Subaltern studies Italia

L’analisi e la classe - a cura di Ferdinando Dubla

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venerdì 24 dicembre 2021

RANAJIT GUHA E I SUBALTERN STUDIES

 


di  Bernardo Michael, Messiah University

 

INTRODUZIONE

Fra il nome di Ranajit Guha e il Subaltern Studies Collective sussiste un indissolubile legame:  non solo allo storico bengalese è infatti attribuita la fondazione formale del gruppo, ma il suo saggio “On some aspect of the historiography of colonial India” (1)  è giunto ad essere riconosciuto come vero e proprio manifesto teorico, oltreché metodologico, del collettivo. Questo testo permette di comprendere lo spirito che anima la ricerca promossa dai Subaltern Studies, di coglierne l'originalità e, soprattutto, di rintracciarne le origini all'interno del contesto politico e culturale indiano. In esso Guha si dimostra ben consapevole della natura rivoluzionaria che caratterizza l'approccio dei Subaltern Studies alla storiografia indiana: egli propone l'apertura di nuovi spazi per la ricerca storica, fuori da quegli schemi tradizionali, ereditati dal dominio coloniale, che ancora impediscono all'India di «sviluppare un discorso alternativo» (2)  sul proprio passato.
In generale si può dire che la critica di Guha sia rivolta alla classe politica che si era andata a sostituire all'impero inglese alla guida del paese, incapace di elaborare un nuovo sistema di valori su cui impostare la propria azione e perseguire l'obiettivo di costruzione della nazione.
Volendo assumere un punto di vista più ravvicinato, tuttavia, e soprattutto tenendo in considerazione la biografia dell'autore, riesce difficile non riconoscere come principale destinatario del severo rimprovero l'intero ambito della sinistra organizzata. Sebbene il Partito del Congresso svolgesse un ruolo pressoché egemone sul palcoscenico politico indiano, nell'ambito di una lotta per l'indipendenza che aveva individuato nella mobilitazione di massa uno strumento fondamentale,  il Partito Comunista dell'India aveva comunque avuto modo di ritagliarsi un ruolo piuttosto rilevante.
Forte della propria tradizione, in un clima politico scevro da seri conflitti e improntato piuttosto alla solidarietà reciproca tra le diverse forze nell'ottica della costruzione nazionale, il CPI si sarebbe infatti dovuto impegnare per una nuova elaborazione della dottrina marxista al fine di fornire una propria alternativa alle strutture imposte dal dominio coloniale. Le attenzioni del partito risultarono invece evidentemente rivolte altrove, tanto che nel 1964 esso giunse addirittura alla scissione.
Messa di fronte alla sfida di costruire per la neonata Repubblica un nuovo assetto culturale prima ancora che politico, la nuova classe dirigente finì insomma per dimostrarsi sempre più restia al cambiamento, rifiutando di lasciarsi definitivamente alle spalle la vecchia configurazione elitaria di derivazione coloniale. Il sistema di potere che stava emergendo finiva insomma per proseguire quel «dominio senza egemonia» (3) che aveva caratterizzato lo stato coloniale. L'attenzione di Guha si focalizza pertanto su quelle manifestazioni che attestano questa crisi strutturale, mettendo in luce la delusione che percorreva ampi strati della popolazione, frustrati nelle proprie aspettative di cambiamento. La rivolta contadina di Naxalbari (1968-1971) viene assunta come simbolo di quella ormai incontenibile insofferenza.
La forza di questo movimento nacque dalla delusione di due generazioni nei confronti della classe di governo e degli elementi dominanti della società, vale a dire l'autorità a tutti i livelli.
La generazione più anziana era delusa perché i governanti non avevano mantenuto le promesse di un futuro migliore che, quando erano a capo del movimento nazionalista, avevano usato per mobilitare le masse a combattere per l'indipendenza. La generazione più giovane era delusa perché i partiti, il governo (...) non avevano saputo assicurare loro un futuro meno cupo del passato in cui avevano trascorso l'infanzia. (4)
Vediamo pertanto come Guha legga in questo tipo di insurrezione un atto di rivolta contro l'intero sistema, contro “l'autorità in generale”, dentro cui non viene fatta distinzione tra le diverse coalizioni politiche. Tali riflessioni sulle modalità e motivazioni del dissenso popolare, con le quali concludiamo questo breve quadro del contesto storico in cui viene concepito il progetto dei Subaltern Studies, ci offrono la possibilità di collegarci ad un altro elemento essenziale per definire e comprendere a pieno il lavoro del collettivo.
In un certo senso, prima ancora del saggio di Guha, una chiara impostazione progettuale può essere riconosciuta nella stessa denominazione che il gruppo sceglie di adottare. La scelta di designare il proprio approccio alla storia dal basso col termine subaltern è un'evidente dichiarazione dell'appropriazione che questi studiosi realizzano nei confronti delle lezioni di
Antonio Gramsci.
Tra i primi marxisti occidentali a manifestare un interesse autentico per la cultura popolare, il pensiero di Gramsci offriva infatti un ampio quanto prolifico repertorio concettuale su cui era possibile fondare un serio tentativo di superare quei confini, tracciati dalla cultura coloniale e ancora difesi dalla tradizione nazionalista, entro cui si continuava a limitare l'interpretazione della realtà.
La ricezione di Gramsci in India è legata alla prima traduzione dei suoi scritti in inglese per opera Louis Marks del 1957 (5), sebbene l'accoglienza riservatagli dalla maggior parte degli ambienti di sinistra si rivelò in questo primo momento piuttosto tiepida. La presenza di Gramsci nel dibattito intellettuale indiano si consolida solo quasi un decennio più tardi grazie a Susobhan Sarkar (6), direttore del dipartimento di storia della Jadavpur University di Calcutta presso il quale, negli stessi anni, svolgeva la propria attività accademica lo stesso Ranajit Guha. Quest'ultimo, nel concepire e promuovere l'attività del Subaltern Studies Collective, dimostra pertanto di raccogliere molto positivamente la lezione, oltreché la vera e propria sfida lanciata dal proprio maestro di un profondo rinnovamento della storiografia indiana, per fronteggiare il “fallimento della borghesia indiana di parlare per la nazione” (7).
Il gruppo dei Subaltern Studies diventa così luogo di incontro e collaborazione per diverse generazioni di studiosi, di varia estrazione sociale ed accademica, che nel 1982 concretizza il proprio lavoro con la pubblicazione del primo volume di “Subaltern Studies: writings on South Asian history and society”.


NOTE INTRODUZIONE

 

1 Ranajit Guha, On Some Aspect of the Historiography of Colonial India, in «Subaltern Studies I: writings on South Asian history and society», 1982, pp. 1-8.
2 Ibidem

 

3 Ranajit Guha, Dominance without Hegemony. History and Power in Colonial India, Cambridge, Harvard University Press, 1997.
4 Ranajit Guha, Omaggio a un maestro, in Gramsci, le culture e il mondo, a cura di Giancarlo Schirru, Roma, Viella, 2009.
5 Antonio Gramsci, The Modern Prince and Other Writings, Londra, 1957.
6 Susobhan Sarkar, Thought of Gramsci, in «Mainstream», 2 novembre 1968.

 

7 Ranajit Guha, On Some Aspect of the Historiography of Colonial India, in «Subaltern Studies I: writings on South Asian history and society», 1982, pp. 1-8.

 

 

 

RECENSIONE


di Bernardo Michael,  su Journal of World History vol. 15, n. 4, dicembre 2004


RANAJIT GUHA, LA STORIA AI CONFINI DELLA STORIA DEL MONDO, MILANO, SANSONI, 2003


- Edito nel 2002, “La Storia ai Confini della Storia del mondo” raccoglie i testi di tre conferenze che Ranajit Guha tiene nel 2000 all'Italian Academy for Advanced Studies presso la Columbia University. Un breve intervento introduttivo e l'epilogo forniscono la cornice entro cui i diversi interventi sono accorpati per comporre una profonda riflessione sui limiti della storiografia indiana moderna, dominata da un approccio elitario di indiscutibile retaggio colonialista, e sulla possibilità di sviluppare una valida alternativa ad essa.
Il dominio coloniale si era infatti appropriato del passato indiano ed era riuscito a tradurlo in un potente strumento di legittimazione, sopprimendo gli schemi entro cui gli indiani tradizionalmente intendevano la propria storicità e andandoli a sostituire con strutture moderne ed occidentali.
I modi in cui queste ultime influivano sulla produzione storiografica, attraverso la produzione di una vera e propria epistemologia, costituivano già una delle tematiche principali del lavoro di Guha, il quale tuttavia intende ora conferire una maggiore profondità alla propria riflessione, concentrandosi su un'inedita critica della tradizione filosofica cui tali strutture sono da ricondurre.
Secondo Guha è infatti quando mai evidente come il filtro attraverso cui il dominio coloniale osservava e interagiva con il contesto politico-culturale indiano aderisse significativamente a quella concezione teleologica della storia concepita da Hegel.
Un'idea di storia intesa come progresso dello Spirito, in cui lo Stato rappresenta il punto in cui esso realizza al massimo grado la propria libertà, non poteva fornire all'espansione coloniale una migliore legittimazione teorica. I popoli senza storia venivano sottratti all'oblio, integrati nella Weltgeschichte e resi partecipi del trionfo dello Spirito. Come detto in apertura, una tale impostazione comporta ovvie ripercussioni negative sul rapporto che essi avevano impostato con la propria storicità prima dell'instaurazione del potere coloniale. La loro visione del mondo viene infatti tradotta in termini estranei alla propria cultura, ed inseriti in un sistema che colloca il proprio punto di partenza, e potremmo dire anche di arrivo, in Europa: al suo interno non vi è spazio per riconoscere le specificità del diversi gradi che il progresso della storia attraversa sulla strada verso il proprio apogeo. Pertanto la storiografia, ovvero il luogo in cui quel percorso viene razionalizzato e descritto in relazione al proprio fine, finisce non soltanto per escludere dalla propria trattazione
interi passaggi, ma addirittura attua una vera e propria esenzione morale nei confronti della storia del mondo in nome di quell'ethos superiore che la governa.
Guha sembra volerci dire che l'indipendenza politica non è stata sufficiente per obliterare l'idea secondo cui l'India è entrata nella storia grazie alla dominazione inglese e che, nonostante tutto, essa rimane ancora relegata ai confini della storia del mondo. La sua critica si propone pertanto come stimolo per l'elaborazione di una nuova visione del proprio passato che permetta finalmente la stesura di una storiografia puramente indiana, scritta da indiani e scevra da contaminazioni aliene.
Un chiaro invito insomma ad «espropriare gli espropriatori» (8)  e tornare in pieno possesso della propria storia, che tuttavia racchiude la consapevolezza dell'impossibilità di poter avere successo semplicemente invertendo il segno dei codici in cui si esprime la storiografia (9). Per questo motivo si rende necessario, secondo l'autore, rivolgersi a campi limitrofi a quello del sapere storico, in primis la letteratura, dai quali può derivare una nozione di storicità totalmente inedita sulla quale basare la propria riflessione. Si tratta insomma di valicare i limiti della disciplina per individuare un nuovo sentiero lungo il quale sia possibile raccordare l'idea di Weltgeschichte di derivazione hegeliana con la storia di un altro mondo, che racconta la realizzazione di un altro spirito, di un'altra coscienza.
Il complesso dialogo che Guha instaura con la filosofia della storia di Hegel, come abbiamo già in parte accennato, attesta un approccio inedito alla problematica della storiografia postcoloniale: “La Storia ai Limiti della Storia del Mondo” si configura infatti come opera complessa non soltanto nella forma, ma anche, anzi, soprattutto, nei suoi contenuti e nelle sue conclusioni.
Da un certo punto di vista, nell'ambito degli studi postcoloniali, questo testo potrebbe essere letto come simbolo di una vera e propria svolta. È lo stesso autore che pare volercelo suggerire: «Questo testo (...) affronta una tematica che ho trattato per la prima volta circa vent'anni fa. Pur occupandomene da molto tempo, però, finora non ero mai arrivato a esplorarla tanto in profondità» (10).
Il breve passaggio citato ci comunica due concetti fondamentali: il primis che la critica nei confronti
della storiografia coloniale, punto cardinale del progetto dei Subaltern Studies, sta facendo un passo avanti, innalzando il proprio tono e cimentandosi in ragionamenti squisitamente filosofici – o meglio potremmo chiamarlo teorici, per evidenziare lo scarto da uno stadio precedente in cui
l'attenzione era rivolta maggiormente alla sfera della prassi.
In secondo luogo, e forse si tratta del punto più importante, tradurre il proprio ragionamento su un piano filosofico, e confrontarsi dunque niente meno che con la filosofia hegeliana, significa per Guha dimostrare come ad un progetto di studio e di ricerca come i Subaltern Studies, ma allargare la considerazione all'intero settore degli studi postcoloniali, non si possa imputare un totale e aprioristico rifiuto delle categorie del pensiero occidentale. Cerchiamo di essere più chiari:
nell'introduzione si era fatto riferimento alla critica mossa nei confronti dell'immobile immobile Partito Comunista Indiamo sottesa all'ideazione del Subaltern Studies Collective. Non potremmo tuttavia cogliere quell'implicito quanto essenziale biasimo se non ricordassimo come è proprio negli stadi iniziali di organizzazione della sinistra che noi possiamo trovare i primi tentativi di tradurre ed adattare al contesto indiano impianti concettuali europei – in questo caso il marxismo – ritenuti altrimenti inservibili in un contesto tanto diverso da quello d'origine. Pertanto, sebbene i lavori prodotti dal Subaltern Studies Collective non siano da considerare testi militanti, è decisamente significativo notare come lo sforzo di elaborare sistemi di valori e concetti adatti al contesto indiano partendo dall'analisi dei corrispettivi europei non rappresenti un'assoluta novità, ma anzi derivi da una tradizione, quella comunista, che da quel confronto ha tratto i suoi migliori spunti.
“La Storia ai Limiti della Storia del Mondo” è pertanto il frutto dell'applicazione di un metodo già noto all'ambito politico indiano ad un nuovo contesto, che potremmo in generale definire filosofico, ma che nello specifico riguarda il rapporto dell'uomo con la propria storicità. La singolarità che ne deriva, e che caratterizza indubbiamente il libro di Guha, sta pertanto nel fatto che se da una parte l'India aveva necessità di evidenziare le proprie peculiarità per evitare una troppo facile assimilazione nel paradigma marxista, dall'altro il confronto con l'Europa sul tema della storicità significa la vera e propria rivendicazione di una dignità, di una concreta esistenza da sempre negata sotto l'etichetta di popolo senza storia.
Un'opera che potremmo dunque definire carica di un forte valore simbolico, ma alla quale, forse proprio a causa del suo tentativo di affrontare un tema tipico degli studi postcoloniali, il rinnovamento della storiografia, in maniera del tutto originale, non è stato conferito unanime giudizio favorevole.
Per avanzare delle precise considerazioni sulla ricezione de “La Storia ai Limiti della Storia del Mondo”, può tuttavia essere utile fare un passo indietro e riportare qualche dato riguardo la diffusione più generale delle opere di Ranajit Guha.
Innanzitutto non si registrano traduzioni dall'inglese in alcuna lingua, fatta eccezione per l'italiano, in cui è comunque disponibile solo il testo che abbiamo preso in esame (11). In secondo luogo troviamo piuttosto significativi i risultati ottenuti cercando le recensioni dei libri di Guha sull'archivio online JSTOR (12): mentre per “A Rule of Property for Bengal”(13)  e “Dominance Without Hegemony” (14) otteniamo infatti rispettivamente 5 e 6 recensioni, per altri testi il numero si riduce drasticamente a una sola. In questi ultimi casi, ovvero per quanto riguarda “An Indian Historiography of India” (15), il nostro “History at the Limit of World History”(16)  e il più recente “The Small Voice of History”(17), i risultati della ricerca ci offrono piuttosto una serie di saggi in cui i suddetti testi vengono inscritti in riflessioni più ampie sulla natura, gli scopi e i progressi della ricerca storiografica postcoloniale, o ancora sulla relazione tra questo campo e il paradigma postmoderno.
Le conclusioni, come abbiamo già accennato, possono divergere sensibilmente. Prendiamo come esempi due fra i saggi che JSTOR offre come risultato alla nostra ricerca per il titolo “History at the limit of world-history”.
Nel suo “Beyond the Postmodern Moment?” (18), Patrick Finney mette in luce l'influenza che il postmodernismo ha esercitato sul modo di intendere la storia, e si interroga sulla possibilità o meno di considerare esaurita la sua energia innovatrice in ambito storiografico. Con una nutrita rassegna di opere esemplari di questo rinnovamento, l'autore intende dimostrare come esso non possa in alcun modo dirsi pienamente compiuto, in quanto è del tutto evidente, e il libro di Guha ne è la prova, che esistono ancora ampie possibilità di sviluppo e arricchimento per la pratica storica.
Di segno contrario è invece “Expanding Worlds of Word History”19 di Raymond Grew, il quale punta piuttosto a criticare la pretesa della world history di demolire, o perlomeno superare i tradizionali schemi concettuali della disciplina storica senza tuttavia fornirne valide alternative. In questo caso “History at the Limit of World-History” viene chiamato in causa proprio come dimostrazione di come da “tutta la saggezza e tutte le connessioni ad un passato rilevante” che possono essere riscontrati in testi simili non riesca tuttavia ad emergere una chiara concezione della storia, né tantomeno un preciso metodo storiografico.
In generale si può concordare con Finney nel sostenere che in ambito storiografico sussista ancora oggi un intenso dibattito, ma certamente non solo riguardo al possibile potenziale residuo del paradigma postmoderno. Se da un lato al lavoro dei Subatern Studies viene riconosciuto un importante valore per il rinnovamento della storiografia indiana – ricordiamo quanto la ricezione dei due testi di Guha incentrati su questioni strettamente locali sia stata diffusa – dall'altro si può senz'altro sostenere che nel momento in cui si tratta di instaurare un dibattito teorico di più ampia portata l'entusiasmo della storiografia occidentale si modera fortemente. Sembrerebbe insomma che lo snodo essenziale da risolvere oggi nel campo storiografico non riguardi unicamente una mera questione di metodo, bensì un ben più ampio quesito riguardo il rapporto dell'uomo con la propria storicità in un mondo reso sempre più piccolo dalla globalizzazione, ma nel quale rivendicano il proprio spazio un numero sempre crescente di individualità.

“La Storia ai Limiti della Storia del Mondo” diventa dunque un testo alquanto significativo nel momento in cui lo si legge come tentativo da parte di una di quelle nuove individualità di partecipare attivamente ad un rinnovamento non soltanto pratico, ma anche teorico della storiografia del ventunesimo secolo.


NOTE

8 Ranajit Guha, La storia ai limiti della storia del mondo, Milano, Sansoni, 2003, p.18.
9 Cfr. Ranajit Guha, The Prose of Counter-Insurgency, in «Subaltern Studies II: writings on South Asian history and society», 1983, pp. 1-42.
10 Ranajit Guha, La storia ai limiti della storia del mondo, Milano, Sansoni, 2003, p.17.


11 Si fa riferimento ai testi in cui Guha compare come unico autore: non sono stati dunque presi in considerazione i volumi collettanei o le raccolte di saggi.
12 http://www.jstor.org/
13 Ranajit Guha, A rule of Property for Bengal: an essay on the idea of permanent settlement, Mounton & Co, 1963
14 Ranajit Guha, Dominance without Hegemony. History and Power in Colonial India, Cambridge, Harvard University Press, 1997.


15 Ranajit Guha, An Indian Historiography of India: A Nineteenth Century Agenda & Its Implications. Calcutta, K.P. Bagchi & Company. 1988.
16 Ranajit Guha, History at the Limit of World-History, New York, Columbia University Press, 2002.
17 Ranajit Guha, The Small Voice of History, Permanent Black, 2009.
18 Patrick Finney, Beyond the Postmodern Moment?, in «Journal of Contemporary History», Vol.40 n.1 (Jan, 2005), pp.149-165.
19 Raymond Grew, Expanding Worlds of Word History, in «The Journal of Modern History», Vol.78 n.4 (Dec. 2006), pp. 878-898.