo più volte. Osserviamone, brevemente per quanto possibile, il contesto. Molecolare è qui usato sette volte al singolare, più una volta al plurale, molecolari, e una volta nella forma avverbiale molecolarmente.(..)
Vi è in Gramsci piena consapevolezza che la dimensione molecolare è centrale per la comprensione dei processi di incorporazione del senso comune e in definitiva per lo studio dei rapporti di forza che fabbricano la realtà e costituiscono il terreno della trasformazione. La sua attenzione è rivolta allo studio minimale delle forme incorporate della statualità nel quotidiano, per comprendere la vita intima dello Stato, l’efficacia politico-fisica della sua permanente attività culturale.(..)
Se nello studio delle forme culturali de Martino si servì di Gramsci per una sua teoria della cultura come prassi, quando invece si dispose alla stesura del suo lavoro rimasto incompiuto, La fine del mondo, studiando il rapporto fra apocalissi culturali e apocalissi individuali psicopatologiche, non riconobbe più in Gramsci un interlocutore diretto, ma anzi ne prese le distanze.(..)
In questo senso emerge la sensazione che il confronto fra Gramsci e de Martino sia, a ben vedere, un confronto fra due antropologie parallele. Entrambe si rivelano di avanguardia per i loro anni, ed entrambe conservano tratti di vitalità e attualità alla luce del senso comune delle discipline antropologiche contemporanee. Ora si potrebbe dire, metaforicamente, non già che de Martino incorpora
Gramsci all’indomani della sua lettura, ma che Gramsci aveva già in sé il suo de Martino
(nota 32. È interessante notare come in almeno due occasioni de Martino, senza fare riferimento
alle analisi gramsciane, toccasse specifiche questioni che Gramsci aveva già sviluppato
nei Quaderni. Per esempio, riguardo l’analisi critica del simbolo mitico dello sciopero in
Georges Sorel o nella valutazione del millenarismo di Davide Lazzaretti: cfr., nel primo caso, de
Martino 1962, 57-59; 1977, 421-422, 445, con Q 951, 1556, e cfr., nel secondo caso,
de Martino 1962, 92, con le raffinate analisi gramsciane del lazzarettismo Q 297-299, 1146-
1147, 2279-2283. Un analogo confronto parallelo potrebbe essere svolto fra le diverse valutazioni
di Freud, nelle differenti fasi della riflessione demartiniana e nelle acute notazioni
critiche gramsciane presenti nei Quaderni e nelle Lettere [per la bibliografia e alcuni spunti
antropologici sulla critica a Freud da parte di Gramsci cfr. Pizza 2003].) (..)
La distanza ravvicinata delle prime letture diventa una vicinanza ormai lontana. In tale quadro, la nostra lettura parallela genera connessioni non più dirette o reali, ma prodotte da una persistente “aria di famiglia” che può spingersi a sovrapporre le due figure verso un capovolgimento di ruoli inaspettato. Chi è il politico? Chi l’antropologo?(..)
Forse la vicinanza dell’antropologia alla filosofia, e l’inatteso capovolgimento di ruoli, trova in quella caratteristica vivente del pensiero italiano una motivazione che supera la ragione genealogica e resta aperta alla vita stessa.
In fondo era stato Gramsci stesso a qualificare come “una “antropologia”” la sua specifica declinazione della filosofia della prassi.

Riferimenti bibliografici

 P.Angelini, 1995 Gramsci, de Martino e la crisi della scienza del folklore, in G. Baratta, A. Catone
(a cura di), Antonio Gramsci e il “progresso intellettuale di massa”, Edizioni Unicopli, Milano, pp. 53-78.

A.Gramsci,
1947 Lettere dal carcere, Einaudi, Torino.
[L]. 1996 Lettere dal carcere 1926-1937, a cura di A. A. Santucci, Sellerio, Palermo, 2
voll. /
1948 Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino [nuova
edizione Editori Riuniti, Roma, 1977, III edizione 1996].
[Q]. 1975 Quaderni del carcere, edizione a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 4 voll./

Ernesto de Martino
 1948b Cultura e classe operaia, Quarto Stato, III, 1, pp. 19-22 [poi in de Martino
1993, 103-109].
1948c Guerra ideologica, Avanti!, 8 agosto [poi in de Martino 1993, 111-113].
1948d La civiltà dello spirito, Avanti!, 18 agosto [poi in de Martino 1993, 115-117].
1948e Il mito marxista, Avanti!, 29 agosto [poi in de Martino 1993, 119-121].
1962 Furore, simbolo, valore, Il Saggiatore, Milano.
1993 Scritti minori su religione, marxismo e psicoanalisi, a cura di R. Altamura-P.
Ferretti, Nuove Edizioni Romane, Roma.

Merico, M.
2000 Ernesto de Martino, la Puglia, il Salento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli.

Pizza, G.
2003 Antonio Gramsci e l’antropologia medica  ora. Egemonia, agentività e 
trasformazioni della persona, AM. Rivista della Società italiana di antropologia medica, 15-16, pp. 33-51.